venerdì 30 settembre 2016

BABY WOODROSE - FREEDOM (Bad Afro, 2016)



La bella copertina del nuovo album dei Baby Woodrose è di per sé programmatica. Il pugno alzato simbolo del Potere Nero si staglia su uno sfondo stroboscopico ultra-colorato, una time machine utile ad affratellare rabbia Black Panthers e la migliore Psichedelia di Danimarca. Un connubio davvero singolare. Il titolo stampigliato in basso toglie ogni ulteriore dubbio: Freedom, proprio quella, la monumentale slave-song che Richie Havens urlò nel 1969 ai quattrocentomila di Woodstock in difesa degli oppressi d’ogni dove, consegnando l’indimenticabile live act alla storia del Rock e più in generale a quella iconografica del 20° secolo. Ora, a distanza di quasi 50 anni, il brano ci viene riproposto dalla cult-band di Copenhagen e, insieme a pezzi come 21st Century Slave, Mind Control Machine e Peace, va a comporre una scaletta in larga parte contrassegnata da tematiche forti come la disparità sociale, il controllo delle menti e il lavaggio del cervello da parte dei media. Comunque la si voglia pensare sulla disanima che i Baby Woodrose fanno a proposito della moderna schiavitù, Freedom rimane un gran bel disco che suona benissimo. Solido, aspro, saturo di elettricità, Stoner e Garage/Psych, tutte le componenti che hanno reso inimitabile il groove della band di Lorenzo Woodrose sin dagli esordi quando, con  Blows Your Mind! (2001) e sopratutto Money For Soul (2003), anticiparono la rinascita del Rock Psichedelico in Europa (e non solo) fortemente ispirati dal sound seminale di 13th Floor Elevators, Hawkwind e Monster Magnet.




Come da consuetudine, anche questo nuovo album, viene rilasciato dall’eccellente Bad Afro (difficile trovare un brutto disco nel loro catalogo) e arriva quattro anni dopo Third Eye Surgery, lasso temporale durante il quale Woodrose s’è visto addirittura assegnare un Danish Music Award (il Grammy danese) per il sorprendente successo ottenuto dal suo progetto laterale Spids Nøgenhat. Finita la digressione torniamo a Freedom. Si parte con il riff ipnotico e cadenzato di Reality, la voce potente e ricca di pathos di Lorenzo fa il resto, come anche nel brano che segue, la più morbida 21st Century Slave, accattivante ed evocativa come poche. Open Door è la canzone più immediata del lotto: tappeto ritmico sostenuto e pulsante, refrain facile facile che potrebbe spopolare nelle heavy rotation più Pop. Nessuna concessione radio friendly invece nell’impetuosa Mind Control Machine che, con il suo incedere magnetico, ci inonda di buone vibrazioni Hard/Psych di derivazione sixties. Il Folk di scuola Canterbury (alla lunga un po’ stucchevole) che impregna Peace fin nelle viscere introduce la title track, la Libertà dei Baby Woodrose: Fuzz torrido, basso sostenutissimo e percussioni ossessive. Eccoci servita la cover più abrasiva dell’anno! Si prosegue nell’ascolto con i sussulti chitarristici di Red The Sign Post e Mantra, l’apice compositivo del disco, una ballata magica ed intensa irrorata da preziosismi psichedelici e improvvisi slanci elettrici. Bellissima! Chiude il programma la lunga e tediosetta Termination, unica vera pecca di un disco poco meno che esemplare.
Se pensate che il Rock debba avere a che fare con integrità artistica, indomito attaccamento alle radici, energia contagiosa e, perché no, tecnica esecutiva, i Baby Woodrose potrebbero diventare uno dei vostri gruppi preferiti. 

Voto: 7,5





Porter Stout, venerdì 30/09/2016


giovedì 29 settembre 2016

GEORGE SIMENON – LA CAMERA AZZURRA




"Sei così bello" gli aveva detto un giorno Andrée "che mi piacerebbe fare l'amore con te davanti a tutti...". Quella volta Tony aveva avuto un sorriso da maschio soddisfatto: perché era ancora soltanto un gioco, perché mai nessuna donna gli aveva dato più piacere di lei. Solo quando il marito di Andrée era morto in circostanze non del tutto chiare, e Tony aveva ricevuto da lei il primo di quei brevi, sinistri biglietti anonimi, solo allora aveva capito, e aveva cominciato ad avere paura. Ancora una volta, nel suo stile asciutto e rapido Simenon racconta la storia di una passione divorante e assoluta, che non indietreggia nemmeno di fronte al crimine. Anzi, lo ripete.

Non solo Maigret. La Camera Azzurra, pubblicato da Simenon nel 1964, rientra fra le opere che lo stesso autore belga definiva “romanzi romanzi”, come a voler prendere le distanze dalla saga del famoso commissario e affermarne una diversa, e superiore, valenza artistica. Maigret qui non compare, eppure i tratti distintivi della scrittura di Simenon restano immutati. In primo luogo, l’intreccio noir che avvolge fra le sue spire i personaggi del libro in un triangolo amoroso che, in realtà, nasconde ben altro. Permane anche quella che la critica definisce “la borghesizzazione del racconto giallo”: i toni sono dimessi, non vi è nessuna spettacolarizzazione nella rappresentazione della realtà e nell’intreccio noir, e la prosa, lucida e asciutta, si concentra su personaggi, le cui vite di piccolo cabotaggio sono lo spunto per cogliere la vicenda umana che si cela dietro un volto (e che conduce al delitto). Non importa a Simenon il “Chi è stato?” del giallo classico; ciò che davvero interessa al romanziere belga è la domanda: “perché?”. Ecco il motivo di un intreccio calibrato come un meccanismo perfetto, che non si nutre di colpi di scena o di ritmi adrenalinici, ma che, invece, conduce il lettore alla soluzione finale, scandagliando l’anima e la psicologia dei protagonisti. In questo senso, Simenon, non ha bisogno di una prosa fluente, non utilizza artifici letterari e tiene sotto controllo l’utilizzo delle subordinate. La scrittura è, cioè, metodo d’indagine: lucida, semplice, razionale. Attenzione, però, perché se all’apparenza la prosa di Simenon può apparire fin troppo asciutta, in realtà nasconde una maniacale attenzione nella scelte della parole, nessuna delle quali è utilizzata a casaccio, tutte, invece,  risultano decisive. Ed è straordinario come al padre di Maigret bastino tre righe per descrivere, indelebilmente ai nostri occhi, un paesaggio, o una sola riga per tratteggiare definitivamente un carattere, una personalità, un’ indole. La Camera Azzurra, che si svolge non a Parigi, ma nella provincia francese (ambientazione prediletta da Simenon e chiave per indagare anche sull’ipocrisia di una società bigotta e arida), si sviluppa in centocinquanta pagine in cui passato, presente e futuro sono uniti indissolubilmente, come se il tempo della narrazione, nonostante i continui flash back, fosse unico. In questo, soprattutto, sta la maestria di Simenon, capace di dipanare il filo della matassa, laddove un’altra penna avrebbe solo confuso il lettore. La verità si scoprirà solo all’ultima pagina. Tuttavia, poco importa sapere chi ha ucciso chi: chiudendo il libro, i tre protagonisti del romanzo (il marito, la moglie, l’amante di lui), sono seduti a fianco a noi. Ne conosciamo la vita, ne riconosciamo i tratti somatici, li percepiamo nel profondo delle loro anime. E’ il miracolo di Simenon: raccontare un delitto per raccontare l’uomo.


Blackswan, giovedì 29/09/2016

mercoledì 28 settembre 2016

CHATAM COUNTY LINE – AUTUMN





Originari del North Carolina e in attività dal 1999, i Chatam County Line (il nome deriva da una linea di autobus che attraversa la contea di Chatam) si sono ritagliati, disco dopo disco, un ruolo importante nel movimento blue grass di nuova generazione. A fianco di gruppi quali Punch Brothers, i conterranei The Avett Brothers e i Carolina Chocolate Drops, solo per citarne alcuni, i CCL sono stati in grado di rinverdire la tradizione, innervando nel genere nuovi elementi che, forse faranno storcere il naso ai puristi, ma di sicuro hanno portato il blue grass anche nelle case di giovani appassionati. Sette album all’attivo (tra cui uno splendido live, Sight & Sound datato 2012) e un crescendo di attenzione da parte della stampa specializzata e del pubblico, che ha premiato la band, portando gli ultimi dischi nella top ten delle classifiche di genere. Autumn rappresenta una conferma di quanto di buono fatto fin qui ed è un ulteriore passo avanti nella crescita artistica dei Chatam County Line, il cui leader, il cantante e chitarrista Dave Wilson, oltre a scrivere quasi tutte le canzoni in scaletta, ha anche prodotto, egregiamente, il disco. Se l’utilizzo degli strumenti tradizionale (banjo, mandolino, violino, chitarra acustica, pedal steel e contrabbasso) mantiene la musica del gruppo ben radicata al territorio e alle sue tradizioni, bisogna sottolineare che, a parte un paio di brani esplicitamente blue grass, il resto del disco vira prevalentemente verso l’americana, talvolta intarsiata in deliziosi quadretti dal retrogusto pop. Il mood dominante, richiamato anche dal titolo, è quello della ballata dai sentori autunnali. Non tutto però è nebbia, pioggia e malinconia. Dave Wilson è bravo a restituirci tutti i colori dell’autunno, anche quelli che accendono di rosso e giallo una meravigliosa distesa d’alberi. Così, talvolta, si ha l’impressione di camminare in un bosco, nell’aria frizzante e pulita della mattina, mentre intorno a noi tutto è scrocchiare di foglie, riverberi colorati e barbagli di sole che scaldano il viso. Autumn passa così dagli accenti crepuscolari di Dark Rider alla sensualità pop della introduttiva (e splendida) You Are My Life, dai sentori New Orleans di  Bon To Roulet fino alla chiosa di Show Me The Door, che sembra suonata da degli Stones in abiti acustici. Un disco vario, dunque, che, se da un lato, rende onore alla tradizione, dall’altro, è anche capace di scarti inusuali che fanno dei Chatam County Line una delle proposte più interessanti del momento. Il loro disco più bello e l’apice di una carriera sempre convincente.

VOTO: 7,5





Blackswan, mercoledì 28/09/2016

martedì 27 settembre 2016

JOHN NIVEN – A VOLTE RITORNO



Dopo una vacanza di qualche secolo Dio è tornato in ufficio, in Paradiso, e per prima cosa chiede al suo staff un brief sugli ultimi avvenimenti. I suoi gli fanno un quadro talmente catastrofico - preti che molestano i bambini, enormità di cibo sprecato e popolazioni che muoiono di fame... - che Dio si vede costretto a  rimandare giù il figlio per dare una sistemata. JC (Jesus Christ) gli dice: "Se i sicuro sia una buona idea? Non ti ricordi cosa è successo l'altra volta?" Ma Dio è irremovibile. Così JC piomba a NY, dove vive con alcuni drop-out e ha modo di rendersi conto in prima persona dell'assurdità del mondo degli uomini. E cerca, come può, di dare una mano. Il ragazzo non sa fare niente, eccetto suonare la  chitarra. E riesce a finire in un programma di talenti alla tv. Un gran bel modo per fare arrivare il suo messaggio a un sacco di gente. Ma, come già in passato, anche oggi chi sta dalla parte dei marginali non è propriamente ben visto dalle autorità.  

Se è vero che l’idea di Gesù che rinasce e torna sulla terra non è originalissima (ci avevano già pensato Andrew Masterson e James Frey), è altrettanto vero che John Niven la rinnova, compiendo un piccolo miracolo di intelligenza e originalità. A Volte Ritorno, infatti, è un romanzo spassosissimo, in cui si ride a crepapelle, ma che, al contempo, è in grado di suscitare nel lettore riflessioni importanti sulle nostre esistenze (alla deriva). I dialoghi urticanti, le situazioni inverosimili, il ritmo incalzante, i continui cambi di registro (si passa dal surreale, all’on the road, dall’invettiva sociale all’action vero e proprio) rendono la lettura di esilarante divertimento; eppure, il retrogusto amarognolo e nostalgico che percorre l’intera narrazione, ci induce a fare i conti anche con lo stato in cui versa il nostro pianeta e con ciò che siamo diventati. Ridiamo, certo, ma ci guardiamo anche allo specchio, ritrovando, attraverso la scrittura agile di Niven, tutti i peccati di cui ci continuiamo a macchiare, in una discesa lenta, ma risoluta, verso uno scadimento etico apparentemente irreversibile. La nostra è un’umanità afflitta da un’ormai congenita incapacità di distinguere il bene dal male, la società è lobotomizzata dal pensiero unico, da bisogni inesistenti e da miti costruiti a tavolino, mentre dilaga il verbo dei falsi profeti (la tv, la giustizia umana, la religione, soprattutto), che dispensano menzogne e predicano odio. Di fronte a questo cumulo di macerie morali, in cui tutto è violenza, cupidigia, ipocrisia e tradimento, può l’Uomo aspirare ancora alla salvezza? Dio lo dubita, ma poi, sorseggiando un buon whisky e fumando un sigaro Habanero, ascolta A Love Supreme di John Coltrane e capisce che la bellezza è possibile e non tutto è perduto. Inizia così A Volte Ritorno, con Dio che manda sulla terra Gesù, rocker sfaccendato e amante della marjuana, a rinnovare il suo sacrificio per amore degli uomini. La trama del romanzo è, dunque, una rielaborazione 2.0 del Nuovo testamento: ci sono i miracoli (la moltiplicazione dei pani e dei pesci, trasformatisi nell’occasione in sandwich), ci sono le prediche sotto forma di concerto rock (Gesù che esegue una versione sudatissima di Born To Run di Springsteen), c’è una sgangherata accolita di discepoli, c’è Giuda (Morgan, il batterista della band di JC) e c’è una splendida Maria Maddalena (Becky, ex prostituta, che Gesù ha tolto dalla strada). C’è, insomma, la vita di Gesù, come narrata dai Vangeli, ma riletta e riadattata ai giorni d’oggi. Così, l’arsenale che Gesù utilizza per indicare la strada verso il bene non si compone solo di amore, fiducia, amicizia e compassione, ma anche, e soprattutto, di splendide canzoni rock, che sono il collante della nuova fratellanza. Riuscirà nel suo intento? Lo saprete solo nelle ultime pagine del romanzo, il cui finale è ovvio (almeno per tutti quelli che hanno letto il Vangelo), ma non così scontato come si potrebbe pensare. Un unico avvertimento ai lettori meno disinibiti: la satira di Niven è feroce e non risparmia nessuno, la religione è al centro del mirino e viene colpita ripetutamente e senza pietà. Dio e Gesù bevono, si fanno le canne e dicono le parolacce; il papa, colpevole di aver protetto gli atti di pedofilia perpetrati dal clero, viene addirittura dileggiato; beghini e baciapile cattolici sono messi alla berlina e condannati senza attenuanti. Secondo Niven, a Dio non importa nulla della religione, né tanto meno che gli uomini credano in lui. Dio ci ama, ma non pretende da noi amore né rispetto né fede né sacrificio. Perché la religione è solo invenzione, e ha finito per oscurare l’unico comandamento che davvero conta qualcosa: Fate i Bravi! Parola di Dio.


Blackswan, martedì 27/09/2016