lunedì 31 agosto 2020

DEEP PURPLE - WHOOSH! (earMusc, 2020)


 Non sarebbe il caso che se ne andassero in pensione?

Beh, certo, l’età è quella. Però se ascolti il disco, questi vecchietti sembrano davvero in gran forma.

Dimmi che senso ha? Ormai lo fanno solo per soldi.

Dai, ma non scherzare! Questi di soldi ne hanno a palate. E poi, anche se fosse, perché dovrebbero lavorare gratis? Il disco, ti assicuro, è davvero buono: quindi, ben venga la stolta pecunia.

Si, però Ian Gillan ormai è bollito e non ce la fa più a prendere i suoi mitici acuti.

Vero. Il tempo però passa per tutti e, siamo sinceri, chi a settantacinque anni riesce a fare le cose che faceva a venti? Sse questa obiezione vale per le performance dal vivo, in studio non è così. Ian ha cambiato modo di cantare e con qualche ritocchino in fase di produzione (ma nemmeno tanti) riesce ancora a stare sul pezzo e a fare la sua porca figura.

L’ipotetico dialogo fra detrattori e fan dei Deep Purple potrebbe continuare così per ore e probabilmente non se ne verrebbe a capo. Come spesso succede in molte dispute, la verità sta semplicemente nel mezzo. Non è certo un mistero che la band britannica, dopo ben mezzo secolo di carriera, mostri, soprattutto nei membri originari rimasti, qualche cedimento dovuto all’età avanzata; ed è altrettanto vero che questa musica potrebbe suonare anacronistica alle orecchie di chi è immerso completamente nel presente e magari guarda in tralice e con sospetto tutto ciò che proviene dal passato. E poi, i cinque vecchietti fanno lo stesso genere ormai da mezzo secolo, e anche i suoni sembrano rimasti strenuamente ancorati agli anni ’70.

Tuttavia, come dovrebbe sempre essere, almeno per chi ama scrivere di musica, i dischi vanno ascoltati, e parlare male di Whoosh!, ventunesimo album in studio di Gillan e soci, sarebbe una narrazione non veritiera. Perché, una volta evidenziate le eventuali criticità e i limiti dell’operazione, questo nuovo, ennesimo album, è davvero buono.

Che i Deep Purple, negli ultimi anni, grazie anche ai riuscitissimi innesti nella line up di Steve Morse e Don Airey, stessero vivendo, se non una seconda giovinezza, momenti di rinnovato vigore, è fuor di dubbio. Whoosh! non fa altro che confermare l’ottimo stato di forma di una band che, nello specifico, pur riproponendo una materia nota, riesce a farlo con inusuali freschezza e vigoria, almeno per una compagine di ultra settantenni.

Il disco, è forse pleonastico dirlo è suonato benissimo. Gillan, come si diceva, è molto meno pirotecnico dei giorni gloriosi, ma se la cava con mestiere; Glover e Paice continuano a darci dentro con intensità, e Morse e Airey non sono certo due scappati di casa, ma musicisti coi fiocchi, che sanno il fatto loro e aggiungono, in termini di verve, quello smalto in più, che serve a far brillare le canzoni del disco (la prova di Airey, per dire, è di altissimo profilo).

In scaletta, poi, compare qualche tentativo, peraltro riuscito, di spostare gli accenti per cambiare una declinazione ormai nota: a fianco, infatti, delle consuete e incalzanti cavalcate hard (Drop The Weapon, Throw My Bones, No Need To Shout), troviamo azzardi prog di ottima fattura (Man Alive, Step By Step), riletture di loro classici (lo splendido strumentale And The Address) e tirate rock’nroll dal sapore antichissimo (What The What).

Nulla di nuovo sul fronte occidentale, e probabilmente nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Se è vero, però, che i Deep Purple, che la storia l’hanno fatta, non hanno più da tempo lo sguardo rivolto al futuro, è altrettanto vero è ancora presto per definirle balene spiaggiate. Un ritorno positivo e ispirato, che a loro allunga la vita, e a noi il piacere dell’ascolto.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, lunedì 31/08/2020

 

venerdì 28 agosto 2020

COUNTRY WESTERNS - COUNTRY WESTERNS (Fat Possum Records, 2020)


Si chiamano Country Westerns e arrivano da Nashville; quindi, fare due più due, è un attimo. Eppure, bastano pochi secondi della prima canzone in scaletta per capire che in questo disco d’esordio di country e di Nashville non si vedere l’ombra. Loro sono, invece, un grintosissimo trio rock composto dal cantante, songwriter e chitarrista Joseph Plunket (già membro della band The Weight), dal batterista Brian Kotzur (che ha all’attivo una militanza nei Silver Jews del povero David Berman), e dalla violinista e bassista Sabrina Rush.

L’album, uscito per la Fat Possum Records (l’etichetta di Courtney Marie Andrews, Modest Mouse, X, etc), è stato registrato tra Nashville e New York e prodotto da Matt Sweeney, che ha già collaborato con Iggy Pop, Queens Of The Stone Age e Jake Bugg, per citarne alcuni.

Come dicevamo, siamo lontani anni luce dal genere che il nome della band potrebbe evocare: in scaletta, infatti, ci sono undici canzoni di robusto rock americano, suonate con urgenza quasi punk (il minutaggio di ogni singolo brano si attesta sui tre minuti) e con quella immediatezza e freschezza che spesso solo una scarna strumentazione riesce a trasmettere (in qualche canzone si aggiunge una seconda chitarra, elettrica o acustica).

Un disco tirato, diretto, senza pause e senza inutili fronzoli, i cui riferimenti stilistici sono abbastanza evidenti. In primo luogo i Gaslight Anthem, a cagione di una certa somiglianza della voce roca, ispida e scorbutica di Joseph Plunket con quella di Brian Fallon, e del tiro ruvido e grezzo dei brani (It’s Not Easy, I’m Not Ready). Lo spettro dei rimandi, tuttavia, può ulteriormente ampliarsi ed è un attimo tirare in ballo band come i Lucero, gli Hold Steady e, perché no, i Dream Syndicate di Steve Wynn.

Non c’è nulla di sostanzialmente nuovo in questo esordio e probabilmente manca la canzone che svetta, il singolo trainante il disco. Tuttavia, avercene di album così: graffiante, sincero, suonato in modo semplice ma estremamente efficace e capace di farci far la pace con un genere, il rock, che oggi manca spesso di quell’essenzialità e di quell’urgenza che invece dovrebbero sempre caratterizzarne l’essenza.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, venerdì 28/08/2020

giovedì 27 agosto 2020

PREVIEW

 

 

Il 9 ottobre Matador Records pubblicherà Sleepless Night degli Yo La Tengo – un EP di 6 brani composto da una nuova canzone (‘Bleeding’) e le cover di brani dei The Byrds, The Delmore Brothers, Bob Dylan, Ronnie Lane e The Flying Machine.
Inizialmente i brani di Sleepless Night sono stati pubblicati come lato di un vinile incluso in un edizione limitata del catalogo che accompagnava la retrospettiva sulla carriera dell'artista giapponese Yoshitomo Nara al Los Angeles County Museum of Art. Fan di lunga data degli YLT, Nara ha lavorato in collaborazione con il gruppo - Georgia Hubley, Ira Kaplan e James McNew - per scegliere le canzoni dell'EP.
La versione dell'EP in uscita via Matador sarà in formato 12" con copertina originale ad opera di Nara, un disegno della band di Hubley e un'illustrazione di McNew.

 


 

 

Blackswan, giovedì 27/08/2020

mercoledì 26 agosto 2020

A CASE OF YOU - JONI MITCHELL (Reprise, 1971)

 


Una delle più belle canzoni d’amore mai scritte è una canzone che racconta di un amore finito. E non c’è da stupirsi nemmeno tanto, se si pensa che, quasi sempre, sono gli amori impossibili o sfortunati a essere ispirazione per canzoni o opere letterarie immortali.  

Quando si pensa all’amore, infatti, non è un caso che nell’immaginario collettivo il paradigma di questo sentimento sia la storia di Romeo e Giulietta, tragedia di sangue e dolore, narrazione di un amore destinato all’eternità proprio in virtù della sua impossibilità a radicarsi nel quotidiano e quindi a essere banalizzato dall’abitudine.  

Nascosta dietro le liriche di A Case of You non ci sono eventi tragici e sventurati come quelli occorsi agli amanti shakespeariani, ma è fuor di dubbio che il testo non parli di un amore felice o realizzato. Fonte d’ispirazione dovrebbe essere la rottura della relazione della Mitchell con Graham Nash, mentre altri sostengono, invece, che si tratti di un’infatuazione impossibile di Joni per Leonard Cohen. Comunque sia, la bellezza della canzone travalica il mero dato storico e diviene universale e sofferta elegia a un rapporto alla deriva o impossibile da concretizzarsi, nonostante i sentimenti siano puri e totalizzanti.

Il brano venne scritto nel 1970 e compare in Blue (1971), uno dei capolavori assoluti della west coast music e pietra angolare, al pari del coevo Tapestry di Carol King, del cantautorato femminile del decennio. Un disco scarno e asciutto negli arrangiamenti, composto da canzoni intimiste e introspettive, declinate attraverso il verbo del folk e pochissimi strumenti: la chitarra, il dulcimer e la voce carezzevole e colorata di mille sfumature della Mitchell.

Il fulcro del disco è proprio A Case Of You, una ballata meravigliosamente struggente e intima, in cui la songwriter canadese mette a nudo la propria anima senza filtri protettivi. Un mood quasi colloquiale esaltato dalla parca strumentazione: James Taylor alla chitarra acustica, Russ Kunkel alla batteria e Joni al dulcimer degli Appalachi. Un accompagnamento garbato che mette in risalto un falsetto svettante e gravido di emozioni.

A Case Of You, dicevamo, è una delle canzoni d’amore più apprezzate di sempre, ed è davvero strano che sia così, perché fin dal primo verso Joni ci dice chiaramente che quell’amore è finito (“Just before our love get lost…”) a causa delle promesse fatte dal suo amante e mai mantenute (“Hai detto: sono costante come una stella del nord/E io ti ho detto: costantemente nell’oscurità”).

Eppure, il legame fra i due amanti è ancora strettissimo: lui non ha dato stabilità al rapporto e lei ha una natura indomabile, selvaggia, è attratta dalla solitudine (“I’m a Lonely Painter”) e da uomini che non hanno paura di peccare (“Ho paura del diavolo ma sono attratta da chi non ne ha paura”); ma tra i due c’è un vincolo quasi sacro (“Tu scorri nel mio sangue come vino sacro, il tuo sapore è così amaro e così dolce”).

Non solo. Tra Joni e il suo amante esiste anche un legame ulteriore, che farebbe pensare a un pigmalione artistico e a un reciproco scambio di ispirazione: “Hai detto amare è toccarsi le anime/Di certo hai toccato la mia/Perché parte di te si versa fuori dal mio corpo”). Due poli che si attraggono e si respingono, due anime inquiete che non possono stare insieme ma nemmeno posso fare a meno di amarsi.

E quando arriva il ritornello, la profondità di questo amore impossibile si svela attraverso una delle immagini poetiche più originali di tutta la letteratura rock: “Scorri nel mio sangue come vino sacro/Potrei bere un’intera cassa di te, tesoro/e riuscirei a reggermi in piedi/Continuerei a reggermi in piedi”.

L’ebbrezza dell’amore è un vino che non smetteremmo mai di bere.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 26/08/2020

martedì 25 agosto 2020

PREVIEW

Vincitori di un GRAMMY Award® e acclamati a livello internazionale, i Deftones annunciano l’atteso nuovo album in studio dal titolo “Ohms” in uscita il 25 settembre su etichetta Warner Records. I Deftones presentano inoltre il video ufficiale della epica title track “Ohms”, diretto da Rafatoon. Le ipotesi sul nuovo album hanno in breve tempo scatenato la curiosità sia dei fan che dei media, mentre i canali online della band venivano letteralmente oscurati. Il mistero ha continuato a crescere dopo che la band ha svelato l’artwork dell’album senza aggiungere alcuna spiegazione. Disegnata dal collaboratore di lunga data Frank Maddocks (autore anche dell’iconica cover di “White Pony”), l’affascinante immagine composta da due occhi e migliaia di pixel bianchi è apparsa in modo criptico su un cartellone pubblicitario nel quartiere culturale di Los Angeles, in Fairfax Avenue, sopra il ristorante Canter’s Deli, con la nota “Questo è il nostro momento… Divoreremo i prossimi giorni”.

Registrato agli Henson Studios e ai Trainwreck Studios, “Ohms” è stato creato dai Deftones in modo meticoloso. Un eccellente tour de force , il loro primo album in quattro anni dalla pubblicazione dell’acclamato “Gore” (2016). La band – Chino Moreno, Frank Delgado, Stephen Carpenter, Abe Cunningham e Sergio Vega – ha creato un album denso e complesso, risultato di un lavoro comune in cui tutti hanno dato il massimo. L’album vanta anche la partecipazione del produttore, amico e veterano Terry Date, già al fianco della band per “Adrenaline” (1995), “Around the Fur” (1997) e “White Pony” (2000). Tutto questo ha posto le basi per la creazione di “Ohms”: 10 brani impregnati di quella grezza spensieratezza e di quegli incomparabili groove che hanno reso unico il suono dei Deftones per oltre due decadi.

Quest’anno la band celebra il ventesimo anniversario del grandioso album “White Pony”. In una recente conferenza stampa virtuale i Deftones hanno annunciato la prossima pubblicazione di una versione remixata dell’album intitolata “Black Stallion”, un’idea concepita durante la realizzazione dell’album originale. 



Blackswan, martedì 25/08/2020

lunedì 24 agosto 2020

INDIGO GIRLS - LOOK LONG (Rounder/Concord, 2020)

Vado a memoria, ma non ricordo un disco brutto delle Indigo Girls. E questo, semplicemente, perché di dischi brutti non ne hanno mai fatti. Certo, non tutta la produzione è stata al livello di Swamp Ophelia (1994), Come On Now Social (1999) o Despite Our Differences (2006); ma anche quando si sono cimentate con un repertorio natalizio (Holly Happy Days, 2010) sono sempre riuscite a mantenere dritta la barra dell’ispirazione.

Un folk rock militante e appassionato, il loro, che bilancia perfettamente armonie vocali e melodie irresistibili con vibranti sferzate elettriche. Un’alchimia, quella fra Amy Ray e Emily Saliers, raggiunta grazie all’equilibrio fra la scrittura ruvida della prima e quella più raffinata della seconda, e un’equanime suddivisione delle composizioni. 

Un’armonia di fondo e una comunanza d’intenti che si ritrova anche in questo nuovo Look Long, quindicesimo album in studio, che va a suggellare trentacinque anni di carriera. Undici canzoni, sei a firma della Saliers e cinque a firma della Ray, che le ragazze hanno registrato pressi gli studi della Real World di Peter Gabriel, sotto la produzione di John Reynolds (che suona anche la batteria) e con la collaborazione John Adams e Graham Kearns (chitarre), Clare Kenny (basso), Carol Isaacs (tastiere), Lyris Hung (violino) e Caroline Dale (violoncello).

Look Long, come di consueto, alterna momenti più emergici e virati al rock a seducenti ballate contigue al folk. E sono proprio queste il fiore all’occhiello di un album coeso, ispirato e non privo di qualche guizzo innovativo (la ritmica caraibica della divertita Howl At The Moon).

Tra i pezzi, per così dire, più movimentati, vale la pena citare il funky rock dell’iniziale Shit Kickin’, il tiro delle chitarre di Change My Heart, spinta nel ritornello da un coraggioso e inusuale arrangiamento d’archi, o lo scalciante incedere della splendida K.C. Girls (impreziosita dalle solite brillanti armonie vocali). Tutte gran belle canzoni, a cui si affiancano un pugno di ballate che svettano non solo come le cose migliori del disco ma dell’intero repertorio delle due ragazze della Georgia.

Country Radio è di una bellezza rara: il perfetto intreccio delle voci e della strumentazione elettroacustica e il dolce aroma di un folk radicato e al contempo senza tempo e latitudine, fanno vibrare con intensità la corda delle emozioni. E così anche la conclusiva Sorrow And Joy, volatile melodia che si libra dolcissima fra le note di un pianoforte, o l’incedere nostalgico e rilassato della title track, ricordo d’infanzia dalla filigrana color seppia.

Look Long è un album bellissimo, cesellato con cura artigianale sia nelle parti vocali (da sempre il plus delle due songwriter) che nel suono; un disco che, in un panorama musicale schiavo delle mode e del bisogno di stupire a tutti i costi, risulta orgogliosamente contro tendenza. Famigliare, classico, cristallino.

Se amate la musica d’autore, senza fronzoli e con tanta sostanza, il ritorno delle Indigo Girls è probabilmente una delle uscite imperdibili dell’anno.

VOTO: 8

 

 

 

Blackswan, lunedì 24/08/2020

venerdì 21 agosto 2020

RUFUS WAINWRIGHT - UNFOLLOW THE RULES (BMG, 2020)

Rufus Wainwright, nonostante una vena melodica quasi istintiva, resta un artista di difficile comprensione, perché ha avuto una formazione culturale varia e stratificata, e ha recepito nel proprio bagaglio culturale una ricchezza di generi che sono confluiti nelle sue canzoni, ove convivono all’interno di una scrittura intensa, audace e non convenzionale.

Un ecclettismo che ha spinto il songwriter canadese a uscire dagli steccati del genere pop, troppo stretti per la sua visione, e che l’ha portato a sperimentare e rischiare, e ad abbracciare anche progetti anacronistici e fuori dal tempo, eppure sempre così interessanti e fascinosi. Non a caso, negli ultimi dieci anni di carriera, l’unico disco che potremmo definire “normale” è stato Out Of The Game del 2012; prima e dopo, Wainwright si è cimentato con l’opera lirica (Prima Donna, 2015), con il pianoforte classico (l’omaggio alla madre nell’intenso Songs For Lulu del 2010), con il progetto tributo, musical letterario, a Shakespeare (Take All My Loves 9 Shakespeare Sonnets del 2016), senza dimenticare, poi, che nel 2007 aveva addirittura esplorato il songbook di Judy Garland con Rufus Does Judy at Carnegie Hall.

Unfollow The Rules si allinea ai dischi più “convenzionali” di Rufus (anche qui il virgolettato è d’obbligo), può far pensare a Poses (2001) o a Want One (2003) e Want Two (2004), se non che, i dodici brani in scaletta, coagulano al loro interno anche echi di tutte le esperienze discografiche, vissute dal musicista canadese successivamente.

Se il pop è l’ossatura portante del disco, è altrettanto vero che non mancano riferimenti alla musica classica, sfarfallii operistici, ammiccamenti al musical, spolverate elettroniche, e incursioni “black” nel blues, nel soul e nel gospel. Non un disco facile, sia ben inteso (ma quale disco di Rufus lo è?), è davvero impossibile archiviare Unfollow The Rules in uno o due ascolti, e pretendere di averne colto l’essenza. C’è, infatti, in queste canzoni, una complessità di fondo, un impianto strutturale costituito da addizioni e da crescendo, un rigoglio di arrangiamenti che vivono tanto di magniloquenza quanto di piccole sfumature.

E’ una musica in cui la forma è essa stessa sostanza, un pacco dono confezionato con una carta regalo dai colori sgargianti e di primissima qualità, un abbecedario del pop, avanguardistico e al contempo classico, declinato con la grazia antica di una vecchia signora che serve tè e biscottini al burro o con una svenevole melodrammaticità, che per chiunque sarebbe patetica esibizione, ma che invece per Rufus è autentico moto dell’anima.

Un disco coeso, grazie anche all’ottimo lavoro in fase di produzione di Mitchell Froom (musicista e produttore che ha collaborato con Peter Gabriel, Bob Dylan, Crowded House, Los Lobos, Suzanne Vega, e molti altri) e un filotto di canzoni che, a ogni ascolto, crescono d’intensità e risplendono in tutta la loro raffinata bellezza: Damsel In Distress, Early Morning Madness, Trouble In Paradise, Only The People That Love, Devils And Angels sono gemme che andranno ad arricchire i classici di un repertorio già di per sè straordinario.

Rufus Wainwright e' sempre cosi incredibilmente melodrammatico ed eccessivo, cosi sfacciatamente femminile, cosi spudoratamente elegante e frivolo, cosi tenacemente romantico in un mondo senza più romanticismo, così argutamente intelligente nello spiazzare le certezze anche dell’ascoltatore più in sintonia, che è inevitabile, e probabilmente indispensabile, amarlo alla follia. Qualunque cosa faccia, soprattutto dischi così belli.

VOTO: 8

 

 

 

Blackswan, venerdì 21/06/2020

giovedì 20 agosto 2020

PREVIEW

 

A distanza di solo un anno dal loro ultimo Where The Action Is, i Waterboys tornano sul mercato con il quattordicesimo album in studio. Il disco, intitolato Good Luck, Seeker uscirà il 21 di agosto via Cookyng Vinyl. La nota stampa parla di “un grande disco rock”. Staremo a vedere. Intanto, in rete girano i primi singoli estratti dall’album.

 

 

 

 

Blackswan, giovedì 20/08/2020

mercoledì 19 agosto 2020

DIZZY - THE SUN AND HER SCORCH (Royal Mountain Records, 2020)

I Dizzy hanno perso “i denti da latte” (quei Baby Teeth che intitolavano il loro disco d’esordio) e sono diventati grandi. Sono passati, infatti, solo due anni del loro primo album e l’impressione è quella di trovarsi davanti a una band diversa, matura e decisamente più esperta. Baby Teeth non era un brutto disco, per carità, ma palesava quelli che sono spesso i difetti di una band esordiente. L’incertezza di imboccare con decisione una strada, l’eccessiva sudditanza rispetto ai modelli d’ispirazione, una scrittura che suggeriva talento, ma troppo prudente per essere davvero efficace, un repertorio altalenante e non tutto alla stessa altezza.

Eppure, nonostante il frutto acerbo degli inizi, la pianta è cresciuta rigogliosa, si è presa il tempo per irrobustire le radici e prendersi spazio, luce e sole. Il risultato è questo The Sun And Her Scorch, un disco che potremmo definire il fratello maggiore del precedente, che possiede una superiore consapevolezza, che riesce là dove Baby Teeth aveva in parte fallito.

Registrato ai Mechanicland Studios di Quebec e nella cantina della mamma di Katie Munshaw, la frontwoman, The Sun and Her Scorch è stato autoprodotto e mixato da Craig Silvey (Arcade Fire, Florence + The Machine). Le redini del songwriting sono state prese saldamente in mano da Katie Munshaw, che ha spostato l’attenzione delle sue liriche dal mondo dei teenager verso riflessioni più profonde e incentrate sul proprio io interiore. Vulnerabilità, solitudine, tristezza, ma anche un piglio giovanile capace di momenti di ottimismo e speranza.

Il synth pop non molto originale del primo disco (che aveva comunque momenti brillanti) è ora messo maggiormente a fuoco, le melodie sono molto più incisive, l’equilibrio tra luce e penombra, tra paesaggi esposti alla calda luce del sole e derive dolcemente malinconiche è perfettamente realizzato.

Permane una certa ingenuità di fondo, pregio e limite della giovinezza, che nello specifico, però, spesso si traduce in freschezza: impossibile non essere rapiti dal saliscendi carezzevole di Sunflower, dalla melodia cristallina di The Magician, dai vapori malinconici di Ten o dalla tristezza acerba ma toccante di Primrose Hill.

Niente di epocale o rivoluzionario, ci mancherebbe; i ragazzi canadesi, però, hanno abbracciato con decisione una loro propria cifra stilistica e The Sun And Her Scorch è il primo, importante passo per definirla. Il futuro potrebbe riservare grandi sorprese.

VOTO: 7

 

 

 

Blackswan, mercoledì 19/08/2020

martedì 18 agosto 2020

PREVIEW

 

Róisín Murphy condivide i dettagli del nuovo attesissimo album Róisín Machine. Il suo primo nuovo progetto dopo Hairless Toys, pubblicato nel 2015 e nominato ai Mercury Prize, e l’altrettanto acclamato Take Her Up To Monto, pubblicato nel 2016, arriverà il 25 settembre su Skint/BMG.
 
Róisín Machine è il culmine di una partnership durata anni tra Róisín e uno dei suoi più fidati collaboratori, Crooked Man aka DJ Parrot. Un nuovo lavoro, pieno di brani potenti come “Simulation”, “Jealousy”, “Incapable”, “Narcissus” e “Murphy’s Law”, fatto per essere ascoltato tutto d’un fiato, dall’inizio alla fine.
 
Il glorioso regno della più imprevedibile e instancabile Sacerdotessa della Coolness continua con il nuovo singolo “Something More”, che si insinua con la sua malinconia ed essenzialità e ti conduce fino alla sua anima. È un inno da fine serata, quando tutti alzano le mani al cielo e si abbracciano, e la sua voce non è mai stata così maestosa, ricca e profonda come in questo brano, allegro ma maturo.
 
Róisín Murphy, che mostra un’incredibile padronanza delle sue emozioni, spiega: “La vedo come il canto del cigno in onore della vita che eravamo abituati a vivere, c’è molta spavalderia nel testo e il personaggio è una sorta di anti-eroe ma il desiderio indefinibile e la sensazione di arrivare a un punto morto sono cose che ci accomunano tutti al momento!”.
 
Scritta a New York City dalla cantante Amy Douglas, è arrivata in maniera spontanea, come tutto quello che riguarda Róisín. “Ci siamo incontrate l’anno scorso durante un talk molto interessante sulla psicologia e la scienza della Dub a Londra. Ci siamo capite subito, credo che abbiamo anche infastidito gli speaker, tra cui c’era anche Andrew Weatherall!
 
Le ho chiesto di scrivere per me un brano che parlasse della continua insoddisfazione e del volere sempre di più. Dopo poco mi ha inviato una demo semplicissima, solo voce e piano. La vera sfida poi era prendere la direzione giusta dal punto di vista musicale, con l’arrangiamento e la voce.
 
La prima versione era decisamente più pop, funky, molto esagerata. Sembrava funzionasse quando abbiamo iniziato a lavorarci prima del lockdown, ma quando ci siamo confrontati con una nuova realtà ci siamo stancati di questa dimensione unica e univoca. Quindi quando è venuto fuori dai remix di Crooked questo groove intenso e profondo, ho deciso di cambiare direzione. Mi è sembrato perfetto, l’arrangiamento era perfetto per la canzone e anche per il momento che stavamo vivendo. Stiamo attraversando dei tempi bui e questo è uno spiraglio di luce, il sole che sorge sulle note dell’ultima canzone di una serata passata a divertirsi. Abbiamo bisogno di un po’ di allegria e di qualcosa di sbalorditivo in questi giorni”.

Dalla disco-funk di “Incapable”, alla quintessenza di “Narcissus” che cristallizza la New-Disco, alla prepotente “Murphy’s Law” dalle atmosfere anni ’70, Róisín Machine offre tutto quello che si può desiderare. Ai brani già noti, si aggiungono 5 inediti tra cui “We Got Together” e il suo funk in stile Dalek e la fantastica “Shellfish Mademoiselle”. Un album perfetto da ascoltare nello stereo di casa ma che è in grado di prendere vita anche in uno scantinato e si aggiunge all’impeccabile carriera di Róisín, lunga 25 anni e con momenti altissimi di musica iconica, arte, moda e molto altro.

Róisín Machine sarà disponibile su CD e vinile black gatefold e in un bundle speciale con vinile gatefold blu e una fanzine autografata, in esclusiva sullo store ufficiale di Róisín.

 

 

 

Blackswan, martedì 18/08/2020

lunedì 17 agosto 2020

LIELA MOSS - WHO THE POWER (Bella Union, 2020)

Dopo il personalissimo My Name Is Safe in Your Mouth del 2018, un album di debutto da solista emotivamente altalenante, e un interessante Ep di cover (A Little Bit Of Rain del 2019) dedicate alla pioggia, Liela Moss ha attraversato un periodo di profonda auto-riflessione creativa e personale. Partendo dal presupposto che "se hai intenzione di destrutturare la psiche moderna, tanto vale ballare”, la Moss ha forgiato un album intenso e drammatico, carico di partiture elettroniche, motivato dal desiderio urgente di interrogare se stessa sul ruolo dell'individualità in questi tempi difficili.

Non molto conosciuta alle nostre latitudini, Liela Moss è la frontwoman della rock band dei The Duke Spirit, e ha inanellato collaborazioni importanti sia con Nick Cave che con gli Unkle. Dopo cinque album di fiero e avvincente rock'n'roll, la cantante ha momentaneamente accantonato il progetto principale (ma i Duke Spirit non si sono ufficialmente separati), ha avuto un figlio e si è stabilita nel Somerset con il chitarrista della band Toby Butler (che è anche il suo produttore).

Se nel suo primo disco, seppur fascinoso, la Moss era ancora indecisa sulla strada da imboccare, qui la scelta è netta e spinge verso un synth rock pulsante e dalle trame oscure, enfatizzate da ritmiche battenti e ipnotiche e da una voce livida e intensa.

Who The Power è un disco compatto, solido e vibrante, con qualche ottima canzone (lo straordinario opener di Turn Your Back Around, coi sui tamburi pirotecnici e un brillante riff di synth, la melodia inquietante di Atoms At Me, i rimbombi elettronici della melodrammatica Battlefield), che spicca in un repertorio che sembra aver attinto linfa vitale dal songbook dei Depeche Mode.

Manca l’intuizione da capogiro, però, e nel complesso qualche slancio di originalità: così, una produzione quanto mai coesa, finisce per intrappolare le canzoni in un loop quasi claustrofobico. La splendida voce della Moss, però, è l’arma vincente che salva la scaletta dal rischio di cadere nell’anonimato di una certa prevedibilità di fondo.

VOTO: 6,5

 

 

 

Blackswan, lunedì 17/08/2020

venerdì 14 agosto 2020

ALANIS MORISSETTE - SUCH PRETTY FORKS IN THE ROAD (Sony, 2020)

Sono passati ben otto anni dall’ultimo disco in studio, Havoc And Bright Light uscito nel 2012. Otto anni, uno iato lunghissimo, in cui Alanis Morissette ha dovuto misurarsi con la vita vera, fatta di gioie e di dolori: due gravidanze, l’ultima delle quali, portata a termine un anno fa, inaspettata, le beghe processuali con l’ex manager, accusato di averle rubato sette milioni di dollari e, quindi, condannato a sei anni di reclusione, le difficoltà di far convivere il ruolo di musicista con quello, sempre più impegnativo, di mamma, la dipendenza dal cibo e quella, ossessionante, per il lavoro.

Un’assenza che aveva creato molti dubbi sul futuro della rocker canadese e sulla qualità di questo Such Pretty Forks In The Road, soprattutto alla luce del non brillantissimo predecessore, che palesava limiti di scrittura e un’ispirazione in fase calante. Invece, Alanis è tornata sulle scene alla grande, con undici canzoni che per intensità riconducono ai suoi anni migliori, quelli concentrati negli anni ’90, decennio in cui la Morissette vendeva milioni di dischi e insegnava come si canta a molte rocker della sua generazione.

Qualcosa è cambiato ed è inevitabile. A 46 anni, l’ex ragazza arrabbiata di Jagged Little Pill è ora una bella donna di mezz’età, più riflessiva e matura, costretta a convivere con le ansie, le frustrazioni e le responsabilità di tutti coloro che hanno affrontato il giro di boa dei quarant’anni. Certi graffi rock che irruvidivano l’esuberante inclinazione melodica della Morissette sono ora sfumati a favore di un approccio più pop e mainstream, ma non piatto e prevedibile come spesso era successo nel precedente lavoro.

E’ ancora lei, certo: quella voce inconfondibile, quella voce che riconosceresti fra mille, fa di nuovo la differenza del marchio di fabbrica di qualità, e quel suono, che abbiamo imparato a conoscere negli anni ’90, riaffiora talvolta, ma in una veste più moderna, cucitale addosso dal produttore Alex Hope, che ha fatto un lavoro eccelso soprattutto sulla sezione ritmica.

Such Pretty Forks In The Road è un disco che alterna momenti solari ed energici slanci vitali a cupe riflessioni esistenziali; ciò nonostante, che si tratti di ballate o brani decisamente più pimpanti, il mood è sempre quello di una accattivante orecchiabilità, elemento irrinunciabile in tutte le undici canzoni in scaletta. La progressione melodica di Smiling, canzone che apre il disco come simbolo del nuovo corso, è di quelle che stendono, ed è proprio questa capacità di confezionare melodie ariose la caratteristica fondamentale di un album che conquista, ascolto dopo ascolto, inesorabilmente.

A volte, basta un arpeggio di chitarra, una sola idea reiterata con maestria, a fare da gancio irresistibile (Ablaze, riflessione sull’essere madre), in altri casi il beat di un pianoforte a trainare la forza innodica di canzoni pronte da cantare a squarciagola sotto il palco (l’irresistibile appeal radiofonico di Reasons I Drink). Ci sono le ballate, poi, che sono anche il piatto forte della scaletta: la splendida Diagnosis, interpretata con vibrante passione, in cui due improvvisi accordi in minore creano grumi di depressa malinconia, o i chiaroscuri della sconsolata e conclusiva Pedestal, voce, piano e archi per raccontare la fine di un amore.

E c’è, poi, la Morissette che gioca con le ritmiche, come nel crescendo teso e melodrammatico di Nemesis, che sfocia nel finale tambureggiante di una batteria dagli accenti quasi dance, o nei drammatici sali scendi emotivi di Losing The Plot, ascoltando la quale è un attimo pensare a Kate Bush.

Non c’è niente di nuovo in Such Pretty Forks In The Road eppure tutto appare rinnovato, più consapevole, come se per la prima volta, da tempo, la Morissette fosse concentrata esclusivamente sulla musica e non solo sul suo essere artista, ed evitasse così di rincorrere il suo glorioso passato per trovare una nuova se stessa, che non rinnega ciò che è stato, ma cerca di adattarlo a un diverso sentire. Più fragilità, che rabbia, più malinconica dolcezza che impeto. Più donna che rocker.

VOTO: 7,5

 

 

 

Blackswan, venerdì 14/08/2020

giovedì 13 agosto 2020

PREVIEW

 

L’astro nascente del country, Colter Wall, ha annunciato l’imminente uscita del suo terzo album, via La Honda Records/Thirty Tigers. Il disco uscirà il 28 agosto e si intitolerà Western Wings &Waltzes And Another Punchy Songs. Dopo aver gosuto dei servigi di Dave Cobb per il precedente Songs Of The Plais del 2018, Wall ha autoprodotto il disco, che è stato registrato presso fli Yellow Dog Studios Di Wimberley, Texas.

 

 

 

Blackswan, giovedì 13/08/2020

mercoledì 12 agosto 2020

WHY DOES IT ALWAYS RAIN ON ME? - TRAVIS (Sony, 1999)

Quante sono le canzoni dedicate alla pioggia? Provate a pensarci e scoprirete che sono tantissime: Rain dei Cult, Have You Ever Seen The Rain e Who’ll Stop The Rain? dei Creedence Clearwater Revival, Rain When I Die degli Alice In Chains, Here Comes The Rain Again degli Eurythmics, solo per citarne alcune, le prime che mi sono venute in mente. E si potrebbe andare avanti per ore, dal momento che la pioggia è un elemento naturale di per se evocativo, che genera introspezione e malinconia, ed è un ottima compagna per i momenti di solitudine e tristezza. Insomma, la pioggia è per sua natura poetica, si mescola alle lacrime, suggerisce riflessioni esistenziali: in poche parole, è una grande fonte d’ispirazione.

Lo sa bene Francis “Fran” Healy, cantante e frontman degli scozzesi Travis, che con Why Does It Always Rain On Me?, canzone da lui composta e terzo singolo tratto da The Man Who, album datato 1999, porta la band in cima a tutte le classifiche anglosassoni. E’ il giro di boa della band, che dopo un esordio piacevole, ma non particolarmente centrato (Good Feeling del 1997), con The Man Who (1999) rifinisce il proprio stile, prima acerbo e troppo virato verso il brit pop, e trova consenso di pubblico e critica, divenendo al contempo fonte d’ispirazione per molti gruppi che verranno (Coldplay, Keane, Snow Patrol, etc.).

Influenzati dai Beatles e dai coevi Radiohead, con il loro secondo album i Travis aprono le porte a un soft rock dai contorni decisamente mainstream, eppure mai prevedibile e banale, alternando ballate malinconiche, perfettamente in linea con i gusti e il mood di fine decennio (The Fear, As You Are, Slide Show), a chicche effervescenti di pop da stadio, leggere, sbarazzine, irresistibili (Driftwood).

Il brano che però sposta gli equilibri è proprio Why Does It Always Rain On Me?, che ad agosto del 1999 entrò nella top ten delle charts britanniche, consegnando la band a un’evidenza mediatica fino ad allora sconosciuta.

La canzone è un pop cadenzato, di facile presa, tratteggiato dal falsetto ammiccante di Healy, che cresce fino a esplodere in un ritornello contornato d’archi e dalla melodia killer, che stende al primo ascolto. Una canzone il cui titolo evoca la sfortuna che spesso ci si accanisce insensatamente contro qualcuno, e che diventa quasi un inno liberatorio per tutti gli sfortunati e i reietti di questo mondo.

In realtà, Why Does It Always Rain On Me? ha una genesi più prosaica che riguarda il mero dato meteorologico. La canzone, infatti, fu scritta da Healy mentre era in vacanza in Israele, dove si era recato, perché nella sua città natale, Glasgow, continuava incessantemente a piovere. Volò, pertanto, per una breve vacanza fino alla città di Eilat, nota per le costanti temperature estive anche durante il periodo invernale. E indovinate un po’? Appena Healy arrivò nella meta vacanziera tanto agognata, iniziò…a piovere.

Ecco, Why Does It Always Rain On Me? è una canzone sulla pioggia, ma in un’accezione meno lirica ed evocativa di quello che si potrebbe credere. Un brano malinconico, certo, e volendo anche triste (quei versi: “Perché piove sempre su di me? È perché ho mentito quando avevo diciassette anni? Perché piove sempre su di me? Anche quando il sole splende, non posso evitare il lampo. Non sopporto me stesso…”, non sono di sicuro un inno alla gioia e tradiscono il tormento interiore dell’autore); tuttavia, a volergli attribuire un significato più pedestre, è soprattutto un’invettiva nei confronti del tempo uggioso.

Tempo uggioso che, qualche mese dopo, si vendicò di Healy. Quando nel 1999 i Travis salirono sul palco assolato del Glastonbury Festival per il loro live act, il sole che splendeva fino a poco prima, svanì all’improvviso e si mise a piovere. Proprio quando iniziarono a suonare Why Does It Always Rain On Me?

Maledetta pioggia.

 

 

 

Blackswan, mercoledì 12/08/2020

lunedì 10 agosto 2020

PRETENDERS - HATE FOR SALE (BMG, 2020)

Settant’anni e non sentirli, istruzioni per l’uso. A voler riderci un po' sopra, questo potrebbe essere il sottotitolo di Hate For Sale, undicesimo album in studio dei Pretenders, band anglo americana capitanata dall’immarcescibile Chrissie Hynde. La cantante e frontwoman, prossima alla veneranda età citata poco sopra, è più in forma che mai e ne dà prova in questo nuovo full lenght, decisamente breve, ma assai incisivo e ispirato.

Che “la ragazza” di Akron fosse lontana dalla pensione e avesse ancora qualche asso nella manica lo avevamo capito già con l’ultimo Alone, un ritorno sulle scene dopo otto anni di iato, che aveva rinsaldato la fiducia dei fan sul futuro della band. Oggi, Hate For Sale conferma che i Pretenders, nonostante le defezioni (le scomparse premature di James Honeyman-Scott e Pete Farndon), i cambi di line up e il tempo trascorso, sono ancora una band che ha qualcosa da dire, grazie all’inossidabile stato di forma della Hynde (che canta con la grinta di una ragazzina) e al suo feeling con James Walbourne, chitarrista che ha affiancato la leader nella composizione di tutte le tracce in scaletta (gli altri sono lo storico batterista Martin Chambers e il bassista Nick Wilkinson).

Hate For Sale, è, dunque, un disco rapido e pulsante (dieci canzoni per trentuno minuti di durata) che coagula alla perfezione quel suono e quello stile che album superbi come Learning to Crawl (1984) hanno cristallizzato nel tempo: il consueto impianto rock che pesca dal punk e dalla new wave e si concede qualche strizzatina d’occhio al pop. La scelta del minutaggio breve è vincente e ben si adatta a queste dieci canzoni che viaggiano veloci su arrangiamenti scarni e puntano dritte e dirette il centro del bersaglio.

La partenza con la title track è la classica bordata punk rock nel classico stile Pretenders, che si ripete con efficacia nelle ottime Turf Accountant Daddy e I Didn’t Know When To Stop. Duri, puri e scalpitanti. Ci sono, però, anche momenti decisamente più leggeri e virati verso il pop: il libeccio chitarristico che soffia melodia sulla solare Maybe Love In NYC, le chitarre croccanti che spingono il singolo The Buzz verso territori radiofonici o You Can’t Hurt A Fool, lentone appassionato dall’anima soul e retrogusto sixties.

Se Junkie Walk è poco più di un riempitivo e risulta il momento più debole del disco, stupiscono, invece, positivamente il reggae di Lightning Man, sorretta da un sensualissima linea di basso, e la conclusiva e struggente Crying In Public, ballata per pianoforte e voce, avvolta in un sottile velo d’archi.

Hate For Sale è il “solito” disco dei Pretenders, laddove l’aggettivo “solito” è, come in questo caso, spesso sinonimo di qualità. Se nel nuovo millennio la Hynde aveva trasmesso qualche segnale, se non di stanchezza, quanto meno di prevedibile appagamento, gli ultimi due dischi sembrano aver riacceso il sacro fuoco di un tempo. Consigliato.

VOTO: 7 



Blackswan, lunedì 10/08/2020

sabato 8 agosto 2020

PREVIEW

 

"Sorry" è il nuovo singolo di beabadoobee estratto dall'attesissimo album d’esordio Fake It Flowers, in uscita il 16 ottobre su Dirty Hit. Un brano dall’atmosfera oscura e affascinante, in cui si scontrano archi e chitarre, che ci presenta l’era di Fake It Flowers in tutto il suo splendore. Da questo brano risulta evidente l’ampio spettro di influenze che ritroveremo in tutto il progetto, dagli Smashing Pumpkins a Daniel Johnston. “Sorry” sarà presentata in anteprima da Zane Lowe durante il suo show Beats1 alle ore 18 del 5 agosto.

Riguardo al nuovo singolo, Bea afferma: “Sorry è un modo per scusarmi, confessando gli errori commessi in un’amicizia e guardando qualcuno che amo disintegrarsi e sparire in quanto persona. È l’idea di scartare qualcosa perché mi sembrava fosse troppo vicino a me e un promemoria personale a non dare mai per scontato cosa avesse potuto avere quella persona.”

Il mese scorso Beabadoobee ha condiviso il primo singolo dal suo album di debutto, Care, trasmesso in anteprima da Annie Mac su BBC Radio 1 per Hottest Record In The World ed è stato ascoltato in streaming oltre un milione di volte.

 

 

 

Blackswan, sabato 08/08/2020

venerdì 7 agosto 2020

DEPECHE MODE - LIVE SPIRITS SOUNDTRACK (Columbia/Sony, 2020)

Dopo il notevole successo ottenuto al box office, i Depeche Mode e Columbia/Sony Music Entertainment hanno deciso di pubblicare in DVD e Blu-Ray il rivoluzionario film-concerto Depeche Mode: SPiRiTS in the Forest. Il cofanetto speciale contiene quattro CD divisi in due DVD e due CD audio. I due DVD contengono il documentario SPiRiTS in the Forest e LiVE SPiRiTS SOUNDTRACKche riproduce fedelmente la registrazione dell’intero concerto della band alla Waldbühne di Berlino durante le ultime date del Global Spirit Tour. Si tratta di un filmato inedito, in quanto mai mostrato al pubblico nella sua interezza.

Oltre ad essere contenuto nel cofanetto, il doppio CD audio LiVE SPiRiTS SOUNDTRACK con le registrazioni dal vivo di tutti i brani, è disponibile per l’acquisto anche singolarmente.

Fatta questa premessa di carattere meramente informativo, occorre ora soffermarsi sull’aspetto che maggiormente ci interessa, e cioè sul contenuto audio dei due cd, che fotografano una serata davvero riuscita e una band che, a dispetto degli anni che passano, è ancora in stato di grazia. Inutile dire che il live è registrato benissimo e che i Depeche Mode dal vivo sono un autentico spettacolo, per tecnica, idee e passione. I fan, o in generale, chi ha avuto modo di vederli sul palco, sa già cosa aspettarsi da questa nuova uscita, il cui valore, è vero, risiede soprattutto nel film documentario, ma che saprà comunque dare grandi soddisfazioni anche nel più economico formato cd.

Due dischi, dicevamo, che rappresentano l’intero repertorio eseguito dalla band al Waldbühne di Berlino. Il primo cd contiene, ovviamente, qualche estratto da Spirits (Going Backwards, Cover Me, Poison Heart), e generalmente brani relativi alla seconda parte di carriera, quella che parte da Violator, per intenderci, tra cui brillano alcuni classici molto apprezzati dal pubblico (World In My Eyes, Useless, It’s No Good).

Il secondo cd, invece, è zeppo raso di hit, ed è sicuramente il disco che sarà più apprezzato anche da coloro che non sono fan accaniti della band, visto che le canzoni ivi contenute sono state tutte, o quasi, veri e propri tormentoni radiofonici.

Si parte con Where’s The Revolution da Spirits e poi il filotto di canzoni che segue è da capogiro: Everything Counts, Stripped, Enjoy The Silence, Personal Jesus, solo per citarne qualcuna. La sorpresa è la cover di Heroes di David Bowie, resa magnificamente con un arrangiamento che, pur non stravolgendone la struttura originaria, crea la rilettura estremamente interessante e lontana da banali copia incolla.

Live splendido e consigliatissimo, quindi, che ha il merito ulteriore di non essere stato artefatto in fase di post produzione, lasciando vivido e appassionato il singalong del pubblico, membro aggiunto della band e protagonista di una serata fantastica.

VOTO: 8

 


 

 Blackswan, venerdì 07/08/2020

giovedì 6 agosto 2020

JOEL DICKER - L'ENIGMA DELLA CAMERA 622 (La Nave Di Teseo, 2020)

Un fine settimana di dicembre, il Palace de Verbier, lussuoso hotel sulle Alpi svizzere, ospita l'annuale festa di una importante banca d'affari di Ginevra, che si appresta a nominare il nuovo presidente. La notte della elezione, tuttavia, un omicidio nella stanza 622 scuote il Palace de Verbier, la banca e l'intero mondo finanziario svizzero. L'inchiesta della polizia non riesce a individuare il colpevole, molti avrebbero avuto interesse a commettere l'omicidio ma ognuno sembra avere un alibi; e al Palace de Verbier ci si affretta a cancellare la memoria del delitto per riprendere il prima possibile la comoda normalità. Quindici anni dopo, un ignaro scrittore sceglie lo stesso hotel per trascorrere qualche giorno di pace, ma non può fare a meno di farsi catturare dal fascino di quel caso irrisolto, e da una donna avvenente e curiosa, anche lei sola nello stesso hotel, che lo spinge a indagare su cosa sia veramente successo, e perché, nella stanza 622 del Palace de Verbier.

Uno scrittore sull’orlo di una crisi sentimentale si trova, suo malgrado, a indagare su un misterioso omicidio avvenuto quindici anni prima in un lussuoso hotel delle Alpi svizzere. Una ragazza intraprendente e sensuale, appena divorziata, lo aiuta a ricostruire cosa accadde nei giorni immediatamente precedenti il delitto e il contesto in cui lo stesso è maturato.

Lungo ben seicento quaranta pagine, L’Enigma Della Camera 622 palesa per l’ennesima volta tutti i pregi e i difetti, ormai cronicizzati, di uno degli autori di best seller più amati al mondo.

Il problema più evidente di Dicker è la scrittura: asciutta e pulita, ma anche terribilmente piatta. Il romanziere svizzero sembra sempre fare il compitino, attento a non sbavare il foglio, ma incapace di sussulti, impennate o guizzi da grande scrittore. Non so dire se sia una scelta stilistica voluta per consentire a chiunque di affrontare senza difficoltà i suoi ponderosi tomi; di certo, Dicker resta sempre in superficie, non approfondisce, non indaga mai sui moti dell’anima (quelli più complessi e nascosti) e si concentra sempre sulla narrazione fine a se stessa. Il risultato è un libro che si legge velocemente e con estrema facilità, ma che palesa limiti di contenuti, dialoghi troppo spesso puerili e personaggi stereotipati e tagliati con l’accetta.

Per converso, bisogna ammetterlo, Dicker è un maestro nel creare trame avvincenti e complicate, a giocare, come in questo caso, su due livelli temporali, facendo la sponda tra passato e presente con estrema scioltezza, a mischiare le carte e a sviare i sospetti del lettore sull’autore del crimine, per stupire con un finale inaspettato.

A metà tra romanzo sentimentale e thriller, L’enigma Della Camera 622 è un piacevolissimo libro d’intrattenimento, che conquista nonostante la prosa scolastica, qualche forzatura negli snodi narrativi e un certo autocompiacimento nel presentarsi al proprio pubblico sic et simpliciter come “lo scrittore” per antonomasia. Nonostante i numerosi difetti, bisogna tuttavia riconoscere a Dicker la capacità di riuscire sempre a sfumare il contesto temporale e di ambientare i suoi romanzi in mondi di fantasia lontani anni luce dalla dura realtà del quotidiano, creando così una fascinazione che ci riporta indietro nel tempo, agli anni delle prime letture, a quei classici d’avventura che ci hanno emozionato e formato. Cosa, a ben vedere, non da poco.

Blackswan, giovedì 06/08/2020