venerdì 21 agosto 2020

RUFUS WAINWRIGHT - UNFOLLOW THE RULES (BMG, 2020)

Rufus Wainwright, nonostante una vena melodica quasi istintiva, resta un artista di difficile comprensione, perché ha avuto una formazione culturale varia e stratificata, e ha recepito nel proprio bagaglio culturale una ricchezza di generi che sono confluiti nelle sue canzoni, ove convivono all’interno di una scrittura intensa, audace e non convenzionale.

Un ecclettismo che ha spinto il songwriter canadese a uscire dagli steccati del genere pop, troppo stretti per la sua visione, e che l’ha portato a sperimentare e rischiare, e ad abbracciare anche progetti anacronistici e fuori dal tempo, eppure sempre così interessanti e fascinosi. Non a caso, negli ultimi dieci anni di carriera, l’unico disco che potremmo definire “normale” è stato Out Of The Game del 2012; prima e dopo, Wainwright si è cimentato con l’opera lirica (Prima Donna, 2015), con il pianoforte classico (l’omaggio alla madre nell’intenso Songs For Lulu del 2010), con il progetto tributo, musical letterario, a Shakespeare (Take All My Loves 9 Shakespeare Sonnets del 2016), senza dimenticare, poi, che nel 2007 aveva addirittura esplorato il songbook di Judy Garland con Rufus Does Judy at Carnegie Hall.

Unfollow The Rules si allinea ai dischi più “convenzionali” di Rufus (anche qui il virgolettato è d’obbligo), può far pensare a Poses (2001) o a Want One (2003) e Want Two (2004), se non che, i dodici brani in scaletta, coagulano al loro interno anche echi di tutte le esperienze discografiche, vissute dal musicista canadese successivamente.

Se il pop è l’ossatura portante del disco, è altrettanto vero che non mancano riferimenti alla musica classica, sfarfallii operistici, ammiccamenti al musical, spolverate elettroniche, e incursioni “black” nel blues, nel soul e nel gospel. Non un disco facile, sia ben inteso (ma quale disco di Rufus lo è?), è davvero impossibile archiviare Unfollow The Rules in uno o due ascolti, e pretendere di averne colto l’essenza. C’è, infatti, in queste canzoni, una complessità di fondo, un impianto strutturale costituito da addizioni e da crescendo, un rigoglio di arrangiamenti che vivono tanto di magniloquenza quanto di piccole sfumature.

E’ una musica in cui la forma è essa stessa sostanza, un pacco dono confezionato con una carta regalo dai colori sgargianti e di primissima qualità, un abbecedario del pop, avanguardistico e al contempo classico, declinato con la grazia antica di una vecchia signora che serve tè e biscottini al burro o con una svenevole melodrammaticità, che per chiunque sarebbe patetica esibizione, ma che invece per Rufus è autentico moto dell’anima.

Un disco coeso, grazie anche all’ottimo lavoro in fase di produzione di Mitchell Froom (musicista e produttore che ha collaborato con Peter Gabriel, Bob Dylan, Crowded House, Los Lobos, Suzanne Vega, e molti altri) e un filotto di canzoni che, a ogni ascolto, crescono d’intensità e risplendono in tutta la loro raffinata bellezza: Damsel In Distress, Early Morning Madness, Trouble In Paradise, Only The People That Love, Devils And Angels sono gemme che andranno ad arricchire i classici di un repertorio già di per sè straordinario.

Rufus Wainwright e' sempre cosi incredibilmente melodrammatico ed eccessivo, cosi sfacciatamente femminile, cosi spudoratamente elegante e frivolo, cosi tenacemente romantico in un mondo senza più romanticismo, così argutamente intelligente nello spiazzare le certezze anche dell’ascoltatore più in sintonia, che è inevitabile, e probabilmente indispensabile, amarlo alla follia. Qualunque cosa faccia, soprattutto dischi così belli.

VOTO: 8

 

 

 

Blackswan, venerdì 21/06/2020

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