Ci sono occhi che non lasciano scampo, che ti impongono domande, che raccontano
una vita più di qualsiasi parola. Sono gli occhi di Dennis Wilson, la pecora
nera dei Beach Boys, il surfer, il cocainomane, l'eroinomane, l'alcolizzato, il
donnaiolo, un uomo in balia dei propri istinti e della propria genetica
incapacità di convivere con il successo, il denaro, la notorietà. Guardateli questi
occhi, così gonfi di vita: scrutano l’orizzonte come se volessero afferrarlo,
cercano la libertà, una via di salvezza, cercano l'onda. Sono gli occhi di chi dall’oceano ha
avuto tutto, di chi l’onda la cavalcava veramente, e non per metafora,
scommettendo ogni giorno la propria vita in cambio di un respiro di adrenalina.
Dennis Wilson era anche un grande musicista, nonostante nei Beach Boys avesse
un ruolo defilato, nonostante spendesse le proprie energie per immolarsi
sull’altare della droga. Un musicistasicuramente non geniale e raffinato come il fratello Brian, ma capace
comunque di dare voce alla propria indeterminatezza in modo diretto, sincero,
mutuando dal rock un’urgenza espressiva assolutamente perfetta per la sua indole autodistruttiva. Dennis era un uomo incapace di reggere il peso del
destino, del nome che portava, delle ansie che gli derivavano dall’essere un
Beach Boys. Trovava pace solo respirando l’odore del mare, immergendosi nel suo
oceano, stando in equilibrio su quella tavola che non tradiva mai, che era
riscatto e redenzione. Amico di Charles Manson, di cui capì in ritardo la folliae le derive omicide; sposo cinque
volte, "di cinque donne", come era solito raccontare, "che non mi
hanno mai amato veramente" ; anima perennemente in fuga , che cercava in un
mondo fatto droghe e di alcool la forza per vincere la bestia feroce della
solitudine; morto affogato in quell’ oceano che amava forse più di ogni altra
cosa, a cui consegnava ogni giorno la sua fama e la sua gloria e che tutto gli
portò via. Questa, in buona sostanza, è l’avventura umana di Dennis
Wilson. La cui leggenda, nel 2008, è tornata alla luce grazie a un doppio cd che racchiude
il primo, memorabile, e altrimenti pressochè introvabile, Pacific Ocean Blue, e
il mai pubblicato, e altrettanto leggendario, Bambu.
Non solo un'edizione imperdibile per ogni appassionato di musica californiana, ma anche il
modo per scoprire ( o riscoprire ) uno dei dischi più struggenti e intensi (
oltre che misconosciuto ) della storia della musica pop. Un disco,sia subito chiaro per evitare fraintendimenti, anni luce lontano per indole
dal divertissement surf dei Beach Boys e dall’art rock, colto e avanguardistico,
del fratello Brian. Trentatre canzoni che descrivono meglio di ogni parola la
fine del sogno californiano ( il punk in quegli anni stava spazzando viatutto ciò che trovava sul proprio cammino ), una
sorta di " Mercoledì Da Leoni " del rock, nel quale attraverso
languori nostalgici e disperata rassegnazione, Wilson racconta il crepuscolo
privato ed epocale di un uomo e della sua generazione. In un caleidoscopio di
suggestioni che abbracciano il gospel e il soul, la psichedelia e il rock, il
pop e il blues, fino a derive di malinconico intimismo che sfiorano il percorso tracciato da Robert Wyatt, Dennis scrive
una sorta di diario di bordo a ritroso, una pagina di ricordi su un’epopea appena
conclusasi e destinata ad essere risucchiata
dal passo veloce della Storia. Pacific Ocean Blue racchiude un pugno di canzoni
che suonano come un testamento, che cesellano con grazia un gioiello di
nostalgia in cui rifulge, per l’ultima volta, la luce del tramonto di un’epoca. Sono
canzoni fortemente legale al contesto storico e geografico in cui nascono,
eppure al contempo dotate di un linguaggio che universalizza la perdita dell’ innocenza e
quegli struggimenti feroci legati al passare di un tempo che non tornerà più. E' sufficiente ascoltare ThoughtsOf You , che qualcuno mirabilmente ha definito come i tre
minuti più tristi della storia del pop, per svelare l’anima di questa raccolta.
Ma le belle canzoni di Pacific Ocean Blue sono tante, troppe probabilmente, per poter essere
raccontate tutte in poche righe. Mi
limito a citare End Of The Show , dal titolo premonitore, che si appropria del
verbo dell’inquietudine declinato così bene solo da Tim Buckley; Time che
potrebbe stare benissimo come chiosa melodica di "Rock Bottom" di Wyatt ,
tanto è disperatamente accorata; You and I che plasma il pop arrivando a
forgiare una melodia che fu marchio di fabbrica dei migliori Bee Gees; River Song
che gioca con il gospel in una corale tanto maestosa quanto epica. Basterebbero
questi cinque pezzi a giustificare l’acquisto di un disco che riesce però a
essere coinvolgente dalla prima all'ultima traccia. Merito non solo di una musica scevra da ogni artificio, ma anche della voce arresa di Dennis, che si
insinua sotto pelle, che coinvolge l’anima dell’ascoltatore in un gioco di
reciproci rimandi e immedesimazioni, che allude al mare, all’interminabile
respiro dell’orizzonte, alla salsedine che impregna le nostre inconsolabili solitudini. Guardate
quegli occhi in copertina e non perdetevi l'oceano che contengono. Abbandonatevi
alle canzoni di Pacific Ocean Blue :sarà come cavalcare the big one, l'onda
giusta, quel muro d’acqua e adrenalina che è il Santo Graal di ogni surfer. E quando
vi troverete sulla cresta di queste canzoni, ci sarò un attimo, un breve
istante, in cui vi sentirete perfettamente liberi. Intorno a voi, solo l’Oceano.
Segnatevi
questo disco perché, ve lo assicuro, è una vera goduria. Robyn Ludwick è una
ragazza texana che di musica nella propria vita ne ha masticata parecchia, non
foss’altro perché i suoi due fratelli sono Charlie e Bruce Robinson, stelle
della scena country statunitense. Anche lei ama quella musica lì e glielo si
sente nel dna. E nonostante ciò, sceglie di seguire le orme di Sheryl Crow e dei Counting Crows ( oddio, quanti corvi ! ),
punta ad un taglio più moderno e miscela deliziosamente languori pop,
tradizione e un certo retrogusto soul-rock. Il disco è suonato meravigliosamente, il suono
è caldo, le canzoni, e che canzoni, cesellate con la punta del plettro. Se amate
il genere, questo cd è heavy rotation compulsiva. Perfetto per viaggi in
macchina verso l’ignoto o per cullare dolcemente le derive malinconiche nate da
un amore finito.
VOTO : 8
MITCH LADDIE – BURNING BRIDGES
Genere : Rock-blues
21 anni e inglese,
Mitch Laddie è un giovane di belle speranze che ha già fatto sbarluccicare gli
occhi di molti buon gustai. Burning Bridges è il suo secondo disco e i
territori in cui si muove questo promettente chitarrista sono quelli convenzionali
del blues rock di matrice hendrixiana. Attenzione, però : il ragazzo non si
limita alla consueta dicotomia ballatoni strappa-lacrime e riff incendiari. Ha
gusto ed è versatile : ci mette un’attitudine nera in scintillanti canzoni dal
piglio funky e dimostra di essere un asso anche quando imbraccia la chitarra
acustica. Se vi piacciono Joe Bonamassa, Kenny Wayne Sheperd e Jeff Healy questo
disco non vi deluderà.
VOTO : 6,5
I LIKE TRAINS – THE SHALLOWS
Genere : Alternative-rock
Mentirei se vi raccontassi
di un brutto disco. Il fatto è che questi ragazzi di Leeds hanno preso i Joy
Division a propria immagine e somiglianza e da lì non si sono più mossi, salvo
ritoccare un po’ il trucco. Se proprio amate il genere, Interpol, The National
e Editors sono meglio. In The Swallows non ci sono brutte canzoni, ma suonano
tutte francamente inutili. Perché il plot è sempre lo stesso da anni :
malinconia, voce baritonale, struggimenti in produzione seriale, brume
autunnali. Ha ancora un senso un disco così, quando i maestri di questa new
wave del nuovo millennio hanno già cambiato registro ? E soprattutto :usque
tandem ?
VOTO : 5,5
BLUES TRAVELER - SUZIE CRACKS THE WHIP
Genere : rock
Per i 25 anni di
attività, I Blues Traveler usciranno il 26 giugno con il loro 11esimo album in
studio. Capitanati dal mitico cantante e armonicista John Popper, il gruppo di
Princeton ha scritto pagine memorabili di rock americano, distinguendosi
insieme ai Phish come il miglior grppo da jamming dal vivo, tanto da meritare
una menzione anche nel severissimo sito di Piero Scaruffi. Suzie Cracks The
Whip non è propriamente quello che si può definire un disco di blues, come il
nome della band lascerebbe intendere. La musica del delta occhieggia qua e là,
ma è poca cosa. La parte del leone la fanno invece canzoni che puntano ai passaggi
radiofonici, in bilico fra ruvidezze rock e ganci melodici. Niente per cui
svenarsi, ma sicuramente un lavoro divertente, con qualche brano di livello
compositivo superiore alla media ( la ballata alla Simon &Gurfunkel di Love Is Everything ( That I Discribe ) e il pop screziato di folk dell’intensa Don’t Wanna Go).
NB: non esistono ancora video tratti dal nuovo album dei blues traveler.Questo è di repertorio.
Sono felice e
onorato di ospitare su questa pagina un post di Nella ( e che post ! ),
meravigliosa padrona di casa del blog Rock Music Space, oggi in vacanza presso
le terre di Killerania, dopo aver preso residenza qualche giorno fa nei bucolici scenari
del Granducato di Moletania.
Come il prezzemolo, eccomi anche qui in
Killerania,la terra giusta per affrontare le mie frustrazioni ed essere al
sicuro , difesa dal cavaliere oscuro Blackswan!!! Mi hanno consigliato di uscire
ogni tanto dalla mia stamberga in quel di Moletania, e sfidare gli strali
di questa terra senza confini e senza limiti di Killerania. Mi fa un po' paura ,
ma la devo vincere a tutti i costi , e come prepararmi alla sfida , se non
raccontandovi qualcosa del mio passato ( che a voi non interessa nulla con
ragione), ma lasciatemi concludere con pazienza amici cari, insieme a qualche
personaggio musicale o della scena artistica. Il linciaggio sarà ancora
maggiore, le critiche pioveranno a bizzeffe, ma questo è quello che devo
affrontare per non temere più la paura. Sono sicura voi mi aiuterete nel
peggiore dei modi! Il primo episodio che voglio svelarvi è la mia prima pseudo
intervista , che tale non doveva essere. Ma con chi? Direte voi? Niente po po'
di meno che con David Bowie. A volte questi ricordi un po'
sbiadiscono, spesso preferisco dimenticarli, sovente voglio ricordarli. Ero una
piccola , sprovveduta ragazza , dedicata alla danza più che alla musica. Ma
sapevo l'olandese ed allora mi trovai catapultata in un mondo molto più grande
di me: la musica. Ora tutto è più facile e anche difficile, ma senza dubbio
diverso, quando si lavora ai margini di questo " mostro " parlante....All'epoca
idolatravo David, era un alieno piovuto dal cielo, così asessuato e particolare
, da vederlo provenire da un altro pianeta. Ricordiamo il meraviglioso film
"L'uomo caduto sulla terra"... Stento a credere che voi non l'abbiate
visto, ma provvedete al più presto, perchè non c'è alieno più veritiero di lui!
Un mito , una favola , una leggenda ... I tempi dello zio Bruce erano ancora
lontani per me. Mi piaceva la sua musica , ma il fascino che emanava ...
David era totalmente diverso.
Ancor oggi mi domando, come possa amare così
incondizionatamente Springsteen, avendo avuto una venerazione per Bowie. Non lo
so, sono le incongruenze della vita.Si sapeva di lui tutto e niente , si
conoscevano vizi e sregolatezze vere o presunte , canzoni indimenticabili,
collaborazioni eccelse , ma un alone di incertezza aleggiava sempre si di lui,
tanto da domandarti se c'era o ci faceva. In mezzo a questo vortice infernale,
mi trovai a portare il classico registratore tipo " anni luce" , per capirci
meglio, alla Fantozzi....ed un microfono più grande della mia mano, per
permettere al mio diretto superiore la classica intervista. La prima sorpresa ,
che poi si rivelò un'abitudine del divo, furono i quaranta abbondanti minuti di
ritardo, che non fecero altro se non aumentare la mia inquietudine e il mio
disagio, oltrechè i pesi da reggere.Dopo tutto questo tempo ci incanalarono ,
a mo' di camera a gas,( brutto esempio , ma calza ....) in uno stanzone,
dove dopo un'altra mezz'ora il signor David Robert Jones arrivò con calma
e sussiego, si accomodò , distante dal popolo e ci fissò con assoluta
indifferenza. Sentivo le mie gambe più pesanti( un po' per il solito peso , non
lo nego) ma molto perchè tutte le prime volte sono critiche. Per metterci a
nostro agio , guardò l'ora , come ad esortarci alla fretta e con un sorriso
mellifluo quanto falso( era evidente...) , girò lo sguardo su questa massa muta
e guardinga. Con un dito , quale inquisitore , mi indicò tra gli astanti ,
incredula di tale scelta e terrorizzata dalla mia gravosa responsabilità.
Con estrema gentilezza mi chiese di fare una domanda, mentre il mio
diretto superiore mi incitava a farla intelligente. Ma chi ci aveva pensato?
Io ero solo un appendino , e le mie orecchie potevano essere
utili, per afferrare qualche parola in un' altra lingua che poteva
sfuggire.
Le domande da farsi erano migliaia, dal trasformismo, al periodo
berlinese, alla sua ultima fatica (allora) " The Glass spider Tour" ( non il
prodotto migliore a mio avviso), ai suoi amori, ai periodi vissuti da autista
dei Rollings, alle sue bischerate con Mick Jagger e Tina Turner.Dopo una
ginocchiata nei reni, che ancor oggi ne pago le misere conseguenze, con un filo
di voce , chiesi perchè i suoi occhi erano di diverso colore. Pensare che lo
sapevo già. !!!! L'unica cosa nuova , fu la grassa risata che ruppe il silenzio
diventato imbarazzante... Fu cortese , in breve ebbe misericordia e mi raccontò
tutta la lite ed il pugno che gli procurò questo inconveniente, mentre i veri
giornalisti mi risevarono solo occhiate pietose...Chi ben comincia è alla metà
dell'opera, io forse dovevo fermarmi lì oppure no. Con il senno di poi, oggi
saprei cosa chiedergli senza pensarci un minuto. Semplicemente mi informerei sul
suo stato di salute non buono e sul suo cuore. Siamo cresciuti... chissà era
meglio pensare al colore degli occhi! Vi lascio alle ricercatezze del nostro
Blackswan, perchè so che ne sentite doppiamente la necessità. Io mi ritiro nel
mio umile tetto. Se lo desiderate , alla prossima.
Ancora una volta è il 25 aprile.
Una data di cui si rischia di perdere la percezione, perchè il 1945 è sempre più lontano.
Sempre meno numerosi sono i testimoni oculari ancora vivi.
Sempre meno è la quantità di notizie che giungono ai più giovani, e che loro stessi cercano di procurarsi.
Qui a Milano quindici persone furono catturate ed uccise a Piazzale Loreto dai fascisti su ordine delle SS, e questo è il motivo per cui, dopo, i cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e di altri gerarchi furono appesi nella stessa piazza al traliccio di un distributore di benzina che ora non c'è più.
Qui a Milano il fascismo è nato, in Piazza San Sepolcro furono fondati nel 1919 i Fasci di Combattimento.
Qui a Milano il fascismo è morto, mediante l'esibizione tragica dei corpi dei suoi capi.
Qui a Milano sono state scritte pagine fondamentali della resistenza, qui il CNL Alta Italia ha preso i pieni poteri dopo la rotta dei tedeschi e non a caso Aldo Aniasi, il mitico Comandante Iso delle Brigate Garibaldi in Val d'Ossola, dopo la guerra venne a Milano diventandone sindaco per due mandati.
Eppure la gente ne sa poco.
Sa poco soprattutto delle storie personali che hanno animato la resistenza, dei sacrifici e delle enormi sofferenze che alcune donne ed uomini hanno sopportato per la libertà di tutti.
Alcune persone, non così tante come a volte si racconta, perchè purtroppo la realtà è che Mussolini ha goduto a lungo di un consenso vastissimo, e in questo nostro paese, che è sempre uguale a se stesso, dopo il 25 aprile sono diventati tutti partigiani, comprese persone che fino a due giorni prima si dicevano fasciste.
Quindi, quando si sente qualcuno dire che ha fatto la resistenza, è meglio farci sempre un po' di tara.
Però ad esempio io a mia madre credo, e lei mi racconta che quando era bimba (è del 1933) le facevano portare in bicicletta i messaggi per i partigiani nascosti sotto il cibo nel cestino.
E mi racconta dei ragazzi, poco più che bambini, catturati, torturati ed impiccati dalla sbirraglia fascista.
Mi racconta anche della pietà, che persino nei momenti più atroci ogni tanto compare.
Come quando, durante la ritirata dei tedeschi (lei è di Verona) un soldatino della Wehrmacht rimasto isolato dai suoi fu catturato dalla gente, gli furono tolti gli scarponi e fu obbligato a correre scalzo attraverso un campo di granturco dove avevano appena tagliato le spighe, in modo che si ferisse i piedi.
Fino a quando sono arrivati i partigiani veri che hanno disperso la folla sparando in aria, hanno preso questo sfigato e lo hanno fatto andare via.
Oggi siamo liberi, grazie a queste persone.
La libertà di cui non godiamo è quella cui noi stessi rinunciamo, lasciandocela portare via per pigrizia.
Nessuno può dire che ci sia un pensiero unico, disponiamo di decine di giornali e di centinaia di emittenti radio e tv.
Se leggiamo un solo giornale, o peggio non ne leggiamo nemmeno uno, e se guardiamo una sola tv, non possiamo prendercela con nessuno.
Allora non era così.
La pluralità delle opinioni era stata soppressa, con le armi e la violenza.
I partigiani, e più in generale i resistenti, hanno vissuto quella realtà e l'hanno combattuta per loro stessi e per chi sarebbe venuto dopo.
Io li ringrazio, tutti, comunisti, liberali o monarchici che fossero.
Segnalo un bel libro,"Io sono l'ultimo. Lettere di partigiani italiani", edito da Einaudi Stile Libero.
Ne cito due passaggi.
Il primo è di Anita Malavasi, dalla provincia di Reggio Emilia, 1921 - 2011.
"In montagna si dormiva insieme, per terra, nei boschi, uomini e donne. L'amore non contava niente. L'importante per noi era aiutare. Io ero anche fidanzata, lo lasciai quando mi disse che fare la partigiana mi avrebbe reso indegna di crescere i suoi figli. Non mi sono più sposata, anche se in montagna avevo trovato un ragazzo...lui sì lo avrei sposato se non me lo avessero ucciso, aveva una mentalità aperta, ma uomini così non ne ho più trovati. L'unico nostro bacio è stato d'addio".
Il secondo è di Aldo Sodero, dalla provincia di Torino, classe 1928.
"Si facevano i chilometri in bicicletta per trovare qualcosa da mangiare, lo si metteva nei barattoli di vetro, si cascava dalla bicicletta e si doveva dividere con le mani il cibo dal vetro. Il momento era quello. L'ho raccontato a mia figlia. Ai miei nipotini di sei e sette anni appena hanno avuto le orecchie per sentire una voce che non fosse quella della loro mamma. Lo racconto a voi, pur sapendo che certe cose non si possono capire. Erano tempi di scelte. Io ho scelto la parte giusta".
Ecco, io di gente come questa mi sento debitore, e la lezione che ricavo dalla loro vita è che la libertà, che noi oggi godiamo, non è gratis e non è per sempre.
Va conquistata, riconquistata e difesa tutti i giorni, da ciascuno di noi, con dignità e coraggio.
Buon 25 aprile a tutti.
Chi mi segue da
tempo si sarà accorto che sono un po’ pirla. Il mio problema è che proprio non
riesco a crescere, è più forte di me, e mi piacciono ancora tutte le cose cha
amavo da ragazzino. Ad esempio, i cartoni animati. Quando esce un film della
Pixar, non me lo perdo, cascasse il mondo. Nemo, gli Incredibles,Up sono
caposaldi della mia videoteca, pietre miliari delle mie escursioni cinematografiche.
Ancora di più mi piacciono i Looney Tunes, quei cartoni della Warner Bros. che quando
ero piccolino costituivano, insieme a Carosello, il palinsesto televiso delle
mie giornate. Li amavo tutti, indiscriminatamente, dal primo all’ultimo, anche
se il mio preferito in assoluto era ( e resta tuttora ) Wile Coyote ( da noi chiamato fraternamente Willy ). Perché Bugs
Bunny, Duffy Duck, Titti e Silvestro mi erano tutti egualmente simpatici, li
avevo adottati in blocco, li consideravo come ingranaggi imprescindibili di un
mondo di fantasia in cui i buoni e i ( presunti ) cattivi vivevano in una
simbiosi artistica resa necessaria dal canovaccio della sceneggiatura. Tanto
che, in un surplus di immaginazione, mi ero convinto che una volta terminato il
cartone, e quindi le esigenze di scena, Titti e Silvestro, ad esempio,
tornassero alla loro routine quotidiana di convivenza pacifica e addirittura
amicale. Ma con Wile, invece, era tutta un’altra storia : buonismo e condiscendenza
andavano a farsi fottere, e io mi trasformavo in un partigiano, in un ultras, in
un militante incapace di ogni forma di razionalizzazione. Stavo dalla parte del
coyote, ovviamente. E non mi limitavo a parteggiare timidamente per lui o, per
converso, a manifestare con moderazione la mia antipatia per il Road Runner. No,
decisamente no. Il bambino solitamente composto e ben educato che ero si
trasformava nel più sguaiato degli scaricatori di porto, in un camionista frustrato
da ore di viaggio e inacidito da seri problemi di digestione. Fioccavano
parolacce, improperi, cori da stadio e gesti scurrili non annoverati nel
decalogo oxfordiano su cui i miei genitori avevano improntato la mia partecipazione
a quel consesso civile chiamato società. A ogni puntata, finivo stremato, esacerbato
e illividito, un pò dalla rabbia e un po’ dagli scapaccioni con cui mia madre
cercava di rintuzzare le mie esuberanze da tifoso. Anche oggi, riflettendoci
bene, sono convinto che parteggiare per il Coyote, e in modo così sanguigno,
fosse, ed è, cosa buona e giusta. Il fatto
è che Beep Beep, oggi come allora, mi sta decisamente sul cazzo. Con quel collo
secco secco come la scoreggia di un usignolo, con quella coda perennemente ostentata nella protervia del saccente, con quello sguardo stolido che a tratti si illumina di guizzi a metà strada
fra la canzonatura e il dileggio, è il prototipo fatto e finito dello stronzo.
Mentre il Coyote se ne sta lì, in mezzo al deserto, da solo, lontano da
amicizie e affetti, in un contesto di perenne attesa, come il tenente Drogo
alla fortezza Bastiani, il fottutissimo Beep Beep ha un vita. Se la sciala, il
bastardo. Lo vedi comparire e poi sparire, in un frenetico rincorrere chissà
cosa, con la consapevolezza però che per lui ci sia un prima e un dopo, qualcuno
che ha lasciato o qualcuno che incontrerà, non appena le nuvolette sollevate dalla
sua frenetica corsa scompariranno dietro l’ennesima curva. Beep Beep
probabilmente ha anche una vita sentimentale, un divano su cui riposarsi, un
cazzo di lavoro impiegatizio e un reddito fissoo, una villetta a schiera con il
giardino curato, la partita a calcetto del lunedì come appuntamento settimanale
con gli amici. Wile, no. A Wile non
regala niente nessuno. Lui se ne sta nel nulla della sua solitudine, come un
militare di frontiera a scrutare l’orizzonte per cogliere un impercettibile
movimento in lontananza. Consapevole del fallimento della propria esistenza,
eppure mai domo, pronto a ricevere la milionesima secchiata di merda
riservatagli dalla vita, senza che il proprio inossidabile ottimismo venga meno.
Il coyote, questa è la cosa che per me vale di più, è un mediano che pressa
ancora quando gli altri vincono 3 a 0 a cinque minuti dalla fine, è un maratoneta
che supera la crisi e non molla, anche se quel terribile ultimo chilometro che
lo separa dal traguardo sarà solo lacrime e sangue. Wile crede in un' idea, in
un sogno, in una speranza, e ci crede nonostante tutto e tutti. Il suo sguardo
arriva sempre un poco più in là, è un
visionario, la sua velocità non è una dote fisica, ma il ragionamento e l’intuizione,
la parte migliore, cioè, di ogni uomo che si appresta a cambiare il mondo. Poi,
c’è sempre un masso che inopinatamente si stacca dallo strapiombo e lo
spiaccica a terra. I greci la chiamavano Tuke, il fato, e se ti perseguita non ci
sono cazzi, sei costretto a spalare letame in eterno. E’ il destino di Wile, è
il mio destino, è il destino di tutti quelli che ci provano e che, anche se non
ci riescono mai, poi ricominciano sempre. In culo a Beep Beep e alle sue
certezze da privilegiato.
PS : Oggi, è il
25 aprile,e ricorre un avvenimento importante, la Liberazione dalla dittatura
nazi-fascista. Per la quale dobbiamo qualcosa all’esercito anglo-americano, e
molto, moltissimo, ai nostri partigiani. Che se ne stavano lassù, nel freddo
della montagna, a rischiare la vita e ad aspettare, come Wile, il momento più
propizio per cambiare il corso della Storia. Gli stessi sogni, la stessa
passione, lo stesso coraggio. A tutti
loro e al coyote un grazie per aver contribuito a trasformarmi in un uomo
libero.
Ricevo dalla nostra freelance Cleopatra, e integralmente pubblico.
Il Mahatma Gandhi diceva : " Chi perde la sua individualità perde tutto ".Da questo noto aforisma desidero iniziare un percorso verso un microcosmo di solitudine,oblio e disperazione che annichilisce qualunque forma di rispetto verso la dignità umana.Si tratta dell'universo OPG sconosciuto a tanti e trattato spesso con ritrosìa dai mezzi di informazione vuoi per indifferenza, vuoi perchè certi argomenti sono scomodi e scottanti o perchè in nome del "re audience" è di gran lunga preferibile trasmettere in prima serata l'ennesimo insulso reality show. In un OPG un essere umano precipita in una dimensione di annientamento fisico ed emotivo perdendo la propria individualità.
OPG è l'acronimo di Ospedale Psichiatrico Giudiziario.In Italia ne esistono 6 e a tutti gli effetti sono dei veri e propri manicomi.Il tema è recentemente ritornato di attualità a proposito della conversione in legge del decreto c.d. " svuota carceri " che sancisce la chiusura definitiva degli opg concedendo alle Regioni e agli enti locali 12 mesi per dotarsi di strutture alternative capaci di accogliere gli internati.O se si preferisce i "reietti ". Nessun progetto di soluzione è stato finora presentato e come sempre accade in questo paese si propende per la cura anzichè per la prevenzione. Non c'è da meravigliarsi se queste anime dannate finiranno in qualche reparto improvvisato di un ospedale o di un carcere,magari insieme a detenuti comuni,o saranno"scaricati" a famiglie incapaci di gestire una situazione di gravissimo disagio.Nei casi di internati dismissibili,chi è rimasto solo al mondo si ritroverà per strada.Attualmente se ne contano oltre 1400. Non illudiamoci,però,che l'opg sia la panacea di tutti i mali.Certamente per alcuni "soloni" della politica italiana la soluzione più comoda e conveniente è quella di asserragliarli tutti dentro a delle topaie.La scusa è sempre quella della mancanza di fondi.E chissenefrega se,nel frattempo,anche questo problema si incacrenisce. Nel 2010,la Commissione Parlamentare di inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino (PD),in occasione di una serie di ispezioni a sorpresa,ha ampiamente documentato l'orrore di certe realtà come quella dell'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina. Durante un'ispezione si è trovato di fronte ad un uomo legato con delle garze usate come corde,nudo,su un letto di contenzione di ferro arrugginito,sporco,privo di materasso e con un buco al centro (al riguardo,preferirei non approfondire).
La situazione non è certo migliore nelle altre strutture dislocate sul territorio nazionale dove fatiscenza e degrado regnano indiscutibilmente sovrani.Si tratta di fortezze medicee come l'opg di Montelupo Fiorentino,di castelli medioevali come quello di Aversa o semplicemente di complessi cadenti come quello di Barcellona in cui prevale il modello della custodia anzichè quello della cura (ad eccezione di Castiglione delle Stiviere che ha adottato la scelta della terapia affidata a personale strettamente sanitario). Il panorama non è dissimile da quello delle carceri : mancanza o carenza di
personale specializzato,stanze sovraffollate munite di latrine alla turca in cui per evitare la risalita dei topi si ostruisce il buco con una bottiglia di acqua,finestre prive di vetro,soffitti scrostati e ammalorati.E poi ci sono gli internati,molti dei quali si trovano costantemente sedati a languire su un letto sporco.Tra loro ci sono anche le vittime di errori giudiziari,chi nel frattempo ha perso un barlume di ragione per la segregazione prolungata e chi rimane dentro per una congiuntura di eventi sfortunati. Si finisce in questo girone dantesco per reati (anche bagatellari) perpetrati da chi viene riconosciuto incapace di intendere e di volere e che presenti i requisiti di pericolosità sociale.
A colui che è affetto da gravi disturbi mentali,quali la schizofrenia o le psicosi maniaco-depressive,si spalancano le porte dell'opg.La differenza tra pena detentiva e misura di sicurezza sta nella durata : mentre la prima ha una durata certa,la misura di sicurezza è prorogabile teoricamente all'infinito (ergastolo bianco). Vari casi di ergastoli bianchi sono documentati:Giuseppe,da 18 anni sta dietro le sbarre per avere rapinato 7.000 lire fingendo di avere una pistola in tasca. Andrea,da 25 anni è segregato per essersi travestito da donna e fermato davanti ad una scuola.Dario,da 5 anni è dentro per avere reagito violentemente verso
gli agenti di polizia per un conto non pagato in un ristorante. Non c'è dubbio che simili soggetti vadano protetti e seguiti con un serio percorso terapeutico da parte di educatori,psicologi,psichiatri, medici e infermieri ma certamente non brutalizzati e abbandonati al loro destino. Al suo destino è stato tragicamente abbandonato Francesco Mastrogiovanni nel luglio del 2009."Il maestro più alto del mondo" lo soprannominavano i suoi alunni.Siamo a Castelnuovo Cilento ed è una storia di ordinaria repressione e ottuso accanimento,di quelle che non vorresti mai raccontare ma che si devono conoscere. Erano gli anni '70,periodo di contrapposizione ideologica tra fascisti e antifascisti,tra stato e antistato,tra rosso e nero.Francesco è un simpatizzante del movimento anarchico.
Coinvolto in una rissa con alcuni neofascisti in cui aveva fatto da paciere,dopo un lungo processo viene assolto. L'evento lo sconvolge a tal punto da provare una vera e propria fobìa per le forze dell'ordine.E da quel momento scatta in lui una mania di persecuzione. Molti,a parte i suo studenti,lo additano come un pericoloso anarchico e lui si sente sempre più fragile,solo e intimidito.Il destino si accanisce e così nel '99 per un divieto di sosta commette l'errore di mandare a quel paese un agente che ne dispone l'arresto immediato.Al commissariato viene duramente percosso e seviziato (seguirà una controdenuncia sporta da Mastrogiovanni per arresto illegale,lesioni personali e abuso di autorità).Viene condannato agli arresti domiciliari,piantonato dagli stessi agenti che lo avevano malmenato.Franco è sempre più emotivamente instabile,ha paura e ogni volta che si imbatte in una divisa entra nel panico tanto da indurre il sindaco di Castelnuovo a firmare per ben due volte la richiesta per un trattamento sanitario obbligatorio (TSO) che supera solo grazie alla solidarietà e al caloroso affetto dei suoi alunni. Ma non è tutto.Un ulteriore tso firmato dal sindaco di Pollica gli sarà fatale. Il 30 luglio del 2009,Franco nella località di villeggiatura cilentana si trova davanti ad una pattuglia dei carabinieri e preso dal panico fugge.Viene inseguito arrivando persino a tuffarsi in mare e restando in acqua per oltre due ore.Sopraggiunge addirittura una motovedetta della Guardia Costiera che avverte i bagnanti di una caccia all'uomo (?!).Franco non ce la fa più,si arrende e si consegna.Da questo momento inizia il suo calvario.Si aprono le porte della sezione psichiatrica dell'ospedale S.Luca di Vallo della Lucania." Non uscirò vivo" grida a squarciagola.Entra nel "lager" il 30 luglio da vivo e ne esce cadavere il 4 agosto.Franco viene ripetutamente sedato,legato per i polsi e caviglie su un letto troppo corto per la sua statura. Per i primi giorni viene lasciato nudo e senza lenzuolo.Non gli viene dato da mangiare e da bere e gli vengono applicati una flebo e un catetere.Solo in un secondo momento gli viene fatto indossare un pannolone che viene cambiato una sola volta.Questo raccapricciante scenario si svolge nella totale indifferenza da parte del personale sanitario che non si preoccupa di visitarlo nemmeno una volta e da parte degli infermieri che si limitano a rimuovere con lo spazzolone le copiose macchie di sangue provenienti dai polsi serrati.Il 4 agosto l'agonia si conclude drammaticamente.Arresto cardiaco conseguente a edema polmonare causato da una contenzione immotivata ed illegale.Questo ha stabilito la consulenza tecnica di ufficio disposta dal PM nell'ambito del procedimento penale contro 7 medici e 12 infermieri rinviati a giudizio. Un caso limite,è vero. Franco Mastrogiovanni aveva bisogno di aiuto e di protezione come tutti coloro che,spesso,sono dimenticati in quelle gabbie infernali. Un'anima fragile,schiacciata da un destino avverso,una vittima dell'indifferenza e della diffidenza.
L'emblema di un'umanità disperata, sola e invisibile.
NB : I FILMATI POSTATI QUI SOTTO SONO MOLTO CRUDI E POTREBBERO FERIRE LA SENSIBILITA' DEI PIU' IMPRESSIONABILI
So che molti di voi non seguono il calcio, è incredibile ma è così.
Però avrete visto i telegiornali di ieri, e quindi le scene allucinanti dello stadio di Genova.
Il Genoa perde 3 a 0 in casa col Siena, i tifosi perdono la bussola, alcuni di loro (parrebbe 200 persone ma forse anche meno) riescono ad entrare nel settore dello stadio più vicino al campo di gioco, scavalcano le recinzioni di sicurezza e buttano in campo quattro fumogeni ed alcuni grossi petardi.
L'arbitro ovviamente sospende la partita e qui parte l'assurdo.
Sotto gli occhi di alcuni dirigenti della Digos, i caporioni del tifo chiamano sotto di loro i giocatori e impongono loro di togliersi la maglia, che secondo gli ultras sarebbe stata disonorata.
Questi poveracci, che sono superatleti superpagati ma valgono zero, incredibilmente se le tolgono davvero, le maglie, ed il capitano Marco Rossi le raccoglie per andarle, si suppone, a consegnare in segno di resa a questi quattro cazzoni assiepati sopra al tunnel d'ingresso agli spogliatoi.
Poi alcuni giocatori vanno a parlare con gli ultras, dicono che la maglia loro non se la toglieranno, e spiegano che se non li lasciano giocare la squadra subirà anche una penalizzazione in termini di punteggio.
Quest'ultimo tema evidentemente fa presa e, dopo circa 40 minuti di interruzione, la partita riprende
Alcune domande si pongono come inevitabili.
Perchè un gruppo consistente di ultras, mascherati con sciarpe, occhiali scuri, cappucci, può spostarsi impunemente dai suoi posti, transitare attraverso varchi che dovrebbero essere chiusi e sorvegliati passando accanto a tifosi normali, famiglie con bimbi piccoli eccetera?
Perchè questi signori, dopo essere usciti dallo stadio, possono rientrare ed occupare un ordine di posti diverso dal loro?
Perchè questi signori possono, dai posti più bassi, scavalcare le recinzioni ed appollaiarsi sopra il tunnel mobile che serve per l'entrata e l'uscita dal campo?
Perchè possono portare allo stadio petardoni, fumogeni e dio sa cos'altro quando a me e a mio figlio (all'epoca, 12 anni) fanno aprire lo zaino con dentro i panini e i succhi di frutta e mi fanno lasciare giù l'accendino Bic in plastica "perchè Lei potrebbe anche lanciarlo in campo"?
Perchè questa gente può minacciare in diretta tv i giocatori, ordinare loro di togliersi le maglie ed ottenere ciò che vuole?
Perchè uno di questi può congedare un giocatore dicendogli sempre in diretta tv "Non finisce qui"?
E soprattutto, perchè dirigenti della Digos (la Digos!) guardano tutto questo scempio e non muovono un dito?
Come dice un commento che ho letto oggi, amaramente ironico, io a Genova la Polizia me la ricordavo diversa.
Ma è sempre la stessa storia, forti con i deboli e deboli con i forti, o anche solo con i prepotenti.
Gli agenti e i dirigenti che permettono impunemente a duecento brutti ceffi di prendersi uno stadio, rubando un pomeriggio a chi voleva divertirsi con la partita, sono gli stessi che picchiano alla cieca nei cortei, che picchiano le persone arrestate (e qualcuno poi ci resta anche secco), forse sono anche gli stessi che sono entrati alla scuola Diaz.
L'insegnamento che ne esce è devastante: andate allo stadio e potrete fare tutto ciò che fuori di lì è un reato.
Se io contesto a un agente di essere sgarbato mentre mi controlla i documenti, rischio.
A Genova, ieri, c'era gente che gridava figli di puttana ai poliziotti, col doppio dito medio alzato, da tre metri e senza nemmeno la lastra di pexiglass in mezzo perchè l'avevano già scavalcata.
Reazioni? Zero.
Arresti? Zero.
Tanti anni fa, all'Oktoberfest a Monaco, c'era un ubriaco che voleva darmi in testa il suo boccale vuoto.
Non ho nemmeno fatto in tempo a mettermi in guardia che questo era già sparito in fondo al tendone, portato via da quattro poliziotti che un attimo prima non c'erano.
In Inghilterra, dove di tifo violento si moriva, la Thatcher ha sradicato il fenomeno in meno di un anno.
Qui un cazzo.
Grandi tavole rotonde, grandi processi del lunedì, appelli del martedì e cassazioni del mercoledì ma soluzioni mai.
Quindi il messaggio è: andate allo stadio, e violate tutte le regole possibili, perchè lì si può.
Occhio però a non trovarvi nei punti inopportuni di un corteo, perchè lì invece non si può fare nulla, e se vi beccano quelli sbagliati rischiate di impararlo sulla vostra pelle.
E anche questo, al di là del caso specifico, ha a che fare con il tema più generale dell'essere un gregge o un corpo sociale, dell'essere sudditi o cittadini.
Esiste un luogo comune a proposito della lettura in ragione del quale un buon libro è quello che ti lascia qualcosa, sia essa un’emozione, una riflessione o un pensiero, che poi resteranno per sempre tuoi, cambiandoti inevitabilmente la vita. Di fronte a questa lapalissiana e stringente verità, a me piace ribattere che un buon libro è semmai quello che ti impone un coinvolgimento così totale da portarsi via un pezzo di te, come succede per quelle storie d’amore che restano eterne solo perché ti svuotano l’anima. Il paragone può sembrare ozioso, ma è l’unico che mi viene in mente quando devo descrivere la musica dei Sigur Ros. Per amare la quale, non è sufficiente predisporsi a ricevere, ma occorre piuttosto prepararsi, anima e corpo, ad accettare un livello di coinvolgimento emotivo più alto, quasi fosse una sorta di trascendente dedizione, una totalizzante deriva in cui il sentire viene spinto fino ai limiti del parossismo. Quando nel 2008 uscì Meo Suo I Eyrum Vio Spilum Endalaust, ultimo album in studio prima di quello di cui sto scrivendo, il percorso intrapreso dalla band islandese sembra avere avuto una svolta: c’era un tentativo di portare i suoni a un livello più terreno e di dare alle composizioni il volto convenzionale della canzone. Quel disco, con un brano, udite udite, cantato addirittura in inglese, pur mantenendo un alto livello qualitativo, era tuttavia un lavoro volto a universalizzare un linguaggio musicale fino ad allora comprensibile solo a pochi. Se da un lato, l’obiettivo venne raggiunto ( il relativo tour ebbe un incredibile successo di pubblico ), dall’altro, il caleidoscopio di suggestioni offerto da dischi come ( ) e Von veniva parzialmente ad affievolirsi, lasciando un po’ d’amaro in bocca ai fans della prima ora. Il taglio onirico e cupo del successivo live ( il dvd/cd Inni, del 2011 ) riportava alla luce ( invero assai diafana ) le sonorità di una musica figlia di una ragionata istintività ma incapace tuttavia di assuefarsi ai calcoli matematici dello star system e della commercializzazione. L’attesa per questo Valtari, pertanto, era accompagnata dal dubbio su quale avrebbe potuto essere la strada intrapresa dal gruppo capitanato da Jonsied era resa ancora più febbrile dalle insistenti voci che circolavano da tempo a proposito dell’abbandono della band da parte del suo leader. Tuttavia, è sufficiente una canzone, Eg Anda, il brano che apre il cd, perché ogni dubbio, ogni timore, venga fugato. Valtari suona Sigur Ros, dannatamente Sigur Ros, tanto da richiamare alla mente l’ostica astrattezza di Agaetis Byrjum e del già citato Von. Solennemente spirituali e cineree, le otto tracce del disco hanno l’incedere di una messa da requiem, si dipanano nell’intreccio aggrovigliato di visioni estatiche e ansiogeni tormenti. Cronaca di un exitus, Valtari fonde musica sacra, ambient e rock in un flutturare di note che stazionano nel limbo a metà strada fra realtà e dimensione ultraterrena. L’anima abbandona il corpo ma ancora non evapora del tutto e, proiettato verso l’aldilà, lo spirito resta sospeso in un'amniotica indeterminatezza in cui percepisce suoni ed evoca ricordi in nostalgici flash back. La musica traccia il percorso dolente attraverso il quale il retroterra vitale si sfalda lentamente tra bagliori di Creato e il malinconico reiterarsi di una costante sensazione di perdita. Le note hanno la consistenza di un caliginare affranto nel quale traspare, in barbagli, la luce multiforme della resurrezione al cospetto di Dio. Non ci sono canzoni in Valtari, non c’è nulla, assolutamente nulla, che possa ricordare da vicino le nostre abituali percezioni musicali. L’esile trama melodica delle composizioni emerge rarefatta, sfuggente, quasi impalpabile, da un fuorviante labirinto di fruscii, clangori, tramestii, riverberi e note reiterate all’infinito, su cui domina flebile e angelico il falsetto di Jonsi. A voler essere banali, Valtari potrebbe essere accostato a una colonna sonora. Eppure, il paragone regge solo se si travisa la prospettiva, se si cade nell’illusorio tranello a cui induce il trompe l’oeil creato dai Sigur Ros. Questa musica infatti è cinematografica non perché predisposta a commentare immagini, ma in quanto è essa stessa un’ inquadratura, o meglio, un piano sequenza che racconta, nel tempo reale di un ascolto, l’avventura della trascendenza. Disco ostico e quasi inacessibile al ragionamento, Valtari dispiega tutta la sua ossianica bellezza solo se affrontato predisponendo i sensi ad accogliere il fascino insolito di un’esperienza che è soprattutto spirituale, prima ancora che musicale. Solo così sarà possibile smarrirsi nei brumosi recessi di inesplorati soundscapes, lasciarsi trasportare dalle lattiginose acque che cullano i sogni, per poi ritrovarsi ad un passo dal cielo e rifulgere nella luce di una nuova consapevolezza (musicale).
In un mondo più giusto, in cui ai primi posti delle classifiche ci si sta per qualità artistica e non per aver venduto l'anima al business, i Management Del Dolore Post Operatorio si posizionerebbero in vetta, proprio lassù, dove dovrebbero osare le aquile e invece, quasi prevalentemente, nidificano passerotti spennacchiati e tristi. Questi ragazzi già meriterebbero un premio per essersi inventati uno dei nomi da band più sfiziosi in circolazione e per aver dato alle stampe un cd con una copertina così smaccatamente provocatoria, che mai avresti pensato di vederla in circolazione sul sacro suolo della baciapilesca Italia. Ma a prescindere dall' indubbio estro comunicativo della band, Auff ! è soprattutto un disco di ottime canzoni, capaci di abbinare in un sol colpo prurigini da dancefloor, attitudine post-punk, impatto sonoro ad alto tasso chitarristico e un piglio declamatorio che si sviluppa tra slogan e scapigliata ironia, grazie a un linguaggio colto, e tuttavia mai verboso o ostentato. Come sempre, il giochino dei rimandi per poter far capire di che musica stiamo parlando, è inevitabile. Pertanto, provate a immaginare una versione aggiornata e italica dei Gang Of Four ( quelli di Entertainment!, per intenderci ), suonati però con il piglio brioso dei Franz Ferdinand degli esordi : funk bianco, ritmica nervosa, puntuti riff di chitarra, ganci melodici e assist di godereccia dance-wave. Eppure, nonostante tanti celebri riferimenti, la musica dei MDDPO ha una fisionomia personalissima e ben marcata, che sarebbe ingiusto ridurre a un mero riflesso dello specchio. Auff !, infatti, vibra di energia, è ben suonato, è divertente, non conosce passi falsi e riempitivi. Le liriche di Luca Romagnoli, spregiudicatissime e ricche di calembour, stanno lontano chilometri da clichè e banalità, inducono al sorriso e aprono alla riflessione, sferzano con sarcasmo e inchiodano a icastiche verità. Le dieci canzoni di cui è composto il disco si bevono d'un fiato come un boccale di birra quando la gola è arsa dalla sete, ti sbloccano le gambe come iniezioni di adrenalina che spingono al ballo senza spegnere il cervello ( Pornobisogno, Auff ! ) o inquietano i pensieri con il limaccioso incedere di una scombussolante malinconia ( Amore Borghese, con Emiliano Audisio dei Linea 77 alla voce, e la conclusiva Il Numero Otto ). Dopo il buon esordio datato 2008 e intitolato Mestruazioni, i Management Del Dolore Post Operatorio si ripropongono quindi come una delle realtà più interessanti del panorama indie italiano.Anche se, a ben vedere, dispiace davvero dover utilizzare l'aggettivo indie per inquadrare un gruppo che, come si diceva all'inizio, in un mondo più giusto avrebbe davvero ben altri riscontri di pubblico e vendita.
Vivere in un altro luogo e in un altro tempo. Un sogno che penso abbia sfiorato tutti in qualche misura, un desiderio fuggente insinuatosi nella mente grazie a una canzone, alla scena di un film, a un costume, a un libro, a una fotografia magari.
Da parecchio tempo ormai ho il forte desiderio di visitare New York. Negli ultimi anni, e per ultimi intendo gli ultimi dieci più o meno, i viaggi si sono diradati, le vacanze standardizzate e, forse di conseguenza, i sogni sono aumentati. In realtà il sogno ricorrente è sempre quello: andare a New York, non meno di dieci giorni. Meglio se per un periodo più lungo.
Ogni tanto la fantasia parte per la tangente e allora il desiderio diventa andare a New York negli anni '70. Mi dicono sia una cosa che ancora non si può fare a meno di non essere in possesso di un Tardis o di grandi dosi di LSD di quello buono.
Perché proprio New York negli anni Settanta? In realtà non c'è un motivo ben preciso, suggestioni, istinto, per lo più penso sia colpa del cinema. Il cinema che arriva a noi direttamente dai meravigliosi Seventies.
Capitolo primo: adorava New York, la idolatrava smisuratamente. Ma no, è meglio la, la mitizzava smisuratamente. Ecco.
L'incipit di Manhattan, film di Woody Allen datato 1979, dice tutto. Il nocciolo della questione sta tutto lì, in quella parola che non potrebbe essere un'altra in questo contesto: mitizzava. New York è un luogo mitico per chi ama la cultura pop. Cinema, libri, fumetti, musica hanno contribuito a rendere questo luogo un luogo di tutti. Non mi riferisco al melting-pot e cose del genere, New York è il luogo anche di chi come me non c'è mai stato.
Di questa sequenza iniziale tutto mi attrae. Le splendide note di Gershwin (Newyorkese), gli skylines, le luci all'imbrunire, i diners, le strade ricoperte dalla neve, il fumo che esce dai tombini, i taxi gialli, i campetti da basket, il parco, la folla brulicante, l'arte, i contrasti stilistici, le insegne luminose, tutto.
Però dice che la Grande Mela non fosse poi così linda e sicura negli anni '70. Tempi difficili quelli, il sogno iniziava a sgretolarsi dopo decenni decisamente più fortunati. Molte sono le pellicole tramite le quali ci viene mostrata la deriva della città in quegli anni: il degrado di quartieri come il Bronx e Harlem, quello delle notti a Central Park, gli homeless ai bordi delle strade, i ghetti, la droga, i problemi delle minoranze, la corruzione, la crisi finanziaria e quant'altro. Eppure in quelle immagini c'è una fascinazione incredibile, che ci mostrino la sfavillante Manhattan o la miseria di Harlem poco importa. Proprio nel tipo d'immagine sta il bello. Quella grana sulla pellicola, quella luce, quei colori. Caratteristiche che si ritrovano anche in molti dei telefilm della nostra infanzia, almeno per chi come me nasce intorno alla metà di quel decennio (oh, in fondo è il mio decennio, servono altre giustificazioni? Sono nato negli anni '70 e me ne vanto, come non potrei?).
E poi le auto, la moda, le acconciature, la grafica degli album del periodo e ovviamente la musica. Se ai favolosi Sessanta si deve una grandissima rivoluzione musicale anche la poco florida situazione del decennio successivo a New York contribuisce alla germinazione di importanti generi musicali. I New York Dolls ad esempio venavano il loro rock di sprazzi punk con piglio glam andando a inserirsi nel filone proto-punk, c'erano i Ramones a dare il loro contributo alla scena punk rock, esplode la Disco Music con l'aumento nei '70 delle discoteche: prima evoluzione di Funk e R&B legata alla cultura nera, vero e proprio fenomeno musicale di massa nella seconda metà del decennio. Viene datata 1973 la nascita dell'Hip hop nel Bronx, New York. E già c'era Afrika Bambaataa, pensate. Insomma c'era fermento a New York nei Seventies. Molto.
Molto di questo fermento è dovuto alla ricerca di rivalsa della popolazione nera che ha dato un contributo fondamentale alla cultura del periodo. Affascinante, anche se poco apprezzato nel termine, il fenomeno della Blaxploitation. Legato principalmente al cinema con pellicole aventi per protagonisti attori afroamericani rivolte a un pubblico composto per lo più da afroamericani. Forse questa corrente cinematografica non ci ha lasciato film memorabili ma sicuramente alcune colonne sonore degne di nota (e le prove di una splendida Pam Grier). Shaft (1971), pur qualitativamente non eccelso, vinse addirittura un Oscar per l'omonima e bellissima canzone di Isaac Hayes e salvò la Metro-Goldwin-Mayer dalla bancarotta. I nomi coinvolti nella lavorazione delle soundtrack di questi film sono molti: Curtis Mayfield, Quincy Jones, Bobby Womack (splendida Across 110th street), Marvin Gaye, James Brown e chissà quanti altri ancora.
Il sogno meriterebbe un numero ben maggiore di parole per essere descritto per bene ma cercherò di limitarmi e di chiudere parlando delle storie Newyorkesi che il decennio in questione ci ha lasciato in eterna eredità. Tralascio le suggestioni scaturite ammirando le splendide tavole dei comics d'epoca dove un Uomo Ragno appeso alla sua tela svolazza tra i grattacieli di Manhattan passando davanti al Baxter Building mentre a Hell's Kitchen un uomo vestito da Diavolo Rosso manteneva vivibile il suo quartiere e vado a concentrarmi ancora una volta sul cinema.
Dalle violente Mean streets Scorsesiane di Little Italy (1973) alla denuncia della corruzione dilagante nel corpo di polizia da parte di Frank Serpico (1973) il cinema dei '70 non ha di certo tenuto nascoste le magagne dell'epoca. La diffusione delle droghe e la French Connection sono alla base de Il braccio violento della legge (1971), il racconto di una rapina realmente tentata in quel di Brooklyn diventa il film di culto Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975), le macchinazioni di politica e servizi segreti immortalate nella spy story de I tre giorni del Condor (1975) e nel film Il maratoneta (1976), il dramma dei reduci dal Vietnam nel grandissimo Taxi driver (1976) e quello delle gang nel mitico I guerrieri della notte (1979). Ma non solo degrado e violenza caratterizzano il cinema ambientato nella Grande Mela dei settanta. Basti pensare ai film di Allen come Manhattan(1979) o Io e Annie (1977), al dramma sentimentale Kramer contro Kramer (1979) o all'altro film di culto La febbre del sabato sera (1977).
Di certo non era tutto rose e fiori all'epoca a New York, anni e vita dura per molti, lontane forse le speranze della controcultura hippie per distanza (fenomeno legato maggiormente alla costa ovest) e per il tempo trascorso. Rimane comunque un periodo culturalmente vivo e che esercita, almeno su di me, un incredibile fascino. Certo che per ora mi basterebbe andarci a New York, per i '70 poi si vedrà.
Quando si ha una passione, una passione vera, prima o poi per forza di cose si finisce a studiarne la storia, si va a scavare nel passato di quel che così tanto ci affascina, per curiosità e un po' per una sorta di inconscio senso di gratitudine verso chi ha dato il via ad una passione che sentiamo nostra fin sotto pelle. Per la musica, così come per tutte le arti, tornare alle origini significa viaggiare all'indietro per decenni, secoli addirittura, e a volte ci si imbatte in periodi storici, contesti e luoghi nei quali si vorrebbe essere addirittura nati e vissuti, per poterne sentire totalmente e incondizionatamente il clima, respirare l'aria di quegli anni, affondare le mani in quella stessa terra così ricca di ispirazione....
Il rock, quello che più mi appassiona, è quello che però cronologicamente è più lontano. Mentre la massa guardava MTV e seguiva le hit mondiali io passavo pomeriggi interi guardando "Evergreen", e nella mia collezione di dischi ci sono moltissimi nomi che purtroppo ho potuto leggere soltanto sui libri e ascoltare e vedere in differita. Nomi grandi, che ancora oggi mettono un po' di soggezione e che anagraficamente parlando potrebbero essere miei genitori o spesso addirittura miei nonni. Ci sono nomi, tanti nomi, che appartengono agli anni '70, o meglio ancora ai '60, nomi che hanno la capacità di mettere tutti d'accordo e che stanno al di sopra delle semplici questioni di gusti personali o simpatie e antipatie. Ci sono i Beatles, i Rolling Stones, ci sono Led Zeppelin, Beach Boys, Frank Zappa, I Doors, Hendrix e chi più ne ha più ne metta; tutta questa gente ha cambiato la storia, ha cambiato la musica ed è riuscita, tramite la musica, ad arrivare dove la politica, l'economia e le importanti scienze che muovono il mondo non hanno saputo arrivare. La musica di quegli anni ha smosso popoli più delle motivazioni politiche, ha affondato colpi al sistema più di ogni vile attentato e non a caso è fonte di ispirazione ancora oggi che quegli anni sembrano tanto lontani....
Non sono però gli anni '70, e nemmeno i '60 quelli che personalmente rispondono davvero alla domanda "In quale periodo musicale avresti voluto vivere?". E' invece il decennio precedente, troppo spesso messo da parte e forse addirittura sottovalutato, ad affascinarmi tanto da desiderare di poter saltare su una DeLorean e tuffarmici a 88 miglia orarie. Gli anni '50, il primo decennio del dopoguerra, tempo di ricostruzione e di crescita, di incubi finiti e di buone speranze, anni non certo splendenti in tutto e per tutto, ma certamente ricchi di desiderio di cambiare le cose, lo stesso desiderio che negli anni '60 esploderà cambiando volto al mondo intero e che nasce proprio in questo periodo in cui lentamente si ripartiva e in cui la fatica era tanta e la musica era uno dei pochi modi per smorzarla.... C'è un luogo in particolare che personalmente reputo una sorta di Mecca in questo senso, un luogo sacro ricco di storia, a volte di mistero e musica, una musica che viene dal cuore della terra e dal profondo dell'anima; il luogo in questione è uno degli Stati Uniti, uno "Staterello" che oggi conta poco meno di 3 milioni di abitanti, che sfiora Memphis, ultimo baluardo del Tennessee, corre lungo il fiume da cui prende il nome e poi giù, fino alle coste del golfo del Messico. Naturalmente parlo del Mississippi e soprattutto delle rive del suo grande fiume, teatro di avventure letterarie e soprattutto di miti musicali. E' lungo le rive del Mississippi, all'incrocio di due sentieri sterrati che si dice che in una notte degli anni '20 Robert Johnson abbia stretto un patto con il diavolo vendendo la propria anima in cambio di saper suonare la chitarra. E' lungo le rive del Mississippi che nei successivi decenni nacquero il blues, il Jazz e il Rythm & Blues. E' il Mississippi, quando si tuffa nel golfo, che fa da culla al Delta Blues che diede il via a tutto. E' nel polveroso stato del Mississippi che negli anni '50 esplodono, su tutti, due mostri sacri del rock e del blues, il Re del Rock'N'Roll Elvis Presley e il "Blues boy" B.B. King. Con questi due nomi potrei chiudere il post e sentire di aver chiarito quali siano i motivi per adorare gli anni '50 a tal punto, ma sono i nomi a rendere grande il Mississippi o è il Mississippi a rendere grandi i nomi? Che aria si respirava 60 anni fa in quei luoghi rimasti per decenni quasi fuori dal tempo e che di colpo si sono trasformati da campi di cotone e fangose paludi alla culla del blues e del rock'n'roll? Non erano sicuramente la pace e la tranquillità ad aleggiare in quegli ambienti e non era certo il benestare la parola d'ordine, ma forse proprio per questo il risultato è stato così strabiliante. Faber in una sua stupenda canzone spiegava che "Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior"; più che di letame in questo caso si parla di fanghiglia, ma i fiori che ne sono nati sono splendidi e faccio davvero fatica a credere che non ci possa essere qualcosa di quasi magico in questi luoghi, qualcosa che ancora oggi non si riesce ad afferrare veramente, e mai ci si riuscirà senza aver vissuto il Mississippi sulla propria pelle. E' nato il blues in quegli anfratti, dalle dita callose e le gole arse frutto di anni a lavorare nei campi di cotone per meno di un tozzo di pane, sono nati il jazz e lo swing, perchè proprio dove la vita si fa dura un po' di spensieratezza è l'ancora a cui avvinghiarsi per resistere, ed è nato il rock'n'roll, perchè il mondo stava davvero cambiando e i ragazzi lo sentivano, sono nate le hit e gli idoli quando un ragazzino meno che ventenne con i pochi spiccioli che aveva in tasca volle incidere una canzone su un disco da regalare alla madre, e ancora non sapeva che sarebbe diventato re.... Sono nati quei suoni che anche dopo 60 anni riecheggiano forti e densi come la prima volta, e potendo viaggiare nel tempo la mia direzione sarebbe senza dubbio quel periodo, quando tutta la musica che amo era ancora un germoglio, quando quelle vibrazioni malinconiche e quelle esplosioni di sentimenti le avrei potute afferrare realmente, quando la vita era dura ma la musica era splendida e forse, lungo gli argini di quell'imponente fiume, avrei potuto potuto sentire sotto la pelle quella strana ed affascinante ondata che come per magia da una mano callosa e sei corde tese sa colpire al cuore senza bisogno di un mirino....
Quando Graham arriva in California dalla piovosa Inghilterra, forse non sa ancora che, di lì a breve, la sua vita cambierà radicalmente. Da qualche giorno, ha conosciuto Joni e se ne è innamorato perdutamente, probabilmente sta già facendo qualche progetto di convivenza, pensa di trasferirsi o comunque di stabilizzare il rapporto nonostante li separi un oceano. Ma ci sono anche i suoi Hollies che lo aspettano in patria per continuare a scalare le classifiche con belle canzoni di luminoso pop-rock. Forse sta proprio rimuginando sul da farsi, quando una sera, a casa di Joni, dove si riuniscono quotidianamente i migliori artisti e musicisti della scena losangelina, sente due ragazzi cantare. Si chiamano David e Sthepen e giocano con le voci come un prestigiatore fa trucchi con le carte. Stanno abbozzando una canzone che si intitola Helplessly Hoping e la melodia è qualcosa che avvicina al mistero del Creato. Graham si unisce ai due e quasi per scherzo inizia a cantare anche lui. Le tre voci si incastrano, si inseguono, si sovrappongono, si sfiorano, ma soprattutto accarezzano le orecchie degli astanti, convinti, come qualcuno sosterrà in seguito, di aver ascoltato un coro d’angeli caduti sulla terra. E’ il 1968 e nasce, a casa di Joni Mitchell, quello che sarà uno dei gruppi californiani più importante di sempre, i Crosby ( David ) Stills ( Stephen ) & Nash ( Graham ). Siamo a Los Angeles, siamo in California, siamo in quello che tra la seconda metà degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’70 sarà il centro musicale del mondo.
La mia personalissima macchina del tempo è puntata esattamente in quegli anni, perché se potessi fare un viaggio attraverso un varco spazio – temporale – musicale io mi catapulterei lì, a percorrere anni e chilometri tra San Francisco e Los Angeles. C’è vita in quei giorni, tanta vita : c’è l’odore dei fiori, il mito del surf, ci sono gli hippies e la filosofia peace and love, c’è una fottutissima guerra, contro cui marciare e protestare, ci sono droghe vecchie e nuove, che aprono le porte della percezione, aiutano a creare, a sperimentare. E c’è una musica che nasce, libera, alternativa, politicamente impegnata o delicatamente romatica. A Frisco impazzano i Jefferson Airplane che parlano una lingua rock e psichedelica mai udita prima. Verranno capolavori come Somebody To Love e White Rabbit, verrà lo sperimentalismo spinto di After Bathing At Baxter’s, i mitici concerti al Fillmore, e gli Acid Tests, le luci stroboscopiche e LSD ad anticipare gli odierni rave party. E sarà proprio la filosofia della droga e dell’acido a marchiare indelebilmente la leggenda dei Grateful Dead, i loro concerti-happening, il loro rock anarcoide, sperimentale, onnivoro, che troverà il suo culmine in American Beauty ( 1970 ). Ma sono anche anni di guerra, c’è il Vietnam, c’è una generazione falcidiata da una morte che entra quotidianamente nelle case. La musica allora si fa protesta, rivoluzione, le rock band sfilano a fianco degli studenti che riempiono le manifestazioni in ogni angolo d’America. I Jefferson Airplane scrivono Volunteers ( 1969 ), che rappresenta la grande sfida del rock al sistema americano e il grido di rivolta delle frange estreme e radicali del movimento studentesco. Un impegno politico e sociale che a Los Angeles trova i propri alfieri nei CSN & Y ( Y sta per Neil Young, che si unirà ai tre dopo il primo album ), quattro diverse anime musicali che trovano una perfetta, quanto fugace, armonia, e scrivono il manifesto West Coast ( Deja Vù ), cristallizzano in versi l’epoca hippie ( Teach Your Children, Woodstock ) e propongono commoventi ballate libertarie e antimilitaristiche ( Find The Cost Of Freedom, Ohio ). Eppure, la scena losangelina è capace di dare vita anche a un movimento musicale introspettivo, romantico, che guarda non al sociale ma agli struggimenti privati di una generazione. Musicisti che Frank Zappa, con molto cinismo, definirà navel-gazers, coloro cioè che vivono rimirandosi l’ombelico ed elevano i propri problemi a dimensioni universali. Saranno la meravigliosa Carole King del sublime Tapestry ( 1971 ), sarà James Taylor con il carezzevole rock di Sweet Baby James ( 1970 ), sarà il folk colto di Joni Mitchell che sfornerà due capolavori come Ladies Of The Canyon ( 1970 ) e l’inarrivabile Blue ( 1971 ).
Più di ogni altro, è questo il mondo musicale in cui avrei voluto vivere. Un mondo in cui la musica era inesauribile fermento, viveva in perfetta simbiosi con la generazione che rappresentava. Quello californiano era un rock che apriva nuove strade ai giovani, indicava loro la direzione e ne sosteneva il cammino, fra tensioni politiche e derive intimiste; e i giovani, per converso, aiutavano il rock a crescere, lo plasmavano ai loro desiderata, alle speranze, ai sogni. Non è un caso che quelli fossero gli anni dei grandi concerti: non semplici live act, ma veri e propri happening nei quali la gioventù si formava, cresceva intellettualmente, cambiava i propri costumi, sperimentava insieme. In nessun altro luogo al mondo, mi sarei visto così bene come nella California di quarantanni fa: il mare a cullarmi lo sguardo, infradito ai piedi, asciugamano in spalla, un purino di marjiuana fra le labbra e tanta musica nel cuore. Peace & Love, bros and sisters: andiamo, la spiaggia ci aspetta con le sue onde e il suo sogno di capelli al vento.