giovedì 30 settembre 2021

PREVIEW

 


L'artista di Atlanta, Curtis Harding, annuncia l'uscita del  nuovo album ‘If Words Were Flowers’ e condivide il singolo “Can’t Hide It”, una canzone groovy che celebra  l'impegno e la determinazione con un nuovo video. Diretto da Michele Civetta, il video vede la partecipazione degli attori Omar Dorsey (Queen Sugar) e Anthony Mackie (Captain America, The Hurt Locker) in veste di presentatori dell'esibizione di Curtis ad uno show televisivo immaginario degli anni '70, The Velvet Touch. 

Parlando delle ispirazioni dell'album, Curtis racconta che sua madre era solita dirgli, "Regalami i fiori mentre sono ancora qui". La frase è rimasta impressa nella mente del talentuoso cantante e poli-strumentista, un monito a mostrare amore e apprezzamento alle persone che gli sono care prima che sia troppo tardi.

Riflette Harding "Questo è l'album. Sono io che regalo fiori al mondo, a chiunque abbia bisogno di ascoltare cosa dicono queste canzoni in questo momento."

Scritto e registrato nel corso dei due tumultuosi anni appena passati, ‘If Words Were Flowers’ è un bouquet vivace e inebriante, vario ed affascinante. Attingendo a soul vintage, R&B, hip-hop, garage rock e psichedelia, le canzoni sono sincere e grintose, alimentate da ritmi serrati, sezioni di fiato intense e dalla produzione avventurosa di Harding e Sam Cohen (Kevin Morby, Benjamin Booker).


"Nina Simone disse che il compito dell'artista è quello di riflettere il proprio tempo," spiega Harding. "Penso che sia importante vivere il momento in cui si è. Se lo fai e sei onesto e sensibile, puoi entrare in contatto con le persone che hanno bisogno di essere raggiunte."

Anche nel 2017 Harding aveva fatto squadra con Cohen per l'album Face Your Fear, arricchito dalla presenza e collaborazione con il super produttore Danger Mouse. Il successo del disco lo ha portato a suonare con gente del calibro di Jack White e Lenny Kravitz, a partecipare a famosi festival tra cui Newport Folk, Lollapalooza, e Austin City Limits, e ad ottenere i 60 milioni di streaming su Spotify.

NPR ha eletto l'album come uno dei migliori dischi di R&B dell'anno definendo Harding come "un cantante dotato cresciuto a gospel, che pesca a piene mani dalla musica di Curtis Mayfield e Stevie Wonder," mentre Telerama ha elogiato la sua musica composta da "splendide ballate, psichedelia black e bellissimo blues", The Times l'ha definita "Soul viscerale" e Madame Figaro l'ha elogiato dichiarando che "con la guida di Danger Mouse, Curtis Harding crea soul armonico, elettrizzante ed elettronico allo stesso tempo." La traccia dell'album “On And On” è nella scena finale della miniserie della Marvel Studios The Falcon and the Winter Soldier su Disney+.

 


 

Blackswan, giovedì 30/09/2021

mercoledì 29 settembre 2021

STEVE MILLER BAND - LIVE! BREAKING GROUND: AUGUST 3, 1977 (Universal Music, 2021)

 


Se il 1973, aveva visto Steve Miller scalare per le prima volta le classifiche americane con The Joker, tre anni dopo, con Fly Like An Eagle, il chitarrista originario di Milwaukee è pronto per confermarsi ai vertici dello star system americano. Il disco, trainato dalla title track e da altri due singoli di successo ("Take The Money And Run" e "Rock ‘n Me"), torna a scalare le charts americane e diventa ben presto un best seller milionario.

La band vive il suo miglior momento, l’ispirazione è altissima, il pop rock orecchiabile, furbetto e di mestiere quanto si vuole, è però di ottima fattura e incontra il gusto di un pubblico americano che chiede leggerezza e che è affezionato alle accattivanti sonorità radiofoniche. Il successivo Book Of Dreams (1977) conferma il valore commerciale di questa proposta, elegante e disimpegnata, che conquista nuovamente consensi, grazie ad altri singoli bomba ("Jungle Love" e "Jet Airliner"). E’ un periodo magico per Steve Miller, che non sbaglia un colpo e perfeziona sempre i più i meccanismi di una musica nata per vendere milioni di copie.

Live! Breaking Ground, inedito pescato dagli archivi sonori di Miller, venne registrato durante il tour dell'estate 1977, presso Capital Centre di Landover, nel Maryland, e testimonia di una band all’apice del successo e in forma strepitosa (Steve Miller, chitarra e voce, Norton Buffalo, armonica, Lonnie Turner, basso, Gary Mallaber, batteria, David Denny e Greg Douglass, chitarre, e Byron Allred, tastiere). Se la qualità della registrazione è perfetta, lo è ancor di più la performance del rodatissimo gruppo che, pur presentando una scaletta zeppa di singoli, non lesina in sudore ed energia, mostrando i muscoli e graffiando con un approccio blues rock molto contiguo al suono degli esordi.

Divertente, tirato e suonato da una band evidentemente in palla, questo disco dal vivo è una vera chicca per i fan di Steve Miller, che potranno riascoltare vibranti versioni di tante splendide canzoni entrate di diritto nella storia del rock a stelle e strisce: le celebri "Take The Money And Run", "The Joker", "Jet Airliner", "Rock’n Me", "Fly Like An Eagle", ma anche "Living In The Usa", "Space Cowboy", "Serenade" e "Mercury Blues".

Una performance che fotografa il capitolo irripetibile e memorabile di una band che, a partire dagli anni ’80, si ripresenterà appagata e in crisi creativa, rilasciando dischi avari d’inventiva e singoli che, per quanto ancora apprezzati, faticheranno a ripetere il successo dei loro predecessori.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, mercoledì 29/09/2021

martedì 28 settembre 2021

LONELY WOMEN - LAURA NYRO (Clombia, 1968)

 


Laura Nyro era una donna che viveva di contraddizioni: dal lato umano, era una persona timida, insicura, schiva (si narra che durante la prima audizione per una grande casa discografica, volle suonare al buio, con il piano illuminato solo dalla luce di un televisore posto alle sue spalle), mentre il suo lato artistico svelava un’anima esuberante e passionale, un torrente in piena di note, poesia e raffinate fantasie letterarie. Laura abbatteva continuamente gli standard espressivi del suo tempo, si gettava in una febbrile ricerca, spesso istintuale, per superare i limiti convenzionali del fare arte e del comporre musica. Il suo estro compositivo era tutto tranne che rigoroso, la sua musica era costruita su coordinate talvolta indecifrabili, non apparteneva a un genere o a un contesto ben definito, dal momento che la sua ispirazione traeva linfa vitale da un coacervo di moduli, riadattati a uso e consumo di un'inventiva senza freno.

Eppure, come spesso accade a chi è capace di guardare oltre, la Nyro non trovò mai in vita il successo che avrebbe meritato: troppo colta e raffinata per il grande pubblico, incapace di comprendere quelle sue canzoni a incastro, prive della linearità che fa vendere dischi e rassicura l'ascoltatore. Totalmente disinteressata alla fama, si definiva "sposata alla musica e alla poesia", e riteneva che essere artisti significasse essere liberi di fare quel che si vuole, senza compromessi commerciali. La sua gloria, allora, arrivò postuma, solo dopo il prematuro decesso avvenuto nel 1997 per un tumore alle ovaie (lo stesso male che uccise anche sua madre).

Come la storia spesso ci ha insegnato, perché il mondo si accorgesse della Nyro, fu necessario che la sua musica venisse a mancare e che la critica si rendesse conto di quanto fosse attuale il suo linguaggio e di quanti artisti, nel corso degli anni, da quella musica abbiano tratto ispirazione. Eli And The Thirtheen Confession (secondo full lentgh datato 1968), a distanza di quasi cinquant’anni, non sembra invecchiato di un solo giorno. La Nyro era un artista che guardava al futuro e per questo, oggi, vive nel presente.

Il suo timbro unico, quell’esplosione di ottave da far tremare i cristalli e una capacità interpretativa multiforme e inimitabile, la collocano fra le più grandi vocalist di sempre. Prendete, ad esempio, l'iniziale Luckie e domandatevi quante volte nella vostra vita abbiate ascoltato qualcuno prendere tutte quelle note, con così tanta tecnica disinvoltura. Le tredici canzoni in scaletta brillano, quindi, per bellezza interpretativa e compositiva, e spaziano fra jazz, musical, pop, blues, soul, all’interno di un’architettura in cui l’estensione impossibile di Laura convivono con un'imprevedibile sequenza di cambi tempo, di improvvisi rallenti e di repentine accelerazioni. Il tutto impreziosito ed esaltato dagli arrangiamenti scintillanti di Charlie Calello, innovativi ed elegantissimi.

Difficile indicare una canzone più bella delle altre, ma se c’è un brano capace di toccare nel profondo, di risucchiarci nelle sue atmosfere malinconiche da jazz club in cui si tira l’alba tra volute di fumo, è Lonely Women, un blues che scorre sul velluto di complicate armonie vocali sulle quali la Nyro resta in equilibrio per raccontare, senza filtri, la vita difficile di tante donne sole.

Un’esistenza tetra e senza più attesa, scriveva Maupassant a proposito di Jeanne, protagonista del suo romanzo Una Vita. Ed esattamente questo il tema ripreso dalla Nyro in Lonely Women, il cui testo, poetico e dolente, è la perfetta fotografia di tante esiziali solitudini. “Nessuno si affretta a casa dalle donne sole, una ragazza potrebbe morire senza il suo uomo, E nessuno lo sa meglio delle donne sole”. E ancora: “Lasciami morire la mattina presto, lacrime amare, lacrime amare …non ho figli per cui essere nonna”.

Fuori dai consueti standard della ballata, il brano ha un’improvvisa accelerazione nella parte centrale, che nulla toglie, però, agli struggimenti evocati dal sax del grande Zoot Sims, che apre e attraversa la canzone. La Nyro, a proposito della performance del sassofonista, dirà in seguito:” Zoot Sims è entrato in studio guardando il pavimento. Poi ha fatto una cosa con il suo sax in cui si sente solo l'aria che esce dallo strumento, il suo modo di comunicare la sua solitudine nella canzone. Charlie (Calello) ed io sedevamo lì, e piangevamo. Era così bello ed era così bello perché era tutto nell'aria... questo uomo più anziano in questo grande studio in questo giorno di pioggia ... era così tranquillo, è stato fantastico."

 


 

Blackswan, martedì 28/09/2021

lunedì 27 settembre 2021

THRICE - HORIZONS/EAST (Epitaph Records, 2021)

 


A voler giocare con il titolo del disco, è un dato di fatto che l’orizzonte musicale dei californiani Thrice sia sensibilmente cambiato da quello degli esordi. Un orizzonte certamente più ampio, la cui linea di demarcazione, quello fra i generi che lo compongono, è qualcosa di sfumato e di indeterminato.

Un percorso, quello intrapreso dalla band di Irvine, che ha trasformato l’originario approccio post hard core in una musica più contaminata e melodica. Horizons/East è, il tal senso il culmine della loro evoluzione: al primo ascolto è difficile, comunque, individuare dove collocarlo musicalmente, ma già al secondo e al terzo, si colgono quei dettagli fondamentali per farti dire che questo è, in tutto e per tutto, un disco dei Thrice. Duro e melodico, appassionato e malinconico, potente e seducente. Si sono evoluti, sono cambiati, sono i Thrice.

C’è un orizzonte da raggiungere, là in fondo, e Horizons/East potrebbe essere la perfetta colonna sonora di un lungo viaggio, fisico, certo, ma anche incorporeo, metafisico, spirituale. C’è la meraviglia dei colori e dei vasti spazi, un’atmosfera a tratti ariosa, quasi maestosa, che stupisce, e poi perplime, quando il mood si fa sofferto, malinconico, cupo. Una musica, in tal senso, che gioca con le commistioni di generi, ed è ambigua in modo seducente.

Apre The Color Of The Sky, incipit gonfio di elettronica, che accelera trainato da una ritmica convulsa e sfocia in uno di quei ritornelli alla Thrice, così immediatamente melodico e carico di pathos. Scavengers, il singolo di lancio, mostra sfaccettature decisamente più rock, echi post hard core nello spiegamento frontale delle chitarre, e una magistrale linea di basso. Il buon vecchio post hard core si ripresenta, pimpante e muscolare, anche nella vibrante Summer Set Fire to the Rain, grazie anche alla voce aggressiva di Dustin Kensrue, salvo, poi, arrestare improvvisamente la sua corsa, in un intermezzo morbido e malinconico, che potrebbe far pensare ai Coldplay, se il gruppo di Chris Martin fosse ancora in grado di scrivere grandi canzoni.

Bisogna dar atto ai Thrice di non aver dimenticato il loro passato (non mancano echi del loro splendido The Artist In The Ambulance) ma di essere stati capaci di rileggerlo con altri occhi, più maturi e consapevoli, dando vita così a soluzioni imprevedibili e a decise deviazioni fuori da quella che, un tempo, era la loro comfort zone. Ecco allora il basso potente e metallico di Buried In The Sun, che apre ad aggressivi scenari (quasi) post punk, ecco l’immaginifica Northern Lights, che si sviluppa attraverso moduli jazz e un drumming leggermente in levare e si schiude poi in un ritornello voluttuosamente malinconico, ecco il battito elettronico e l’arpeggio di chitarra che conduce la struggente Robot Soft Exorcism versi territori contigui ai primi Radiohead, ecco la fuligginosa Still Life, che sporca lo sviluppo slintiano con scorie grunge reclamanti una parentela alla lontana con gli Alice In Chains.

Sigilla il disco la conclusiva UnitivEast, sfarfallio pianistico che evapora in un barbaglio di sole, ennesima conferma del talento di una band abilissima a mischiare le carte anche all’interno dello stesso disco.

Piaccia o no ai fan della prima ora, Horizons/East è un disco splendido, dotato della stessa caratura artistica dello strepitoso Vheissue, album della svolta datato 2005. I Thrice oggi sono maestri nel plasmare un suono duro per renderlo alla portata di tutti, da un lato, mantenendo la centralità delle chitarre e la ruvidezza del cantato, dall’altro, smussando, però, le asperità della proposta, con un sapiente dosaggio di elettronica e una predisposizione melodica che, talvolta, lambisce il pop. Un viaggio verso nuovi orizzonti, intrapreso con coraggio, mestiere e intelligenza, senza mai sputtanarsi o tradire un indubbio, solido ed estroso livello qualitativo.

VOTO: 9 




Blackswan, lunedì 27/09/2021

venerdì 24 settembre 2021

EMMA - JEAN THACKRAY - YELLOW (Movementt, 2021)

 


La prima cosa che emerge ascoltando Yellow è come la componente cruciale dell'arte di Emma-Jean Thackray sia la dualità. E ciò a riguardo dei suoi abili paesaggi sonori che combinano in modo non convenzionale ritmi pronti per la pista da ballo e free jazz, dei testi, che si sviluppano a metà strada fra ideologia cosmica e coscienza interiore, e, soprattutto, nella capacità della polistrumentista nata nello Yorkshire, di operare come artista solista all’interno di una consistente ensemble.

La convivenza di tali varianti in una scaletta di un'ora potrebbe culminare in una visione sconnessa; tuttavia, la leadership di Thackray sottolinea che, con il giusto approccio, è possibile raggiungere l'equilibrio tra ideali tanto contrastanti.

In tal modo, l'importanza di una visione corale è stata parte integrante della traiettoria musicale di Thackray, sin da quando ha preso lezioni di corno mentre frequentava la scuola elementare. Da lì, big band e orchestre hanno gettato le basi per sviluppare un suono identificativo.

Nonostante abbia sposato il valore della collaborazione, però Emma-Jean ha anche dimostrato la sua capacità di poter lavorare in solitaria, come ha fatto registrando il suo disco di debutto del 2018, Ley Lines, in cui ha suonato lei stessa ogni strumento. Pochi anni e due EP dopo, la musicista londinese si presenta, invece, in compagnia di svariati collaboratori, per un secondo disco decisamente vibrante.

Rilasciato tramite la sua etichetta Movementt, Yellow, come spiegato dalla Thackray, vive nell’armonia degli insiemi: "L'unicità di tutte le cose nell'universo, che mostra amore e gentilezza, connessione umana". Ad aprire il disco, Mercury procede con un assalto di piatti che sfumano in una melodia di Fender Rhodes, che richiama i momenti più morbidi dei repertori di Alice Coltrane e Miles Davis. Nei momenti finali della composizione, emerge la voce di Thackray che recita: "Parlare, ascoltare, conoscere, amare / Le nostre comunità sono legate dalle parole, dall'ascolto".

L'influenza di Davis, in particolare, pervade tutto il disco, così come la presenza celestiale del Fender Rhodes è uno degli elementi chiave di Yellow, che conferisce una raffinatezza tonale alla teatralità di Green Funk e alle divagazioni alla Steely Dan intrecciate in Rahu Ketu.

Negli ultimi anni, il free jazz ha goduto di una fruttuosa rinascita tra le giovani generazioni di artisti. Alfa Mist, BadBadNotGood, Kamasi Washington ed Ezra Collective sono stati giustamente elogiati per come siano riusciti a rianimare il genere. Ciò che rende degno di nota anche il contributo di Thackray a questa fiorente nuova ondata, è la sua capacità di far convivere la strumentazione di improvvisazione ispirata al jazz e al funk con ritmiche tipiche della musica dance, come avviene nelle giocose Say Something e Sun, i cui battiti pulsanti contribuiscono ad alcuni dei momenti più viscerali del disco, trasformando l’azzardo in un connubio fra due mondi distanti perfettamente riuscito.

Se da un lato, il disco gode di molta libertà espressiva grazie ai lussureggianti arrangiamenti, in certi casi (Spectre su tutti), alcune composizioni sembrano recintate da un filo invisibile, come se si fosse persa l'opportunità di espandere l'ampiezza musicale e di abbandonarsi a uno sviluppo più selvaggio. Nonostante l'abbondanza di energia e innovazione che scorre in tutto Yellow, può sembrare, così, che talvolta le redini siano tenute troppo salde in certi passaggi che trarrebbero ulteriore beneficio da una maggiore ferocia. Ecco, una dose di coraggio in più, avrebbe aggiunto un punto al voto finale.

E’ questo l’unico difetto, però, di un disco complesso e voluttuoso, non certo di facile e immediato approccio, ma che, ascolto dopo ascolto, sfodera un fascino irresistibile che conquista. Consigliato a chi ha voglia di uscire dalla propria comfort zone.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, venerdì 24/09/2021

giovedì 23 settembre 2021

PREVIEW



I Black Label Society annunciano Doom Crew Inc., l’undicesimo album in studio in uscita il 26 novembre su Spinefarm. 

L’album sarà disponibile in versione digitale, CD e doppio vinile in tre varianti di colore in edizione limitata: bianco, argento e grigio/marmo. Inoltre, Spinefarm ha ideato un’esclusiva box (solo 500 disponibili in tutto il mondo!) che include: vinile, cassetta, CD, maglia, spilla, patch e foto card ufficiale.

L’album, che contiene 12 tracce, è insieme un tributo alla crew della band, i cui membri vengono definiti come “i primi a sanguinare, gli ultimi ad andarsene”, e a tutti i fan hardcore che, nel 1998, si contrapponevano al KISS Army. I brani, che sono stati registrati al Black Vatican, studio in casa di Zakk, sono allo stesso tempo inni ai festeggiamenti ma anche al lutto, colonne sonore perfette per serate esaltanti quanto per i momenti di disorientamento. In questo nuovo lavoro Zakk condivide gli assoli con Dario Lorina, sempre accompagnato poi dal bassista John “J.D.” DeServio e dal batterista Jeff Fabb.

 


 

 

Blackswan, giovedì 23/09/2021 

mercoledì 22 settembre 2021

LONELY TEARDROPS - JACKIE WILSON (Brunswik, 1958)

 


Era sexy, terribilmente sexy. Jackie Wilson saliva sul palco e le donne perdevano letteralmente la testa per lui. E’ per questo che veniva chiamato Mr.Excitement: le sue movenze feline e i suoi ammiccamenti sensuali procuravano fra il folto pubblico femminile uno stato di eccitazione febbrile. Jackie aveva imparato a muoversi sul ring, quando, fin dall’età di sedici anni, iniziò a incrociare i guantoni e a schivare i pugni degli avversari. Plastico, reattivo, rapidissimo, Wilson fece di quell’esperienza pugilistica la palestra per i suoi successi canori, un allenamento per il grande palco del rhythm & blues, che lo portò a essere in pochi anni (prima con i The Dominoes e poi da solo) una stella di prima grandezza e un esempio artistico per le generazioni future (al suo modo di ballare si ispirò un giovane Michael Jackson).

Nonostante il successo e gli agi economici, Mr.Excitement non fu mai un uomo accomodante: il carattere fumantino e una predisposizione naturale a cacciarsi nei guai, lo portarono spesso ad avere problemi con la giustizia. Storie di droga, di alcol e depressione, ma soprattutto reati. Il vizietto dell’evasione fiscale, un poliziotto malmenato durante un concerto, e una sparatoria, il 15 febbraio del 1961, di cui l’unica cosa certa è che Wilson si beccò una pallottola nello stomaco, sono le macchie più consistenti di un’esistenza vissuta sempre sopra le righe. 

Quando la sera del 25 settembre del 1975, Jackie sale sul palco del Latin Casino di Cherry Hill per un concerto di beneficenza, la sua parabola artistica è già da tempo in declino. L’ultima canzone portata al primo posto della US R&B Chart è Higher And Higher e risale al 1967. Eppure, nonostante Mr. Exicetment non sia più quello di un tempo, la gente lo ama ancora e non vede l’ora di sentirlo cantare.

Wilson attacca uno dei suoi cavalli di battaglia, Lonely Teardrops, una hit del 1958 (arrivò alla settima piazza di Billboard 100), che parla di una relazione finita e della sofferenza di un uomo che piange disperatamente l’assenza della propria amata (You know my heart does nothing but burn, crying, Lonely teardrops, My pillow's never dry of lonely teardrops, Come home, come home, Just say you will, say you will).

Jackie, però, non sembra lucido, ha il volto contratto in una smorfia ed è madido di sudore. Mentre sta pronunciando il verso iniziale “My heart is crying” viene colpito da infarto, cade a terra e batte violentemente la testa. Ricoverato d’urgenza in ospedale, entra in coma. Ci vogliono quattro mesi perché i medici riescano a fargli riprendere conoscenza. Ma ormai è tardi: Jackie è in stato vegetativo, ha perso la vista, l’udito e la facoltà della parola. Quei colpi che era sempre riuscito a schivare con l’eleganza sensuale di un felino, sono tornati sotto le sembianze di un destino beffardo e alla fine lo hanno messo ko. Morirà nove anni più tardi, il 21 gennaio 1984, per complicazioni polmonari. 




Blackswan, mercoledì 22/09/2021

martedì 21 settembre 2021

DURAND JONES & THE INDICATIONS - PRIVATE SPACE (Dead Oceans, 2021)

 


Durand Jones e i suoi Indications continuano a percorre a ritroso la strada della black music, oscillando fra anni ’60 e anni ’70, e ripristinando con passione e serio approccio filologico suoni antichi che, nelle loro sapienti mani, mantengono ancora oggi un’incredibile forza propulsiva. Così, se inserisci Private Space nel lettore cd e schiacci play, la prima cosa che ti passa per la mente è: “Accidenti, questo disco degli Earth, Wind And Fire non lo conoscevo!”. E non potrebbe essere diversamente, visto che il terzo album della band originaria di Bloomington pulsa esattamente come i classici EWF targati anni '70.

Queste dieci tracce non si allontanano molto, almeno dal punto di vista concettuale (tirare a lucido la storia della black music), dal precedente stile retro-soul della band, anche se gli elementi degli anni '60 che avevano alimentato i primi due dischi, vengono qui sostituiti dalla lucentezza del suono disco che andava di moda dalla metà alla fine degli anni '70. Elementi di The Gap Band, The Brothers Johnson, Hot Chocolate e Isley Brothers si mescolano con il dance-pop dei Bee Gees, creando un set fatto per essere inserito nella playlist di una qualche discoteca retrò.

Un approccio vintage che puoi ritrovare anche nei seducenti titoli delle canzoni, Sexy Thang, The Way That I Do e More Than Ever, che richiamano alla memoria la sensualità di quel periodo storico che Jones e la band vogliono replicare. Tuttavia, a voler dare anche un’occhiata veloce alle liriche delle canzoni, gli argomenti trattati sono talvolta ben radicati nel presente, con richiami ai giorni difficili della pandemia e del lockdown (Love Will Work It Out) e a una rinata speranza (I Can See).

Trattasi, però, solo di episodi, dal momento che la maggior parte delle liriche parla di questioni di cuore, perfetti clichè per un disco il cui intento, alla fine, è solo quello di divertire. E in tal senso la band centra il bersaglio: il funk/disco di canzoni come Sea Of Love è irresistibile, gli echi di Giorgio Moroder in Witchoo fanno perdere la testa, il ballatone Ride Or Die, punteggiato di chitarra wah-wah e voci in falsetto riesce addirittura a evocare il fantasma di Marvin Gaye, mentre Reach Out potrebbe facilmente essere scambiata per una gemma proveniente dal repertorio di Hall & Oates.

Private Space non è certo un disco dalle grandi rivelazioni, si limita a far rivivere il passato, evitando però operazioni di copia incolla, ma lucidando, semmai, con entusiasmo e qualche piccolo tocco di modernità, quegli straordinari groove che riempivano le piste da ballo quarant’anni fa. Durand Jones e il fidato batterista/polistrumentista/co-vocalist Aaron Frazer in tal senso sono maestri, e mettere nel lettore questo cd è un po' come rivivere la stessa magia. Niente che cambi la storia di questo 2021, ma solo la certezza che, sparato a tutto volume a una festa, Private Space sarà in grado di riportare, con naturalezza, tutti in pista a ballare fino all’alba. 

VOTO: 7




Blackswan, martedì 21/09/2021

lunedì 20 settembre 2021

SUNDAY BLOODY SUNDAY - U2 (Island, 1983)

 


All'inizio degli anni '70, camminare per una strada di Derry (Londonderry secondo gli Unionisti) era un pò come aggirarsi in una polveriera con una candela in mano. I cattolici dell'IRA (indipendentisti) e i protestanti dell'UDA e dell'UVF (lealisti) si ammazzavano fra di loro, senza farsi troppi scrupoli per la popolazione civile (le bombe nei luoghi pubblici erano all'ordine del giorno). L'esercito inglese pattugliava la città coi carrarmati, e gli infiniti posti di blocco erano spesso scenario di attentati e sparatorie. La situazione era ulteriormente aggravata dallo strapotere della polizia nordirlandese (la Royal Ulster Constabulary), ricettacolo di violenti al servizio della monarchia inglese e paragonabili per le efferatezze compiute alle squadracce della morte di sudamericana memoria (come in Argentina o in Cile, la storia irlandese di quegli anni è funestata dalla tragedia dei desaparesidos).

Quando il governo unionista varò l’Internment, ovvero la possibilità per le forze dell'ordine di imprigionare un cittadino a tempo indefinito e senza processo, la situazione già incandescente divenne esplosiva.

Il 30 gennaio del 1972, la NICRA (Northern Ireland Civic Rights Assosiacion) organizzò a Derry una manifestazione pacifica per protestare contro le misure restrittive appena varate. Migliaia di persone, fra le quali molte donne e molti giovani, iniziarono a sfilare per le vie della città controllati dai paracadutisti britannici. Quale sia stato il motivo che accese la miccia dei disordini non è dato sapere. Quel che è certo è che i militari inglesi fecero improvvisamente fuoco sulla folla, colpendo 26 persone, di cui 14 a morte. Il colonnello Wilford, a capo delle truppe di Sua Maestà, si è sempre difeso sostenendo di aver risposto al fuoco dei manifestanti (in seguito, peraltro, smentito dai alcuni suoi soldati), ma i molti giornalisti testimoni dell'eccidio affermarono che i manifestanti erano pacifici e disarmati e che all'echeggiare dei primi spari si diedero immediatamente alla fuga (versione dimostrata dal fatto che molti degli uccisi furono colpiti alle spalle).

La commissione di inchiesta governativa incaricata di far luce sulla strage, accolse la tesi difensiva dei militari e non emise condanne. Solo nel 2010, il premier britannico Cameron, fece ammenda per l'accaduto, condannando l'operato dell'esercito e chiedendo ufficialmente scusa ai parenti delle vittime.

I terribili fatti di sangue di quella domenica di gennaio vennero raccontati in un bel film di Paul Greengrass (Bloody Sunday, Orso d'Oro a Berlino nel 2002) e ispirarono una delle più belle e famose canzoni degli U2, Sunday Bloody Sunday, presente nell'album War del 1983).

L'idea per la musica e lo spunto per il testo vennero al chitarrista The Edge, che lavorò alla canzone in solitaria, mentre Bono si trovava in luna di miele. Quando il cantante rientrò dal viaggio, gli venne affidata la stesura del testo, al quale però, nonostante gli sforzi, non riusciva a dare lo sviluppo desiderato. Bono ricorda che riuscì a superare il blocco creativo solo grazie al continuo pungolo della moglie che, per settimane, ogni mattina, lo spronava dicendogli: "Vai a finire Sunday Bloody Sunday!".

La canzone ebbe enorme riscontro mediatico e fu il brano che consacrò gli U2 al definitivo successo planetario. Tuttavia, non mancarono numerose critiche da parte di chi interpretò la canzone attribuendole forti connotati di militanza politica in senso indipendentista. Fu così che Bono, come testimoniato anche nel live Under A Blood Red Sky, per lungo tempo, fu costretto a introdurre dal vivo la canzone con le parole " This is not a rebel song ". 

Sunday Bloody Sunday racconta quei tragici eventi, è un gancio di memoria per il sangue versato, un omaggio alle vittime e al dolore di chi, quel giorno, perse i propri congiunti: “Tonight, Broken bottles under children's feet, Bodies strewn across the dead-end street”. E Ancora: “And the battle's just begun, There's many lost, but tell me who has won? The trenches dug within our hearts, And mothers, children, brothers, sisters torn apart”.

In questi versi è racchiusa l’insensatezza di un odio che non guarda in faccia a nessuno, che miete vittime innocenti in una guerra civile che non ha alcuna ragione d’essere. C’è l’empatia di Bono verso il proprio popolo e la sofferenza per le troppe morti, ma non certo una posizione politica radicale. Sunday Bloody Sunday è, soprattutto, una canzone di pace e di speranza, che cita la vittoria d’amore di Gesù (“The real battle just begun, To claim the victory Jesus won”), invita a non girare la testa dall’altra parte e a tener desto lo sguardo sul problema (I can't believe the news today, Oh, I can't close my eyes and make it go away) e a perseguire un sogno di fratellanza (‘Cause tonight We can be as one). Una canzone indissolubilmente legata a quel 30 gennaio 1972 divenuta, nel tempo, messaggio universale contro tutte le guerre.

 


 

 

Blackswan, lunedì 20/09/2021

venerdì 17 settembre 2021

BLACK IS THE COLOR OF MY TRUE LOVE'S HAIR - NINA SIMONE (Colpix Records, 1959)

 


Sono stati fatti molti studi e versati fiumi d’inchiostro per ricostruire filologicamente la provenienza di Black Is The Color Of My True Love’s Hair, un traditional folk, le cui origini sembrerebbero risalire alla terra di Scozia, citata espressamente nel testo originale della canzone (il fiume Clyde). Una canzone, però, che, come succede a molti brani folk dalle origini antiche, ha mutato abiti nel corso del tempo, sia da un punto di vista musicale che testuale. Il brano, che viene già citato dagli studiosi a fine ‘800, fu, infatti, erroneamente fatto rientrare nella tradizione musicale dei monti Appalachi, in quanto John Jacob Niles (1892-1980), compositore, cantante, musicista e ricercatore folklorico del Kentucky, se ne attribuì la paternità, avendone modificato la melodia, che è poi quella che tutti oggi conosciamo.

Black Is The Color Of My True Love’s Hair, nella sua versione originale, recita una sorta di lettera scritta da una ragazza, disperata per aver appreso della morte in guerra del suo innamorato. Un brano tristissimo, il lamento di una donna per un amore che poteva essere eterno e che invece la malasorte ha distrutto, infrangendo i sogni di una giovane coppia. Un testo intenso e appassionato, che descrive con inusuale delicatezza la profondità del legame d’amore: “Nero è il colore dei capelli del mio vero amore, il volto come una bella rosa, il viso più dolce e le mani più gentili, amo il terreno su cui si posa. Amo il mio amore e lui lo sa bene, amo il terreno sul quale cammina…”. La morte, però, ha cancellato la speranza di un futuro insieme, possibile solo nell’aldilà, e ha trasformato la grazia del sentimento in uno struggente stato d’invasiva nostalgia: “L’inverno è trascorso e le foglie sono verdi, sono finiti i tempi che abbiamo conosciuto, e tuttavia spero che verrà il giorno, quanto tu ed io saremo una cosa sola. Andrò al Clyde a piangere e singhiozzare, perchè non potrò mai più essere contenta, ti scriverò delle brevi righe, e patirò la morte diecimila volte”. Liriche al contempo dolenti e dolcissime, in cui il colore nero dei capelli dell’amato diviene anche il vuoto cromatico che accompagna un lutto impossibile da rielaborare.

La canzone fu reinterpretata nel corso degli anni da moltissimi artisti quali Joan Baez, Christy Moore, Luciano Berio, che mise anche mano agli arrangiamenti, e più di recente dai Coors, da Celine Dion e da Paul Weller. La versione più nota, però, è senza dubbio quella di Nina Simone, che la pubblicò per la prima volta nel suo live Nina Simone At Town Hall del 1959. La reinterpretazione della cantante e pianista originaria della Carolina del Nord, però, ha un testo modificato e più corto, che ben presto divenne un inno del movimento per i diritti civili. “Nero è il colore dei capelli del mio vero amore, il viso dolce e meraviglioso, gli occhi più puri e le mani più forti, amo la terra che calpesta, amo la terra che calpesta”, canta la Simone. Se è vero, però, che gli struggenti riferimenti sentimentali restano immutati, è altrettanto vero che il colore nero assume, qui, tutt’altra valenza: è, infatti, l’orgogliosa affermazione identitaria di un popolo in lotta, allora come oggi, per i propri diritti.  

 


 

Blackswan, venerdì 17/09/2021