lunedì 30 aprile 2012

DENNIS WILSON - PACIFIC OCEAN BLUE


Ci sono occhi che non lasciano scampo, che ti impongono domande, che raccontano una vita più di qualsiasi parola. Sono gli occhi di Dennis Wilson, la pecora nera dei Beach Boys, il surfer, il cocainomane, l'eroinomane, l'alcolizzato, il donnaiolo, un uomo in balia dei propri istinti e della propria genetica incapacità di convivere con il successo, il denaro, la notorietà. Guardateli questi occhi, così gonfi di vita: scrutano l’orizzonte come se volessero afferrarlo, cercano la libertà, una via di salvezza, cercano l'onda. Sono gli occhi di chi dall’oceano ha avuto tutto, di chi l’onda la cavalcava veramente, e non per metafora, scommettendo ogni giorno la propria vita in cambio di un respiro di adrenalina. Dennis Wilson era anche un grande musicista, nonostante nei Beach Boys avesse un ruolo defilato, nonostante spendesse le proprie energie per immolarsi sull’altare della droga. Un musicista  sicuramente non geniale e raffinato come il fratello Brian, ma capace comunque di dare voce alla propria indeterminatezza in modo diretto, sincero, mutuando dal rock un’urgenza espressiva assolutamente perfetta per la sua indole autodistruttiva. Dennis era un uomo incapace di reggere il peso del  destino, del nome che portava, delle ansie che gli derivavano dall’essere un Beach Boys. Trovava pace solo respirando l’odore del mare, immergendosi nel suo oceano, stando in equilibrio su quella tavola che non tradiva mai, che era riscatto e redenzione. Amico di Charles Manson, di cui capì in ritardo la follia  e le derive omicide; sposo cinque volte, "di cinque donne", come era solito raccontare, "che non mi hanno mai amato veramente" ; anima perennemente in fuga , che cercava in un mondo fatto droghe e di alcool la forza per vincere la bestia feroce della solitudine; morto affogato in quell’ oceano che amava forse più di ogni altra cosa, a cui consegnava ogni giorno la sua fama e la sua gloria e che tutto gli portò via. Questa, in buona sostanza, è l’avventura umana di Dennis Wilson. La cui leggenda, nel 2008, è tornata alla luce grazie a un doppio cd che racchiude il primo, memorabile, e altrimenti pressochè introvabile, Pacific Ocean Blue, e il mai pubblicato, e altrettanto leggendario,  Bambu.
Non solo un'edizione imperdibile per ogni appassionato di musica californiana, ma anche il modo per scoprire ( o riscoprire ) uno dei dischi più struggenti e intensi ( oltre che misconosciuto ) della storia della musica pop. Un disco,sia subito chiaro per evitare fraintendimenti, anni luce lontano per indole dal divertissement surf dei Beach Boys e dall’art rock, colto e avanguardistico, del fratello Brian. Trentatre canzoni che descrivono meglio di ogni parola la fine del sogno californiano ( il punk in quegli anni stava spazzando via  tutto ciò che trovava sul proprio cammino ), una sorta di " Mercoledì Da Leoni " del rock, nel quale attraverso languori nostalgici e disperata rassegnazione, Wilson racconta il crepuscolo privato ed epocale di un uomo e della sua generazione. In un caleidoscopio di suggestioni che abbracciano il gospel e il soul, la psichedelia e il rock, il pop e il blues, fino a derive di malinconico intimismo che sfiorano  il percorso tracciato da Robert Wyatt, Dennis scrive una sorta di diario di bordo a ritroso, una pagina di ricordi su un’epopea appena conclusasi e destinata ad essere  risucchiata dal passo veloce della Storia. Pacific Ocean Blue racchiude un pugno di canzoni che suonano come un testamento, che cesellano con grazia un gioiello di nostalgia in cui rifulge, per l’ultima volta, la luce del tramonto di un’epoca. Sono canzoni fortemente legale al contesto storico e geografico in cui nascono, eppure al contempo dotate di un linguaggio  che universalizza la perdita dell’ innocenza e quegli struggimenti feroci legati al passare di un tempo che non tornerà più.  E' sufficiente ascoltare Thoughts Of You , che qualcuno mirabilmente ha definito come i tre minuti più tristi della storia del pop, per svelare l’anima di questa raccolta. Ma le belle canzoni di Pacific Ocean Blue sono tante, troppe probabilmente, per poter essere raccontate  tutte in poche righe. Mi limito a citare End Of The Show , dal titolo premonitore, che si appropria del verbo dell’inquietudine declinato così bene solo da Tim Buckley; Time che potrebbe stare benissimo come chiosa melodica di "Rock Bottom" di Wyatt , tanto è disperatamente accorata; You and I che plasma il pop arrivando a forgiare una melodia che fu marchio di fabbrica dei migliori Bee Gees; River Song che gioca con il gospel in una corale tanto maestosa quanto epica. Basterebbero questi cinque pezzi a giustificare l’acquisto di un disco che riesce però a essere coinvolgente dalla prima all'ultima traccia. Merito non solo di una musica scevra da ogni artificio, ma anche della voce arresa di Dennis, che si insinua sotto pelle, che coinvolge l’anima dell’ascoltatore in un gioco di reciproci rimandi e immedesimazioni, che allude al mare, all’interminabile respiro dell’orizzonte, alla salsedine che impregna le nostre inconsolabili solitudini. Guardate quegli occhi in copertina e non perdetevi l'oceano che contengono. Abbandonatevi alle canzoni di Pacific Ocean Blue :sarà come cavalcare the big one, l'onda giusta, quel muro d’acqua e adrenalina che è il Santo Graal di ogni surfer. E quando vi troverete sulla cresta di queste canzoni, ci sarò un attimo, un breve istante, in cui vi sentirete perfettamente liberi. Intorno a voi, solo l’Oceano.





Blackswan, lunedì 30/04/2012

venerdì 27 aprile 2012

ROCK PILLS


ROBYN LUDWICK – OUT OF THE BLUES
Genere : Americana

Segnatevi questo disco perché, ve lo assicuro, è una vera goduria. Robyn Ludwick è una ragazza texana che di musica nella propria vita ne ha masticata parecchia, non foss’altro perché i suoi due fratelli sono Charlie e Bruce Robinson, stelle della scena country statunitense. Anche lei ama quella musica lì e glielo si sente nel dna. E nonostante ciò, sceglie di seguire le orme di Sheryl Crow  e dei Counting Crows ( oddio, quanti corvi ! ), punta ad un taglio più moderno e miscela deliziosamente languori pop, tradizione e un certo retrogusto soul-rock.  Il disco è suonato meravigliosamente, il suono è caldo, le canzoni, e che canzoni, cesellate con la punta del plettro. Se amate il genere, questo cd è heavy rotation compulsiva. Perfetto per viaggi in macchina verso l’ignoto o per cullare dolcemente le derive malinconiche nate da un amore finito.




VOTO : 8

MITCH LADDIE – BURNING BRIDGES
Genere : Rock-blues

21 anni e inglese, Mitch Laddie è un giovane di belle speranze che ha già fatto sbarluccicare gli occhi di molti buon gustai. Burning Bridges è il suo secondo disco e i territori in cui si muove questo promettente chitarrista sono quelli convenzionali del blues rock di matrice hendrixiana. Attenzione, però : il ragazzo non si limita alla consueta dicotomia ballatoni strappa-lacrime e riff incendiari. Ha gusto ed è versatile : ci mette un’attitudine nera in scintillanti canzoni dal piglio funky e dimostra di essere un asso anche quando imbraccia la chitarra acustica. Se vi piacciono Joe Bonamassa, Kenny Wayne Sheperd e Jeff Healy questo disco non vi deluderà.




VOTO : 6,5


I LIKE TRAINS – THE SHALLOWS
Genere : Alternative-rock

Mentirei se vi raccontassi di un brutto disco. Il fatto è che questi ragazzi di Leeds hanno preso i Joy Division a propria immagine e somiglianza e da lì non si sono più mossi, salvo ritoccare un po’ il trucco. Se proprio amate il genere, Interpol, The National e Editors sono meglio. In The Swallows non ci sono brutte canzoni, ma suonano tutte francamente inutili. Perché il plot è sempre lo stesso da anni : malinconia, voce baritonale, struggimenti in produzione seriale, brume autunnali. Ha ancora un senso un disco così, quando i maestri di questa new wave del nuovo millennio hanno già cambiato registro ? E soprattutto :usque tandem ? 




VOTO : 5,5


BLUES TRAVELER - SUZIE CRACKS THE WHIP
Genere : rock

Per i 25 anni di attività, I Blues Traveler usciranno il 26 giugno con il loro 11esimo album in studio. Capitanati dal mitico cantante e armonicista John Popper, il gruppo di Princeton ha scritto pagine memorabili di rock americano, distinguendosi insieme ai Phish come il miglior grppo da jamming dal vivo, tanto da meritare una menzione anche nel severissimo sito di Piero Scaruffi. Suzie Cracks The Whip non è propriamente quello che si può definire un disco di blues, come il nome della band lascerebbe intendere. La musica del delta occhieggia qua e là, ma è poca cosa. La parte del leone la fanno invece canzoni che puntano ai passaggi radiofonici, in bilico fra ruvidezze rock e ganci melodici. Niente per cui svenarsi, ma sicuramente un lavoro divertente, con qualche brano di livello compositivo superiore alla media ( la ballata alla Simon &Gurfunkel di Love Is Everything ( That I Discribe ) e il pop screziato di folk  dell’intensa Don’t Wanna Go).



NB: non esistono ancora video tratti dal nuovo album dei blues traveler.Questo è di repertorio.

VOTO : 6

giovedì 26 aprile 2012

GLI OCCHI DEL DUCA BIANCO

Sono felice e onorato di ospitare su questa pagina un post di Nella ( e che post ! ), meravigliosa padrona di casa del blog Rock Music Space, oggi in vacanza presso le terre di Killerania, dopo aver preso residenza qualche giorno fa nei bucolici scenari del Granducato di Moletania.




Come il prezzemolo, eccomi anche qui in Killerania,la terra giusta per affrontare le mie frustrazioni ed essere al sicuro , difesa dal cavaliere oscuro Blackswan!!! Mi hanno consigliato di uscire ogni tanto dalla mia stamberga  in quel di Moletania, e sfidare gli strali di questa terra senza confini e senza limiti di Killerania. Mi fa un po' paura , ma la devo vincere a tutti i costi , e come prepararmi alla sfida , se non raccontandovi qualcosa del mio passato ( che a voi non interessa nulla con ragione), ma lasciatemi concludere con pazienza amici cari, insieme a qualche personaggio musicale o della scena artistica. Il linciaggio sarà ancora maggiore, le critiche pioveranno a bizzeffe, ma questo è quello che devo affrontare per non temere più la paura. Sono sicura voi mi aiuterete nel peggiore dei modi! Il primo episodio che voglio svelarvi è la mia prima pseudo intervista , che tale non doveva essere. Ma con chi? Direte voi? Niente po po' di meno che  con David Bowie. A volte questi ricordi un po' sbiadiscono, spesso preferisco dimenticarli, sovente voglio ricordarli. Ero una piccola , sprovveduta ragazza , dedicata alla danza più che alla musica. Ma sapevo l'olandese ed allora mi trovai catapultata in un mondo molto più grande di me: la musica. Ora tutto è più facile e anche difficile, ma senza dubbio diverso, quando si lavora ai margini di questo " mostro " parlante....All'epoca idolatravo David, era un alieno piovuto dal cielo, così asessuato e particolare , da vederlo provenire da un altro pianeta. Ricordiamo il meraviglioso film "L'uomo caduto sulla terra"... Stento a credere che voi  non l'abbiate visto, ma provvedete al più presto, perchè non c'è alieno più veritiero di lui! Un mito , una favola , una leggenda ... I tempi dello zio Bruce erano ancora lontani per me. Mi piaceva la sua musica , ma il fascino che emanava ...  David era totalmente diverso. 



Ancor oggi mi domando, come possa amare così incondizionatamente Springsteen, avendo avuto una venerazione per Bowie. Non lo so, sono le incongruenze della vita.Si sapeva di lui tutto e niente , si conoscevano vizi e sregolatezze vere o presunte , canzoni indimenticabili, collaborazioni eccelse , ma un alone di incertezza aleggiava sempre si di lui, tanto da domandarti se c'era o ci faceva. In mezzo a questo vortice infernale, mi trovai a portare il classico registratore tipo " anni luce" , per capirci meglio, alla Fantozzi....ed un microfono più grande della mia mano, per permettere al mio diretto superiore la classica intervista. La prima sorpresa , che poi si rivelò un'abitudine del divo, furono i quaranta abbondanti minuti di ritardo, che non fecero altro se non aumentare la mia inquietudine e il mio disagio, oltrechè i pesi da reggere.Dopo tutto questo tempo ci incanalarono , a mo' di camera a gas,( brutto esempio , ma calza ....) in uno stanzone, dove dopo un'altra mezz'ora il signor  David Robert Jones arrivò con calma e sussiego, si accomodò , distante dal popolo e ci fissò con assoluta indifferenza. Sentivo le mie gambe più pesanti( un po' per il solito peso , non lo nego) ma molto perchè tutte le prime volte sono critiche. Per metterci a nostro agio , guardò l'ora , come ad esortarci alla fretta e con un sorriso mellifluo quanto falso( era evidente...) , girò lo sguardo su questa massa muta e guardinga. Con un dito , quale inquisitore , mi indicò tra gli astanti , incredula di tale scelta  e terrorizzata dalla mia gravosa responsabilità. Con estrema gentilezza  mi chiese di fare una domanda, mentre il mio diretto superiore mi incitava a farla intelligente. Ma chi ci aveva pensato?     Io ero solo un appendino , e le mie orecchie potevano essere utili, per afferrare qualche parola in un' altra lingua che poteva sfuggire.



Le domande da farsi erano migliaia, dal trasformismo, al periodo berlinese, alla sua ultima fatica (allora) " The Glass spider Tour" ( non il prodotto migliore a mio avviso), ai suoi amori, ai periodi vissuti da autista dei Rollings, alle sue bischerate con Mick Jagger e Tina Turner.Dopo una ginocchiata nei reni, che ancor oggi ne pago le misere conseguenze, con un filo di voce , chiesi perchè i suoi occhi erano di diverso colore. Pensare che lo sapevo già. !!!! L'unica cosa nuova , fu la grassa risata che ruppe il silenzio diventato imbarazzante... Fu cortese , in breve ebbe misericordia e mi raccontò tutta la lite ed il pugno che gli procurò questo inconveniente, mentre i veri giornalisti mi risevarono solo occhiate pietose...Chi ben comincia è alla metà dell'opera, io forse dovevo fermarmi lì oppure no. Con il senno di poi, oggi saprei cosa chiedergli senza pensarci un minuto. Semplicemente mi informerei sul suo stato di salute non buono e sul suo cuore. Siamo cresciuti... chissà era meglio pensare al colore degli occhi! Vi lascio alle ricercatezze del nostro Blackswan, perchè so che ne sentite doppiamente la necessità. Io mi ritiro nel mio umile tetto. Se lo desiderate , alla prossima.





NELLA, giovedì 26/04/2012

mercoledì 25 aprile 2012

Liberi!

Ancora una volta è il 25 aprile.
Una data di cui si rischia di perdere la percezione, perchè il 1945 è sempre più lontano.
Sempre meno numerosi sono i testimoni oculari ancora vivi.
Sempre meno è la quantità di notizie che giungono ai più giovani, e che loro stessi cercano di procurarsi.
Qui a Milano quindici persone furono catturate ed uccise a Piazzale Loreto dai fascisti su ordine delle SS, e questo è il motivo per cui, dopo, i cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e di altri gerarchi furono appesi nella stessa piazza al traliccio di un distributore di benzina che ora non c'è più.
Qui a Milano il fascismo è nato, in Piazza San Sepolcro furono fondati nel 1919 i Fasci di Combattimento.
Qui a Milano il fascismo è morto, mediante l'esibizione tragica dei corpi dei suoi capi.
Qui a Milano sono state scritte pagine fondamentali della resistenza, qui il CNL Alta Italia ha preso i pieni poteri dopo la rotta dei tedeschi e non a caso Aldo Aniasi, il mitico Comandante Iso delle Brigate Garibaldi in Val d'Ossola, dopo la guerra venne a Milano diventandone sindaco per due mandati.
Eppure la gente ne sa poco.
Sa poco soprattutto delle storie personali che hanno animato la resistenza, dei sacrifici e delle enormi sofferenze che alcune donne ed uomini hanno sopportato per la libertà di tutti.
Alcune persone, non così tante come a volte si racconta, perchè purtroppo la realtà è che Mussolini ha goduto a lungo di un consenso vastissimo, e in questo nostro paese, che è sempre uguale a se stesso, dopo il 25 aprile sono diventati tutti partigiani, comprese persone che fino a due giorni prima si dicevano fasciste.
Quindi, quando si sente qualcuno dire che ha fatto la resistenza, è meglio farci sempre un po' di tara.
Però ad esempio io a mia madre credo, e lei mi racconta che quando era bimba (è del 1933) le facevano portare in bicicletta i messaggi per i partigiani nascosti sotto il cibo nel cestino.
E mi racconta dei ragazzi, poco più che bambini, catturati, torturati ed impiccati dalla sbirraglia fascista.
Mi racconta anche della pietà, che persino nei momenti più atroci ogni tanto compare.
Come quando, durante la ritirata dei tedeschi (lei è di Verona) un soldatino della Wehrmacht rimasto isolato dai suoi fu catturato dalla gente, gli furono tolti gli scarponi e fu obbligato a correre scalzo attraverso un campo di granturco dove avevano appena tagliato le spighe, in modo che si ferisse i piedi.
Fino a quando sono arrivati i partigiani veri che hanno disperso la folla sparando in aria, hanno preso questo sfigato e lo hanno fatto andare via.
Oggi siamo liberi, grazie a queste persone.
La libertà di cui non godiamo è quella cui noi stessi rinunciamo, lasciandocela portare via per pigrizia.
Nessuno può dire che ci sia un pensiero unico, disponiamo di decine di giornali e di centinaia di emittenti radio e tv.
Se leggiamo un solo giornale, o peggio non ne leggiamo nemmeno uno, e se guardiamo una sola tv, non possiamo prendercela con nessuno.
Allora non era così.
La pluralità delle opinioni era stata soppressa, con le armi e la violenza.
I partigiani, e più in generale i resistenti, hanno vissuto quella realtà e l'hanno combattuta per loro stessi e per chi sarebbe venuto dopo.
Io li ringrazio, tutti, comunisti, liberali o monarchici che fossero.
Segnalo un bel libro,"Io sono l'ultimo. Lettere di partigiani italiani", edito da Einaudi Stile Libero.
Ne cito due passaggi.
Il primo è di Anita Malavasi, dalla provincia di Reggio Emilia, 1921 - 2011.
"In montagna si dormiva insieme, per terra, nei boschi, uomini e donne. L'amore non contava niente. L'importante per noi era aiutare. Io ero anche fidanzata, lo lasciai quando mi disse che fare la partigiana mi avrebbe reso indegna di crescere i suoi figli. Non mi sono più sposata, anche se in montagna avevo trovato un ragazzo...lui sì lo avrei sposato se non me lo avessero ucciso, aveva una mentalità aperta, ma uomini così non ne ho più trovati. L'unico nostro bacio è stato d'addio".
Il secondo è di Aldo Sodero, dalla provincia di Torino, classe 1928.
"Si facevano i chilometri in bicicletta per trovare qualcosa da mangiare, lo si metteva nei barattoli di vetro, si cascava dalla bicicletta e si doveva dividere con le mani il cibo dal vetro. Il momento era quello. L'ho raccontato a mia figlia. Ai miei nipotini di sei e sette anni appena hanno avuto le orecchie per sentire una voce che non fosse quella della loro mamma. Lo racconto a voi, pur sapendo che certe cose non si possono capire. Erano tempi di scelte. Io ho scelto la parte giusta".
Ecco, io di gente come questa mi sento debitore, e la lezione che ricavo dalla loro vita è che la libertà, che noi oggi godiamo, non è gratis e non è per sempre.
Va conquistata, riconquistata e difesa tutti i giorni, da ciascuno di noi, con dignità e coraggio.
Buon 25 aprile a tutti.

ELOGIO DI WILE COYOTE


Chi mi segue da tempo si sarà accorto che sono un po’ pirla. Il mio problema è che proprio non riesco a crescere, è più forte di me, e mi piacciono ancora tutte le cose cha amavo da ragazzino. Ad esempio, i cartoni animati. Quando esce un film della Pixar, non me lo perdo, cascasse il mondo. Nemo, gli Incredibles, Up sono caposaldi della mia videoteca, pietre miliari delle mie escursioni cinematografiche. Ancora di più mi piacciono i Looney Tunes, quei cartoni della Warner Bros. che quando ero piccolino costituivano, insieme a Carosello, il palinsesto televiso delle mie giornate. Li amavo tutti, indiscriminatamente, dal primo all’ultimo, anche se il mio preferito in assoluto era ( e resta tuttora ) Wile Coyote ( da noi chiamato fraternamente Willy ). Perché Bugs Bunny, Duffy Duck, Titti e Silvestro mi erano tutti egualmente simpatici, li avevo adottati in blocco, li consideravo come ingranaggi imprescindibili di un mondo di fantasia in cui i buoni e i ( presunti ) cattivi vivevano in una simbiosi artistica resa necessaria dal canovaccio della sceneggiatura. Tanto che, in un surplus di immaginazione, mi ero convinto che una volta terminato il cartone, e quindi le esigenze di scena, Titti e Silvestro, ad esempio, tornassero alla loro routine quotidiana di convivenza pacifica e addirittura amicale. Ma con Wile, invece, era tutta un’altra storia : buonismo e condiscendenza andavano a farsi fottere, e io mi trasformavo in un partigiano, in un ultras, in un militante incapace di ogni forma di razionalizzazione. Stavo dalla parte del coyote, ovviamente. E non mi limitavo a parteggiare timidamente per lui o, per converso, a manifestare con moderazione la mia antipatia per il Road Runner. No, decisamente no. Il bambino solitamente composto e ben educato che ero si trasformava nel più sguaiato degli scaricatori di porto, in un camionista frustrato da ore di viaggio e inacidito da seri problemi di digestione. Fioccavano parolacce, improperi, cori da stadio e gesti scurrili non annoverati nel decalogo oxfordiano su cui i miei genitori avevano improntato la mia partecipazione a quel consesso civile chiamato società. A ogni puntata, finivo stremato, esacerbato e illividito, un pò dalla rabbia e un po’ dagli scapaccioni con cui mia madre cercava di rintuzzare le mie esuberanze da tifoso. Anche oggi, riflettendoci bene, sono convinto che parteggiare per il Coyote, e in modo così sanguigno, fosse, ed è,  cosa buona e giusta. Il fatto è che Beep Beep, oggi come allora, mi sta decisamente sul cazzo. Con quel collo secco secco come la scoreggia di un usignolo, con quella coda perennemente ostentata nella protervia del saccente, con quello sguardo stolido  che a tratti si illumina di guizzi a metà strada fra la canzonatura e il dileggio, è il prototipo fatto e finito dello stronzo. Mentre il Coyote se ne sta lì, in mezzo al deserto, da solo, lontano da amicizie e affetti, in un contesto di perenne attesa, come il tenente Drogo alla fortezza Bastiani, il fottutissimo Beep Beep ha un vita. Se la sciala, il bastardo. Lo vedi comparire e poi sparire, in un frenetico rincorrere chissà cosa, con la consapevolezza però che per lui ci sia un prima e un dopo, qualcuno che ha lasciato o qualcuno che incontrerà, non appena le nuvolette sollevate dalla sua frenetica corsa scompariranno dietro l’ennesima curva. Beep Beep probabilmente ha anche una vita sentimentale, un divano su cui riposarsi, un cazzo di lavoro impiegatizio e un reddito fissoo, una villetta a schiera con il giardino curato, la partita a calcetto del lunedì come appuntamento settimanale con gli amici.  Wile, no. A Wile non regala niente nessuno. Lui se ne sta nel nulla della sua solitudine, come un militare di frontiera a scrutare l’orizzonte per cogliere un impercettibile movimento in lontananza. Consapevole del fallimento della propria esistenza, eppure mai domo, pronto a ricevere la milionesima secchiata di merda riservatagli dalla vita, senza che il proprio inossidabile ottimismo venga meno. Il coyote, questa è la cosa che per me vale di più, è un mediano che pressa ancora quando gli altri vincono 3 a 0 a cinque minuti dalla fine, è un maratoneta che supera la crisi e non molla, anche se quel terribile ultimo chilometro che lo separa dal traguardo sarà solo lacrime e sangue. Wile crede in un' idea, in un sogno, in una speranza, e ci crede nonostante tutto e tutti. Il suo sguardo arriva sempre un poco più in là,  è un visionario, la sua velocità non è una dote fisica, ma il ragionamento e l’intuizione, la parte migliore, cioè, di ogni uomo che si appresta a cambiare il mondo. Poi, c’è sempre un masso che inopinatamente si stacca dallo strapiombo e lo spiaccica a terra. I greci la chiamavano Tuke, il fato, e se ti perseguita non ci sono cazzi, sei costretto a spalare letame in eterno. E’ il destino di Wile, è il mio destino, è il destino di tutti quelli che ci provano e che, anche se non ci riescono mai, poi ricominciano sempre. In culo a Beep Beep e alle sue certezze da privilegiato.
PS : Oggi, è il 25 aprile,e ricorre un avvenimento importante, la Liberazione dalla dittatura nazi-fascista. Per la quale dobbiamo qualcosa all’esercito anglo-americano, e molto, moltissimo, ai nostri partigiani. Che se ne stavano lassù, nel freddo della montagna, a rischiare la vita e ad aspettare, come Wile, il momento più propizio per cambiare il corso della Storia. Gli stessi sogni, la stessa passione, lo stesso coraggio.  A tutti loro e al coyote un grazie per aver contribuito a trasformarmi in un uomo libero.




Blackswan, domenica 25/04/2012

martedì 24 aprile 2012

UMANITA' DIMENTICATA

Ricevo dalla nostra freelance Cleopatra, e integralmente pubblico.

Il Mahatma Gandhi diceva : " Chi perde la sua individualità perde tutto ".Da questo noto aforisma desidero iniziare un percorso verso un microcosmo di solitudine,oblio e disperazione che annichilisce qualunque forma di rispetto verso la dignità umana.Si tratta dell'universo OPG sconosciuto a tanti e trattato spesso con ritrosìa dai mezzi di informazione vuoi per indifferenza, vuoi perchè certi argomenti sono scomodi e scottanti o perchè in nome del "re audience" è di gran lunga preferibile trasmettere in prima serata l'ennesimo insulso reality show. In un OPG un essere umano precipita in una dimensione di annientamento fisico ed emotivo perdendo la propria individualità.
OPG è l'acronimo di Ospedale Psichiatrico Giudiziario.In Italia ne esistono 6 e a tutti gli effetti sono dei veri e propri manicomi.Il tema è recentemente ritornato di attualità a proposito della conversione in legge del decreto c.d. " svuota carceri " che sancisce la chiusura definitiva degli opg concedendo alle Regioni e agli enti locali 12 mesi per dotarsi di strutture alternative capaci di accogliere gli internati.O se si preferisce i "reietti ". Nessun progetto di soluzione è stato finora presentato e come sempre accade in questo paese si propende per la cura anzichè per la prevenzione. Non c'è da meravigliarsi se queste anime dannate finiranno in qualche reparto improvvisato di un ospedale o di un carcere,magari insieme a detenuti comuni,o saranno"scaricati" a famiglie incapaci di gestire una situazione di gravissimo disagio.Nei casi di internati dismissibili,chi è rimasto solo al mondo si ritroverà per strada.Attualmente se ne contano oltre 1400. Non illudiamoci,però,che l'opg sia la panacea di tutti i mali.Certamente per alcuni "soloni" della politica italiana la soluzione più comoda e conveniente è quella di asserragliarli tutti dentro a delle topaie.La scusa è sempre quella della mancanza di fondi.E chissenefrega se,nel frattempo,anche questo problema si incacrenisce. Nel 2010,la Commissione Parlamentare di inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del Servizio Sanitario Nazionale presieduta dal senatore Ignazio Marino (PD),in occasione di una serie di ispezioni a sorpresa,ha ampiamente documentato l'orrore di certe realtà come quella dell'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina. Durante un'ispezione si è trovato di fronte ad un uomo legato con delle garze usate come corde,nudo,su un letto di contenzione di ferro arrugginito,sporco,privo di materasso e con un buco al centro  (al riguardo,preferirei non approfondire).

La situazione non è certo migliore nelle altre strutture dislocate sul territorio nazionale dove fatiscenza e degrado regnano indiscutibilmente sovrani.Si tratta di fortezze medicee come l'opg di Montelupo Fiorentino,di castelli medioevali come quello di Aversa o semplicemente di complessi cadenti come quello di Barcellona in cui prevale il modello della custodia anzichè quello della cura (ad eccezione di Castiglione delle Stiviere che ha adottato la scelta della terapia affidata a personale strettamente sanitario). Il panorama non è dissimile da quello delle carceri : mancanza o carenza di
personale specializzato,stanze sovraffollate munite di latrine alla turca in cui per evitare la risalita dei topi si ostruisce il buco con una bottiglia di acqua,finestre prive di vetro,soffitti scrostati e ammalorati.E poi ci sono gli internati,molti dei quali si trovano costantemente sedati a languire su un letto sporco.Tra loro ci sono anche le vittime di errori giudiziari,chi nel frattempo ha perso un barlume di ragione per la segregazione prolungata e chi rimane dentro per una congiuntura di eventi sfortunati. Si finisce in questo girone dantesco per reati (anche bagatellari) perpetrati da chi viene riconosciuto incapace di intendere e di volere e che presenti i requisiti di pericolosità sociale.
A colui che è affetto da gravi disturbi mentali,quali la schizofrenia o le psicosi maniaco-depressive,si spalancano le porte dell'opg.La differenza tra pena detentiva e misura di sicurezza sta nella durata : mentre la prima ha una durata certa,la misura di sicurezza è prorogabile teoricamente all'infinito (ergastolo bianco). Vari casi di ergastoli bianchi sono documentati:Giuseppe,da 18 anni sta dietro le sbarre per avere rapinato 7.000 lire fingendo di avere una pistola in tasca. Andrea,da 25 anni è segregato per essersi travestito da donna e fermato davanti ad una scuola.Dario,da 5 anni è dentro per avere reagito violentemente verso
gli agenti di polizia per un conto non pagato in un ristorante. Non c'è dubbio che simili soggetti vadano protetti e seguiti con un serio percorso terapeutico da parte di educatori,psicologi,psichiatri,  medici e infermieri ma certamente non brutalizzati e abbandonati al loro destino. Al suo destino è stato tragicamente abbandonato Francesco Mastrogiovanni nel luglio del 2009."Il maestro più alto del mondo" lo soprannominavano i suoi alunni.Siamo a Castelnuovo Cilento ed è una storia di ordinaria repressione e ottuso accanimento,di quelle che non vorresti mai raccontare ma che si devono conoscere. Erano gli anni '70,periodo di contrapposizione ideologica tra fascisti e antifascisti,tra stato e antistato,tra rosso e nero.Francesco è un simpatizzante del movimento anarchico.

Coinvolto in una rissa con alcuni neofascisti in cui aveva fatto da paciere,dopo un lungo processo viene assolto. L'evento lo sconvolge a tal punto da provare una vera e propria fobìa per le forze dell'ordine.E da quel momento scatta in lui una mania di persecuzione. Molti,a parte i suo studenti,lo additano come un pericoloso anarchico e lui si sente sempre più fragile,solo e intimidito.Il destino si accanisce e così nel '99 per un divieto di sosta commette l'errore di mandare a quel paese un agente che ne dispone l'arresto immediato.Al commissariato viene duramente percosso e seviziato (seguirà una controdenuncia sporta da Mastrogiovanni per arresto illegale,lesioni personali e abuso di autorità).Viene condannato agli arresti domiciliari,piantonato dagli stessi agenti che lo avevano malmenato.Franco è sempre più emotivamente instabile,ha paura e ogni volta che si imbatte in una divisa entra nel panico tanto da indurre il sindaco di Castelnuovo a firmare per ben due volte la richiesta per un trattamento sanitario obbligatorio (TSO) che supera solo grazie alla solidarietà e al caloroso affetto dei suoi alunni. Ma non è tutto.Un ulteriore tso firmato dal sindaco di Pollica gli sarà fatale. Il 30 luglio del 2009,Franco nella località di villeggiatura cilentana si trova davanti ad una pattuglia dei carabinieri e preso dal panico fugge.Viene inseguito arrivando persino a tuffarsi in mare e restando in acqua per oltre due ore.Sopraggiunge addirittura una motovedetta della Guardia Costiera che avverte i bagnanti di una caccia all'uomo (?!).Franco non ce la fa più,si arrende e si consegna.Da questo momento inizia il suo calvario.Si aprono le porte della sezione psichiatrica dell'ospedale S.Luca di Vallo della Lucania." Non uscirò vivo" grida a squarciagola.Entra nel "lager" il 30 luglio da vivo e ne esce cadavere il 4 agosto.Franco viene ripetutamente sedato,legato per i polsi e caviglie su un letto troppo corto per la sua statura. Per i primi giorni viene lasciato nudo e senza lenzuolo.Non gli viene dato da mangiare e da bere e gli vengono applicati una flebo e un catetere.Solo in un secondo momento gli viene fatto indossare un pannolone che viene cambiato una sola volta.Questo raccapricciante scenario si svolge nella totale indifferenza da parte del personale sanitario che non si preoccupa di visitarlo nemmeno una volta e da parte degli infermieri che si limitano a rimuovere con lo spazzolone le copiose macchie di sangue provenienti dai polsi serrati.Il 4 agosto l'agonia si conclude drammaticamente.Arresto cardiaco conseguente a edema polmonare causato da una contenzione immotivata ed illegale.Questo ha stabilito la consulenza tecnica di ufficio disposta dal PM nell'ambito del procedimento penale contro 7 medici e 12 infermieri rinviati a giudizio. Un caso limite,è vero. Franco Mastrogiovanni aveva bisogno di aiuto e di protezione come tutti coloro che,spesso,sono dimenticati in quelle gabbie infernali. Un'anima fragile,schiacciata da un destino avverso,una vittima dell'indifferenza e della diffidenza.
L'emblema di un'umanità disperata, sola e invisibile.

NB : I FILMATI POSTATI QUI SOTTO SONO MOLTO CRUDI E POTREBBERO FERIRE LA SENSIBILITA' DEI PIU' IMPRESSIONABILI








Cleopatra, martedì 23/04/2012          

lunedì 23 aprile 2012

GENOVA PER NOI

So che molti di voi non seguono il calcio, è incredibile ma è così.
Però avrete visto i telegiornali di ieri, e quindi le scene allucinanti dello stadio di Genova.
Il Genoa perde 3 a 0 in casa col Siena, i tifosi perdono la bussola, alcuni di loro (parrebbe 200 persone ma forse anche meno) riescono ad entrare nel settore dello stadio più vicino al campo di gioco, scavalcano le recinzioni di sicurezza e buttano in campo quattro fumogeni ed alcuni grossi petardi.
L'arbitro ovviamente sospende la partita e qui parte l'assurdo.
Sotto gli occhi di alcuni dirigenti della Digos, i caporioni del tifo chiamano sotto di loro i giocatori e impongono loro di togliersi la maglia, che secondo gli ultras sarebbe stata disonorata.
Questi poveracci, che sono superatleti superpagati ma valgono zero, incredibilmente se le tolgono davvero, le maglie, ed il capitano Marco Rossi le raccoglie per andarle, si suppone, a consegnare in segno di resa a questi quattro cazzoni assiepati sopra al tunnel d'ingresso agli spogliatoi.
Poi alcuni giocatori vanno a parlare con gli ultras, dicono che la maglia loro non se la toglieranno, e spiegano che se non li lasciano giocare la squadra subirà anche una penalizzazione in termini di punteggio.
Quest'ultimo tema evidentemente fa presa e, dopo circa 40 minuti di interruzione, la partita riprende
Alcune domande si pongono come inevitabili.
Perchè un gruppo consistente di ultras, mascherati con sciarpe, occhiali scuri, cappucci, può spostarsi impunemente dai suoi posti, transitare attraverso varchi che dovrebbero essere chiusi e sorvegliati passando accanto a tifosi normali, famiglie con bimbi piccoli eccetera?
Perchè questi signori, dopo essere usciti dallo stadio, possono rientrare ed occupare un ordine di posti diverso dal loro?
Perchè questi signori possono, dai posti più bassi, scavalcare le recinzioni ed appollaiarsi sopra il tunnel mobile che serve per l'entrata e l'uscita dal campo?
Perchè possono portare allo stadio petardoni, fumogeni e dio sa cos'altro quando a me e a mio figlio (all'epoca, 12 anni) fanno aprire lo zaino con dentro i panini e i succhi di frutta e mi fanno lasciare giù l'accendino Bic in plastica "perchè Lei potrebbe anche lanciarlo in campo"?
Perchè questa gente può minacciare in diretta tv i giocatori, ordinare loro di togliersi le maglie ed ottenere ciò che vuole?
Perchè uno di questi può congedare un giocatore dicendogli sempre in diretta tv "Non finisce qui"?
E soprattutto, perchè dirigenti della Digos (la Digos!) guardano tutto questo scempio e non muovono un dito?
Come dice un commento che ho letto oggi, amaramente ironico, io a Genova la Polizia me la ricordavo diversa.
Ma è sempre la stessa storia, forti con i deboli e deboli con i forti, o anche solo con i prepotenti.
Gli agenti e i dirigenti che permettono impunemente a duecento brutti ceffi di prendersi uno stadio, rubando un pomeriggio a chi voleva divertirsi con la partita, sono gli stessi che picchiano alla cieca nei cortei, che picchiano le persone arrestate (e qualcuno poi ci resta anche secco), forse sono anche gli stessi che sono entrati alla scuola Diaz.
L'insegnamento che ne esce è devastante: andate allo stadio e potrete fare tutto ciò che fuori di lì è un reato.
Se io contesto a un agente di essere sgarbato mentre mi controlla i documenti, rischio.
A Genova, ieri, c'era gente che gridava figli di puttana ai poliziotti, col doppio dito medio alzato, da tre metri e senza nemmeno la lastra di pexiglass in mezzo perchè l'avevano già scavalcata.
Reazioni? Zero.
Arresti? Zero.
Tanti anni fa, all'Oktoberfest a Monaco, c'era un ubriaco che voleva darmi in testa il suo boccale vuoto.
Non ho nemmeno fatto in tempo a mettermi in guardia che questo era già sparito in fondo al tendone, portato via da quattro poliziotti che un attimo prima non c'erano.
In Inghilterra, dove di tifo violento si moriva, la Thatcher ha sradicato il fenomeno in meno di un anno.
Qui un cazzo.
Grandi tavole rotonde, grandi processi del lunedì, appelli del martedì e cassazioni del mercoledì ma soluzioni mai.
Quindi il messaggio è: andate allo stadio, e violate tutte le regole possibili, perchè lì si può.
Occhio però a non trovarvi nei punti inopportuni di un corteo, perchè lì invece non si può fare nulla, e se vi beccano quelli sbagliati rischiate di impararlo sulla vostra pelle.
E anche questo, al di là del caso specifico, ha a che fare con il tema più generale dell'essere un gregge o un corpo sociale, dell'essere sudditi o cittadini.


sabato 21 aprile 2012

SIGUR ROS – VALTARI

 Genere : Post-Rock

Esiste un luogo comune a proposito della lettura in ragione del quale un buon libro è quello che ti lascia qualcosa, sia essa un’emozione, una riflessione o un pensiero, che poi resteranno per sempre tuoi, cambiandoti inevitabilmente la vita. Di fronte a questa lapalissiana e stringente verità, a me piace ribattere che un buon libro è semmai  quello che ti impone un coinvolgimento così totale da portarsi via un pezzo di te, come succede per quelle storie d’amore che restano eterne solo perché ti svuotano l’anima. Il paragone può sembrare ozioso, ma è l’unico che mi viene in mente quando devo descrivere la musica dei Sigur Ros. Per amare la quale, non è sufficiente predisporsi a ricevere, ma occorre piuttosto prepararsi, anima e corpo, ad accettare un livello di coinvolgimento emotivo più alto, quasi fosse una sorta di trascendente dedizione, una totalizzante deriva in cui il sentire viene spinto fino ai limiti del parossismo. Quando nel 2008 uscì Meo Suo I Eyrum Vio Spilum Endalaust, ultimo album in studio prima di quello di cui sto scrivendo, il percorso intrapreso dalla band islandese sembra avere avuto una svolta: c’era un tentativo di portare i suoni a un livello più terreno e di dare alle composizioni il volto convenzionale della canzone. Quel disco, con un brano, udite udite, cantato addirittura in inglese, pur mantenendo un alto livello qualitativo, era tuttavia un lavoro volto a universalizzare un linguaggio musicale fino ad allora comprensibile solo a pochi. Se da un lato, l’obiettivo venne raggiunto ( il relativo tour ebbe un incredibile successo di pubblico ), dall’altro, il caleidoscopio di suggestioni offerto da dischi come ( ) e Von veniva parzialmente ad affievolirsi, lasciando un po’ d’amaro in bocca ai fans della prima ora. Il taglio onirico e cupo del successivo live ( il dvd/cd Inni, del 2011 ) riportava alla luce ( invero assai diafana ) le sonorità di una musica figlia di una ragionata istintività ma incapace tuttavia di assuefarsi ai calcoli matematici dello star system e della commercializzazione. L’attesa per questo Valtari, pertanto, era accompagnata dal dubbio su quale avrebbe potuto essere la strada intrapresa dal gruppo capitanato da Jonsi ed era resa ancora più febbrile dalle insistenti voci che circolavano da tempo a proposito dell’abbandono della band da parte del suo leader. Tuttavia, è sufficiente una canzone, Eg Anda, il brano che apre il cd, perché ogni dubbio, ogni timore, venga fugato. Valtari suona Sigur Ros, dannatamente Sigur Ros, tanto da richiamare alla mente l’ostica astrattezza di Agaetis Byrjum e del già citato Von. Solennemente spirituali e cineree, le otto tracce del disco hanno l’incedere di una messa da requiem, si dipanano nell’intreccio aggrovigliato di visioni estatiche e ansiogeni tormenti. Cronaca di un exitus, Valtari fonde musica sacra, ambient e rock in un flutturare di note che stazionano nel limbo a metà strada fra realtà e dimensione ultraterrena. L’anima abbandona il corpo ma ancora non evapora del tutto e, proiettato verso l’aldilà, lo spirito resta sospeso in un'amniotica indeterminatezza in cui percepisce suoni ed evoca ricordi in nostalgici flash back. La musica traccia il percorso dolente attraverso il quale il retroterra vitale si sfalda lentamente tra bagliori di Creato e il malinconico reiterarsi di una costante sensazione di perdita. Le note hanno la consistenza di un caliginare affranto nel quale traspare, in barbagli, la luce multiforme della resurrezione al cospetto di Dio. Non ci sono canzoni in Valtari, non c’è nulla, assolutamente nulla, che possa ricordare da vicino le nostre abituali percezioni musicali. L’esile trama melodica delle composizioni emerge rarefatta, sfuggente, quasi impalpabile, da un fuorviante labirinto di fruscii, clangori, tramestii, riverberi e note reiterate all’infinito, su cui domina flebile e angelico il falsetto di Jonsi. A voler essere banali, Valtari potrebbe essere accostato a una colonna sonora. Eppure, il paragone regge solo se si travisa la prospettiva, se si cade nell’illusorio tranello a cui induce il trompe l’oeil creato dai Sigur Ros. Questa musica infatti è cinematografica non perché predisposta a commentare immagini, ma in quanto è essa stessa un’ inquadratura, o meglio, un piano sequenza che racconta, nel tempo reale di un ascolto, l’avventura della trascendenza. Disco ostico e quasi inacessibile al ragionamento, Valtari dispiega tutta la sua ossianica bellezza solo se affrontato predisponendo i sensi ad accogliere il fascino insolito di un’esperienza che è soprattutto spirituale, prima ancora che musicale. Solo così sarà possibile smarrirsi nei brumosi recessi di inesplorati soundscapes, lasciarsi trasportare dalle lattiginose acque che cullano i sogni, per poi ritrovarsi ad un passo dal cielo e rifulgere nella luce di una nuova consapevolezza (musicale).
VOTO : 8

 


Blackswan, sabato 21/04/2012

mercoledì 18 aprile 2012

MANAGEMENT DEL DOLORE POST OPERATORIO - AUFF !

Genere : punk-funk, dance wave
In un mondo più giusto, in cui ai primi posti delle classifiche ci si sta per qualità artistica e non per aver venduto l'anima al business, i Management Del Dolore Post Operatorio si posizionerebbero in vetta, proprio lassù, dove dovrebbero osare le aquile e invece, quasi prevalentemente, nidificano passerotti spennacchiati e tristi. Questi ragazzi già meriterebbero un premio per essersi inventati uno dei nomi da band più sfiziosi in circolazione e per aver dato alle stampe un cd con una copertina così smaccatamente provocatoria, che mai avresti pensato di vederla in circolazione sul sacro suolo della baciapilesca Italia. Ma a prescindere dall' indubbio estro comunicativo della band, Auff ! è soprattutto un disco di ottime canzoni, capaci di abbinare in un sol colpo prurigini  da dancefloor, attitudine post-punk, impatto sonoro ad alto tasso chitarristico e un piglio declamatorio che si sviluppa tra slogan e scapigliata ironia, grazie a un linguaggio colto, e tuttavia mai verboso o ostentato. Come sempre, il giochino dei rimandi per poter far capire di che musica stiamo parlando, è inevitabile. Pertanto, provate a immaginare una versione aggiornata e italica dei Gang Of Four ( quelli di Entertainment!, per intenderci ), suonati però con il piglio brioso dei Franz Ferdinand degli esordi : funk bianco, ritmica nervosa, puntuti riff di chitarra, ganci melodici e assist di godereccia dance-wave. Eppure, nonostante tanti celebri riferimenti, la musica dei MDDPO ha una fisionomia personalissima e ben marcata, che sarebbe ingiusto ridurre a un mero riflesso dello specchio. Auff !, infatti, vibra di energia, è ben suonato, è divertente, non conosce passi falsi e riempitivi. Le liriche di Luca Romagnolispregiudicatissime e ricche di calembour, stanno lontano chilometri da clichè e banalità, inducono al sorriso e aprono alla riflessione, sferzano con sarcasmo e inchiodano a icastiche verità. Le dieci canzoni di cui è composto il disco si bevono d'un fiato come un boccale di birra quando la gola è arsa dalla sete, ti sbloccano le gambe come iniezioni di adrenalina che spingono al ballo senza spegnere il cervello ( Pornobisogno, Auff ! ) o inquietano i pensieri  con il limaccioso incedere di una scombussolante malinconia (  Amore Borghese, con Emiliano Audisio dei Linea 77 alla voce, e la conclusiva Il Numero Otto ). Dopo il buon esordio datato 2008 e intitolato Mestruazioni, i Management Del Dolore Post Operatorio si ripropongono quindi come una delle realtà più interessanti del panorama indie italiano.Anche se, a ben vedere, dispiace davvero dover utilizzare l'aggettivo indie per inquadrare un gruppo che, come si diceva all'inizio, in un mondo più giusto avrebbe davvero ben altri riscontri di pubblico e vendita.
VOTO : 7,5

 


Blackswan, mercoledì 18/04/2012