lunedì 29 aprile 2024

Louise Lemon - Lifetime Of Tears (Icons Creating Evil Art, 2024)

 


The Queen Of Death Gospel” è la definizione che viene data a Louise Lemon, songwriter svedese, giunta con questo Lifetime Of Tears al suo terzo album in studio. Una definizione non del tutto inappropriata, anche se, a dire il vero, c’è meno gospel in queste dieci canzoni di quanto si potrebbe immaginare. Invece, quel riferimento alla morte, che evoca oscurità e dolore, ben si adatta alla musica della ragazza svedese, che, anche nelle sue declinazioni più ariose, mostra comunque un retrogusto malinconico e un’inclinazione alla cupezza e alla sofferenza, richiamata anche dall’esplicito titolo dell’album.

Attenzione, però, perché Lifetime Of Tears non è un disco notturno né si muove nella penombra di suoni inquieti e angosciati. Si parla di un amore andato, perduto per sempre, del dolore del lutto affettivo, del tentativo di rinascita, della speranza di uscire dal baratro della depressione. Quel verso con cui il disco inizia, "Pensavo di aver trovato una pozione d'amore, ho appena scoperto che era veleno", è in tal senso indicativo. Eppure, le turbolenze amorose della Lemon vengono mediate da una scrittura capace spesso di tradursi in mainstream di qualità, di flirtare con melodie pop soul languide e affascinanti, di evocare, in certi casi, un certo retrogusto seventies, in un gioco di rimandi che chiama in causa artiste più note quali Cat Power, Adele, le Lucius, l’ultima Margo Price, la Lana Del Rey meno vaporosa, solo per citarne alcune. 

Ogni cosa funziona dannatamente bene in una scaletta breve ma centratissima: gli arrangiamenti, mai sopra le righe, ma egualmente brillanti, la voce della Lemon, a tratti, eterea, spesso, intensamente soul, e, ovviamente, le canzoni, tutte splendide, nessuna esclusa. Ci sono alcuni momenti in Lifetime Of Tears in cui i brani sono molto più grandi di quanto ci si potrebbe aspettare da una musicista non ancora affermata, che sta costruendo lentamente, ma inesorabilmente, un percorso destinato a diventare importante. C’è tutto quello che serve, in una scaletta che si affaccia sul mainstream senza paura di banalizzazioni, e al contempo, sa sondare gli struggimenti dell’anima con una scrittura più colta, più profonda, stratificata, ma comunque accessibile.

Gli accordi minori con cui si apre l’iniziale "Shattered Heart" ne sono una dimostrazione lampante: c’è pathos, c’è un ristagno di profonda tristezza, ma il brano, che prima, sembra essere quasi sospeso a mezz’aria, grazie alla voce splendida della Lemon, carezzevole come un malinconico riverbero in lontananza, e che poi, s’impenna, in un crescendo di vibrante elettricità, in cui la songwriter spinge i suoi acuti fino alla sommità del cielo, resta perfettamente equilibrato. E’ dolore, è estasi, è un incipit stratosferico.

"Tears As Fuel" cambia leggermente lo stile, resta soffusamente malinconica, dirigendosi, però, verso una dimensione più blues rock, declinata con grande equilibrio espressivo, mentre "Midsummer Night" si muove su un retroterra soul, è più cupa, nonostante un ritornello immediato, che decolla grazie all’elettricità di chitarre poste in retrovia, ma urticanti.

La title track è una ballata soul pop dall’appeal radiofonico, evoca la miglior Adele possibile, e tiene incollati all’ascolto grazie a un mood dolce amaro e a uno splendido solo di chitarra di Johan Kvastegard, il cui contributo al suono del disco è più che determinante.

Si viaggia così, ondivaghi fra momenti più raccolti e dolenti, ed altri che spingono verso il mainstream con irresistibile ganci melodici. E’ il caso, ad esempio, di "Feel So Good", dalla trascinante ossatura r’n’b, e dalla sublime "Northern Lights", che, per quanto stratificata sotto il profilo strumentale, trova slancio immediato in un ritornello sfacciatissimo.

Per converso, l’album è anche punteggiato di momenti più introspettivi, declinati attraverso un visione soul pop in chiaro scuro, i cui sentori miele e liquerizia si diffondono nell’aria attraverso le languide melodie di "Pure Love" e "All I Get", uno degli highlight del disco.

Chiude la scaletta "Topanga Canyon", un brano dagli sfumati contorni ipnagogici, un fluttuare etereo in una dimensione parallela, in cui tutto il dolore evapora in un invocazione ripetuta come un mantra: “cuore tormentato che non dorme mai, per favore, guariscimi, amami e abbracciami”.

Lifetime Of Tears è l’opera di un’artista che conosce il dolore e la sofferenza, che ne affronta le conseguenze attraverso l’ampio spettro delle emozioni, ma che è anche tanto consapevole da saper mediare con una scrittura brillante, mai ripiegata su se stessa, una scrittura che evita il ricatto della lacrima e fa vibrare di autentica passione. Un connubio unico, fascinoso, ammaliante.

Voto: 8

Genere: Alternative, Pop, Soul




Blackswan, lunedì 29/04/2024

giovedì 25 aprile 2024

Ihsahn - Ihsahn (Candlelight, 2024)

 


Questo disco è un’avventura sonora ricca di fascino, un viaggio in un mondo musicale complesso, forse addirittura respingente per taluni (coloro che non sono abituati a sonorità estreme), eppure talmente emozionante e ricco di suggestioni, da meritare tutta l’attenzione possibile.

Negli ultimi sei anni, Ihsahn non è stato certo con le mani in mano, dal momento che dal 2020 ha pubblicato tre EP (Telemark, Pharos e Fascination Street Sessions), ma un lavoro solista sulla lunga distanza da parte del frontman degli Empereor mancava da Amr, pubblicato nel 2018. C’era quindi grande attesa per il nuovo album di un artista straordinariamente talentuoso e dal songwriting ricco e sfaccettato.

Questo nuovo disco omonimo rappresenta al meglio tutto ciò che ha reso distintivo e straordinario il suo intero catalogo solista, enfatizzando, però, maggiormente, gli arrangiamenti sinfonici e melodie più delicate e orecchiabili, tanto che potremmo definire questo nuovo corso come il più accessibile (si fa per dire), e un’esperienza di ascolto in grado di soddisfare gli amanti del metal (da sempre declinato nella sua accezione più progressive e atmosferica), e coloro che sono curiosi di addentrarsi in territori inesplorati.

L’intento di Ihsahn (al secolo Vegard Sverre Tveitan) è da sempre quello di sperimentare, di spingersi oltre gli seccati di genere, e con questo lavoro l’asticella viene alzata un po’ di più. Se l’ossatura del disco resta, e non potrebbe essere diversamente, legata al black metal, le undici canzoni del disco presentano anche scintillanti arrangiamenti orchestrali, ispirati alle colonne sonore classiche di artisti del calibro Jerry Goldsmith, John Williams, Bernard Herrmann e John Carpenter.

Il risultato è un disco che esplora suggestioni agli antipodi, da un lato, cupa violenza, dall’altro, digressioni melodiche e avvolgenti, in un connubio ricco di contrasti e di chiaroscuri. Una resa concettualmente complicata, che in mano ad altri avrebbe potuto suonare forzata come la tessera di un puzzle inserita testardamente nello spazio sbagliato, e che invece nello specifico si dipana in modo naturale, senza astruse manipolazione, come se oscurità ed elettricità trovassero un perfetto e indispensabile equilibrio nell’epos degli arrangiamenti, nelle digressioni cinematografiche e nell’immediatezza di centrate melodie.

Prendiamo ad esempio i tre brani strumentali presenti in scaletta (l'apertura "Cervus Venator", l'interludio "Anima Extraneae" e la chiusura "Sonata Profana"): durano circa novanta secondi ciascuno, la loro sublime semplicità e armonia aggiungono bellezza cinematografica e coesione all'intera esperienza, funzionano bene come splendidi passaggi indipendenti, ma il loro potere più grande deriva dal permettere a Ihsahn di far fluire la musica in un viaggio musicalmente e tematicamente connesso. A vari livelli, ogni altra traccia dell’album è arricchita da archi, fiati e partiture orchestrali, e alcuni brani (vale a dire, "The Promethean Spark", "Pilgrimage to Oblivion", "Blood Trails to Love" e "At the Heart of All Things Broken") si avventurano in armonie particolarmente coinvolgenti attraverso l’uso del cantato pulito, dimostrando la capacità di Ihsahn di muoversi in un’ampia gamma vocale che non sia solo il growl.

Ovviamente, quanto appena affermato, non significa che l’album non presenti momenti più brutali e passaggi ferocemente ostici, come in "Twice Born" o "A Taste of the Ambrosia", e ancor più nella straordinaria "Hubris and Blue Devils", in cui i frenetici cambi di ritmo conducono verso un giro da incubo su una giostra di un luna park uscito da un film horror. 

Oltre alla versione metal del disco, quella, cioè, di cui abbiamo parlato, Ihsahn ne ha pubblicata anche una orchestrale, in cui le canzoni vengono riarrangiate e, in qualche modo reinventate, creando una narrazione secondaria che si affianca e si sovrappone alla narrazione principale. Ovviamente, le tre composizioni strumentali, citate prima, rimangono identiche, mentre le restanti canzoni vengono rielaborate, producendo una vera e propria suggestione da colonna sonora.

Ihsahn è un disco magmatico, audace e ambivalente, al cui ascolto occorre dedicare tempo, pazienza e apertura mentale. Forse, i metallari più incalliti storceranno il naso di fronte ad archi e melodie, mentre altri troveranno indigeribili il cantato gutturale e le partiture più estreme. Il consiglio per tutti è di dare una possibilità all’album, approcciandosi senza preconcetti a queste undici, incredibili canzoni: chissà, magari per qualcuno si trasformerà in disco dell’anno.

Voto: 9

Genere: Atmospheric Black Metal, Progressive Metal 




Blackswan, giovedì 25/04/2024

martedì 23 aprile 2024

Unsatisfied - The Replacements (Twin/Tone Records, 1984)

 


Non è certo questa la sede per affrontare un capolavoro, per cui sono già stati spesi, e a ragione, fiumi di inchiostro. Basti sapere che Let It Be (1984), terzo album dei Replacements, band originaria di Minneapolis (Minnesota) è stato un album rivoluzionario, non solo perché ha segnato un cambiamento drastico nel modo di scrivere canzoni di Paul Westerberg, il talentuoso leader della band, e nel suo ruolo decisivo nel dare una direzione al suono del gruppo, ma anche perché è oggi considerato uno dei dischi più influenti degli anni ’80 e della storia intera, diventato nel tempo vero e proprio oggetto di culto di molti appassionati, oltre che riferimento di un’intera generazione. Tanto che, per quanto i Replacements non abbiamo mai scalato le classifiche e non abbiamo mai raggiunto il successo commerciale che avrebbero meritato, si può affermare, senza rischiare di esagerare, che la band sia stata una delle più importanti in assoluto per lo sviluppo di quello che definiamo indie rock.

Let It Be, insieme al successivo Tim (1985) può essere definito, sic e simpliciter, un capolavoro, un disco che, cito Piero Scaruffi, “meglio equilibra il fremito adolescente del punk con l'anelito proletario della giovinezza matura”, e che “trasformò i Replacements da semplici icone generazionali ad artisti universali”.

In un filotto di canzoni imperdibili, compare come settima traccia Unsatisfied, dichiarazione di perpetua insoddisfazione e, probabilmente il brano più bello mai scritto da Westerberg.

A voler giocare un po’ coi rimandi e gli accostamenti, si può considerare Unsatisfied un aggiornamento anni ’80 della frustrazione giovanile cantata negli anni ’60 in (I Can't Get No) Satisfaction dai Rolling Stones. Anzi, in un certo senso, è una versione più seria, forse più matura, del tema che condivide con il brano degli Stones, quell’essere incompreso, quell’essere incapace di inserirsi nel tessuto sociale, quel sentirsi fuori tempo massimo, quel dolore provocato dal misurarsi con le perpetue bugie dell’esistenza umana. Satisfaction degli Stones, come direbbero i giovani oggi, spacca, è una canzone che spinge l’ascoltatore a muoversi, ad alzarsi in piedi e saltare, a gridare a squarciagola, trasportato da innodiche vibrazioni. In un certo senso, è inclusiva e “soddisfacente”.  Unsatisfied, invece, invita alla stasi, a crogiolarsi nella riflessione malinconica. C’è un’immensa bellezza, ma non è la bellezza con cui si balla; è più voluptas dolendi, prendere atto del fallimento e disperarsi in esso.

Il cinismo nel cuore della canzone è, infatti, implacabile, senza alcun raggio di sole: Tutto quello che sogni È proprio di fronte a te, e tutto è una bugia”, canta Westerberg dopo una serie di domande retoriche. Non c’è un filo di speranza, nessuna possibilità, nessun futuro plausibile. Unsatisfied, in tal senso, è differente dalle altre canzoni dei Replacements, che anche nella loro forma più cupa erano divertenti in modo caotico e punk. Questa, invece, sembra più una riflessione rabbiosa di un uomo di mezza età, che ha perso ogni afflato vitale, che un brano scritto da un ragazzo di venticinque anni, che suona rock’n’roll e a cui si stanno aprendo le porte del successo.

Nel retroterra letterario di Unsatisfied, quindi, non è difficile individuare il disgusto totale per l’inautenticità dell’esistenza umana che si poteva trovare in Albert Camus (Lo straniero), in Jean – Paul Sartre (La Nausea) o, per restare in terra d’America, ne Il Giovane Holden, capolavoro transgenerazionale di J.D. Salinger.

Non solo. Nell'innocente e cruda confessione di Unsatisfied, vediamo una prefigurazione del grunge degli anni '90, un movimento imbevuto di esistenzialismo e di una dolorosa presa di coscienza del fallimento di un’intera generazione. Non sorprende, quindi, che Dyslexic Heart, brano di Paul Westerberg, datato 1992, compaia nella colonna sonora di Singles, uno dei film più importanti e rappresentativi della cultura di quel decennio. Non un caso, ma quasi una necessità: la depressione armonica e il malcontento di Westerberg unirono il punk degli anni '70 e il grunge degli anni '90 in un unico, doloroso e tormentato abbraccio di una gioventù senza speranze.

 


 

 

Blackswan, martedì 23/04/2024

lunedì 22 aprile 2024

Gary Clark Jr. - JPEG RAW (Warner, 2024)

 


"Il blues sarà sempre il mio fondamento. Ma questo è solo l’inizio. Sono anche un beat maker e un impressionista a cui piace interpretare voci diverse. Ho sempre amato il teatro e poter raccontare una storia. A casa quando suono la tromba, penso a Lee Morgan, o John Coltrane quando suono il sax. Ho anche delle cornamuse nel caso ne avessi bisogno”.

Con questa dichiarazione, Gary Clark Jr spiega con estrema chiarezza quale sia il suo approccio alla composizione. Se il blues resta il suo centro di gravità permanente, il chitarrista statunitense non si limita a una frusta riproposizione del genere, di cui supera i limiti e i confini, ma esplora e contamina, fondendo le sue radici musicali con il soul, il rock, il funky, il pop e l’hip hop.

Se dal vivo ha sempre dimostrato di essere un performer eccezionale, i suoi album in studio, non proprio centrati a inizio carriera, hanno progressivamente tracciato un percorso sempre più di qualità, sfociato nell’ottimo This Land, uscito cinque anni fa, e riconfermato in questo nuovo JPEG Raw (l’acronimo JPEG sta per Gelosia, Orgoglio, Invidia e Avidità).

Un disco che, da un punto di vista concettuale, affronta il tema dell’attuale condizione umana in modo onesto e sincero, e che sotto il profilo musicale si presenta come un riuscito connubio di più generi, declinato con grande consapevolezza e ottime idee.

L'album si apre con "Maktub", groove trascinante e riff di chitarra sgranato che evoca il blues del deserto di band come Tinariwen e Tamikrest, incipit che la dice lunga sulla volontà di Clark Jr di uscire dai soliti schemi. La title track sposta subito il baricentro della narrazione verso lidi hip hop, ritornello orecchiabile e suggestivi lick di chitarra dal sapore blues, così come la successiva "Don’t Start" (in duetto con Valerie June) che rimescola blues e garage sopra aggressive ritmiche moderne, mentre un’armonica slabbrata tira l’impetuoso groove.

Nonostante una riuscita coesione di suoni, l’album si muove in direzioni tra loro contrapposte: "This is Who We Are Now" è un grande brano hip hop, tracimante pathos e spinto nella seconda parte da un lungo, strepitoso solo di chitarra, "To The End Of The Eart/Alone Together" è una vellutata ballata soul jazz dal sapore antico, resa scintillante dalla tromba del grande Keyon Harrold, "What About The Children", in duetto con la leggenda Stevie Wonder, è un funkettone che suona Stevie Wonder più di Stevie Wonder stesso, e sempre funk è anche la successiva "Hearts In Retrograde", connotata da graffi decisamente rock.

Il disco scivola verso la fine senza perdere un solo colpo e regalando altre sorprese: "Hyperwave" mescola i generi in una perfetta fusione di soul, r’n’b e pop, "Funk Witch U" vede il contributo di George Clinton in un accattivante melange di funk, hip hop e soul e "Triumph" è un’intensa ballata costruita su saliscendi emotivi, attraverso la quale Clark Jr racconta di come sia possibile trasformare una tragedia in un trionfo.

Il capolavoro arriva proprio in chiusura con "Habits", nove minuti punteggiati da un meraviglioso suono di chitarra, che iniziano come malinconicissima ballata finchè un croccante riff rock e poi un sublime arpeggio acustico spingono verso un crescendo melodico irresistibile e struggente, scartavetrato da scariche di vibrante elettricità e da un assolo da califfo della sei corde.

JPEG Raw è tutto tranne che un tradizionale album di blues, è semmai il lavoro versatile ed eterogeneo di un artista che non si accontenta di essere considerato solo un grande chitarrista che vive in una, per quanto prestigiosa, comfort zone. Forse, gli amanti ortodossi del genere storceranno il naso, ma chi ama la black music nella sua accezione più ampia, troverà in questo disco un crogiolo di idee e una sensibilità compositiva che non può lasciare indifferenti.

Voto: 8

Genere: Rock, Blues, Funky, Soul, Hip Hop

 


 

 

Blackswan, lunedì 22/04/2024

giovedì 18 aprile 2024

I Won't Back Down - Tom Petty (MCA, 1989)

 


Nel 1988, prima dell’inizio delle sessioni di registrazione di Full Moon Fever, un piromane diede fuoco alla casa di Tom Petty mentre si trovava lì con la sua famiglia e la loro governante. Il musicista e la sua famiglia riuscirono a mettersi in salvo, ma Petty rimase talmente scosso dalla vicenda, da trascorrere gran parte dei mesi successivi tra camere d'albergo e una casa in affitto. Non più una dimora fissa, ma tanti diversi luoghi, molti dei quali abitati per periodi di tempo brevissimi, verso i quali il songwriter si spostava alla guida della sua macchina.

Fu proprio durante questi spostamenti che Petty ha composto molte delle canzoni per il suo primo album solista. Quell’incendio, il terrore che ne derivò, la sensazione di essere sotto attacco ebbero un'enorme influenza su ciò che stava scrivendo, e specialmente su questa canzone. Petty si sentiva grato di essere vivo, ma anche traumatizzato, cosa comprensibile considerando che qualcuno aveva tentato di ucciderlo. I Won't Back Down (Non mi tirerò indietro) rappresentò, in buona sostanza, un modo di rivendicare la sua vita e superare il tormento, perché quella canzone aveva su di lui uno stranissimo effetto calmante.  

Il piromane che attentò alla vita di Petty non fu mai catturato, il che rese lo stato d’animo del musicista ancora più irrequieto. Soprattutto, perché dei sospetti su chi fosse l’autore del gesto, o quanto meno chi fosse il mandante, esistevano ed era assolutamente plausibili. Undici giorni prima dell’incendio, infatti, Petty aveva vinto una causa contro la società di pneumatici B.F. Goodrich per un milione di dollari. La Goodrich voleva usare la canzone di Petty, Mary's New Car, in uno spot televisivo e, quando il musicista si rifiutò, l’agenzia pubblicitaria dell’azienda mandò in onda una canzone, commissionata per l’occasione, praticamente identica al brano di Petty. Il giudice investito della causa diede ragione al musicista e condannò l’azienda a un lauto risarcimento.

I Won’t Back Down fu il primo singolo tratto da Full Moon Fever, e fu scritto e prodotto da Petty insieme all’amico Jeff Lynne. Quando, però, il brano venne presentato, insieme ad altre canzoni, alla casa discografica del tempo, la MCA Records, i dirigenti dell’etichetta rimandarono il materiale al mittente, sostenendo che fosse pessimo. Dopo sei mesi, le stesse canzoni, più o meno nella stessa forma, vennero ripresentate alla MCA. Questa volta, però, ad ascoltare erano altri dirigenti, che, entusiasti, diedero l’ok a Petty per la pubblicazione dell’album. In realtà, lo stesso musicista, almeno all’inizio, pur apprezzandone gli effetti catartici, non era convintissimo di I Won’t Back Down, perché la riteneva una canzone troppo personale. Durante un’intervista alla rivista Harp, rilasciata nel 2006, Petty disse: ”Quella canzone mi ha spaventato quando l'ho scritta... pensavo che non fosse così bella perché era così nuda, diretta... ho avuto molti ripensamenti riguardo alla registrazione di I Wonìt Back Down, ma tutti intorno a me dicevano che era davvero bella e alla fine tutti avevano ragione: più persone si identificano in quella canzone più di qualsiasi cosa io abbia mai scritto. Sono ancora continuamente stupito dal potere che ha una piccola canzone di 3 minuti."

Com’era prevedibile, alcuni politici hanno utilizzato la canzone di Petty per le loro campagne elettorali. Quando George W. Bush lo usò durante la sua campagna presidenziale del 2000, Petty minacciò di fare causa, poiché trovava Bush odioso. Per uno scherzo del destino, Bush, che smise di usare la canzone, vinse però le elezioni, proprio grazie al voto della Florida, lo stato natale di Petty.  I Won’t Back Down fu usata anche da Donald Trump durante una manifestazione elettorale molto pubblicizzata a Tulsa, Oklahoma, il 20 giugno 2020. La vedova del musicista, Dana, l'ex moglie Jane e le figlie Adria e Anna Kim protestarono rilasciando un duro comunicato, in cui manifestarono senza mezzi termini il loro dissenso: "Sia il defunto Tom Petty che la sua famiglia si oppongono fermamente al razzismo e alla discriminazione di qualsiasi tipo", scrissero. "Tom Petty non vorrebbe mai che una sua canzone fosse usata per una campagna di odio. Gli piaceva unire le persone. Tom ha scritto questa canzone per i più deboli, per l'uomo comune e per TUTTI."

Niente di più vero. Petty, infatti, suonò il brano il 21 settembre 2001 durante una maratona Telethon a beneficio delle vittime degli attacchi terroristici contro l'America. E ancora. Tom Petty è morto il 2 ottobre 2017, il giorno dopo il massacro al festival Route 91 Harvest di Las Vegas, dove morirono ben cinquantotto persone. Il 7 ottobre, il musicista country Jason Aldean, che era sul palco durante la sparatoria, aprì il Saturday Night Live con una performance di questa canzone, sia come tributo a Petty che come invito a resistere alla violenza, a restare uniti. "Quando l'America è al suo meglio, il nostro legame e il nostro spirito sono indistruttibili", disse prima di suonarla. Infine, nel febbraio 2023, una versione di I Won't Back Down, eseguita da Blake Shelton, Joe Walsh, Timothy B. Schmit e Matt Sorum è stata pubblicata online a beneficio dell'organizzazione The Miraculous Love Kids, che sostiene ragazze e giovani donne in Afghanistan.

 


 

 

Blackswan, giovedì 18/04/2024

martedì 16 aprile 2024

Juan Gomez-Jurado - Cicatrice (Fazi, 2023)


 

Simon Sax si potrebbe considerare un ragazzo fortunato: programmatore informatico americano, genio della matematica, a soli trent’anni sta per diventare miliardario. È infatti a un passo dal concludere un affare che gli cambierà la vita: venderà la sua grande invenzione – un sofisticato software – a una multinazionale. Eppure non è felice. Si sente solo. Il suo successo fa a pugni con una totale assenza di abilità in ambito sociale: le ragazze, per lui, sono sempre state una meta irraggiungibile. Finché un giorno supera i suoi pregiudizi ed entra in un sito di incontri dove conosce l’ucraina Irina, e comincia a sognare un futuro con lei nonostante le migliaia di chilometri che li separano. Ma Irina, il cui volto è segnato da un’enigmatica cicatrice, porta con sé un oscuro segreto: dietro quella ferita si cela più di quanto Simon possa immaginare, e innamorarsi di lei è solo il primo di una lunga serie di errori...

Con Cicatrice Gomez-Jurado abbandona l’amata Madrid e sposta l’ambientazione negli Stati Uniti, per la precisione a Chicago. Non solo, perché l’intreccio, che si sviluppa tra presente e passato, trova i suoi snodi narrativi anche nei Carpazi, in Ucraina e in Afghanistan.

E’ questa la prima peculiarità di un thriller ad alta tensione, che mette a contatto il mondo della programmazione informatica con quello della spietata mafia russa, due universi apparentemente inconciliabili, a cui lo scrittore spagnolo ha dedicato un certosino lavoro di ricostruzione e approfondimento, prima di procedere alla stesura del romanzo. Non è un caso che alcuni dei personaggi e degli eventi narrati trovino ispirazione da fatti realmente accaduti, mentre le pagine dedicate alla realizzazione di un sofisticato software, che potrebbe cambiare per sempre la vita di Simon Sax e del suo fedele amico Tom, riescono a essere comprensibili anche a tutti coloro che non masticano la materia.

Questo preliminare lavoro di studio, indispensabile per rendere credibile lo sviluppo della storia, è il carburante nobile di un romanzo che, come sempre, non lesina adrenalina e colpi di scena, oltre a risultare estremamente attrattivo per chi ama il genere, soprattutto nella parte dedicata a Irina e al suo mentore Lazar Kosogovsky, chiamato l’afghano, che, a costo di grandi sacrifici, trasforma la gracile bambina in una vera macchina da guerra pronta alla vendetta.

Non c’è nulla di particolarmente originale in questa storia tutto sommato prevedibile, che però riesce ad appassionare grazie all’abilità di Gomez-Jurado di comporre un puzzle realistico e avvincente, e grazie anche alla consueta prosa coloratissima, rapida e al contempo profonda, e ricca di quelle sfumature ironiche (il protagonista è un nerd sovrappeso incapace di rapportarsi al mondo che lo circonda) che da sempre contraddistinguono le opere dello scrittore madrileno.

Rispetto ad altri romanzi, manca in Cicatrice l’efficace approfondimento psicologico dei personaggi che, a parte il protagonista Simon, restano tutti abbastanza sfumati e privi di autentico spessore. Poco importa: se il lettore cerca solo il puro intrattenimento, qui ne troverà a iosa, tanto che ad arrivare alla fine delle quattrocento pagine del romanzo ci si impiega un lampo.

Blackswan, martedì 16/04/2024

lunedì 15 aprile 2024

Jesper Lindell - Before The Sun (Gamlestansm 2024)

 


Jesper Lindell non ha avuto quella che si dice una vita facile. Giovane promessa del calcio svedese (lui è originario della contea di Dalarma) ha dovuto fare i conti con un grave incidente di gioco che ha messo fine alla sua carriera sportiva. Dedicatosi anima e corpo alla musica, grazie anche all’interesse del fratello maggiore, la sua ascesa artistica è stata frenata dalla pandemia e dal lockdown, e poi, più o meno nello stesso periodo, una grave malattia renale congenita l’ha costretto a un anno di dialisi e successivo trapianto. Sembrerebbe una frase banale e retorica, ma nel suo caso suona, invece, quanto mai sincera: la musica salva la vita. Perché i suoi sogni e la sua passione sono state la forza propellente che gli ha permesso di superare tutto, di uscire dal pantano delle depressione e scrivere canzoni bellissime, come quelle contenute in questo suo terzo album, intitolato Before The Sun.

Lindell, dicevamo, è svedese, ma davvero, ad ascoltare la sua musica, non lo diresti mai; sembra semmai un musicista cresciuto nei dintorni di Muscle Shoals, e che ha passato tutta la vita ad ascoltare i dischi di Van Morrison, della Band e, perché no, di Paolo Nutini. Before The Sun si sviluppa sulla scia del precedente Twilights, un disco di divertente e solare rock soul (con un tocco di country e un altro di pop), in cui il musicista svedese e la sua band sono fiancheggiati dalla Brunnsvik Horns, sezione fiati che prende il nome dal luogo in cui l’album è stato registrato.

La scaletta si apre con il singolo "One Of These Rainy Days", una canzone che guarda al futuro con speranza, dopo tutto il dolore e i problemi affrontati: chitarra acustica, fantastica linea di basso, organo vorticoso, pianoforte, arrangiamento di fiati e ottimo lavoro alla chitarra. Si sentono echi di Van Morrison, si sentono echi della Band (altra evidente fonte d’ispirazione), ma si sente soprattutto la gioia di un gruppo che si diverte a suonare col sorriso sulle labbra.

Non c’è un momento di stanca in queste dieci canzoni cesellate con cura artigianale, sia quando Lindell duetta nella superba "A Strange Goodbye" con Kassi Valazza, giovane promessa country americana, o omaggia i Thin Lizzy con appassionata rilettura di "Honesty Is No Excuse", sia quando si abbandona allo swing giocoso di "Good Evening", trainata di uno straordinario assolo di pianoforte ad opera di Carl Lindvall.

Dopo una vita travagliata, ora Jesper Lindell è un musicista in ascesa, se ne sono accorti in Svezia e, probabilmente, se ne accorgeranno anche negli Stati Uniti, patria putativa di questo straordinario musicista, che ha messo i propri affanni esistenziali al servizio di canzoni vibranti, intense e, prevalentemente, divertenti, a dispetto del buio che ha preceduto l’arrivo del sole. L’ascolto è consigliatissimo: difficile trovare in giro tanta sincera passione e consapevolezza nel rileggere una musica dal nobile pedigree, che mai come in Before The Sun suona ancora fresca e ancora indispensabile.

Voto: 8

Genere: Rock, Soul

 


 


Blackswan, lunedì 15/04/2024

giovedì 11 aprile 2024

Blackberry Smoke - Be Right Here (3 Legged Records/Thirty Tigers, 2024)

 


L’indubbio merito dei Blackberry Smoke è quello di fare sempre lo stesso album, senza tuttavia mai annoiare. Ripetersi, ma con brillantezza, grazie a un sognwriting sempre a fuoco e a una line up affiatatissima, vera e propria macchina da guerra che tratta una materia risaputa con vibrante trasporto.

Dopo aver registrato il loro settimo disco, You Hear Georgia, durante il periodo più intenso e restrittivo della pandemia da Covid, i ragazzi georgiani avevano scelto di rimandare la pubblicazione di quell’album finché non fosse stato sicuro tornare a suonare dal vivo. Un approccio simile è stato utilizzato anche per questo nuovo Be Right Here, la cui scaletta è stata completata quasi un anno fa, ma tenuta nel cassetto fino a ora, a causa del tumore al cervello che ha colpito il batterista Brit Turner, ancora in cura, ma comunque membro stabile della band.

Prodotto come il suo predecessore da Dave Cobb, e registrato principalmente al leggendario RCA Studio A di Nashville, Be Right Here è la naturale appendice del suo predecessore, un disco, cioè, di southern rock, con una forte impronta blues, che suona famigliare e al contempo fresco, confermando i Blackberry Smoke tra i migliori interpreti del genere oggi in circolazione.  

Il marchio di fabbrica è immediatamente evidente nei tre brani di apertura: "Dig A Hole" apre le danze con un pesante riff psichedelico che fa da contrappunto alla voce aspra di Charlie Starr, sulla base di una ritmica quadratissima, il tiro di "Hammer And The Nail" è maledettamente blue collar, mentre un favoloso suono slide leviga la melodia piaciona di "Like It Was Yesterday". Un inizio che crea un contesto classicissimo e famigliare, tratteggiato da un quintetto che, tuttavia, plasma il suono southern con una consapevolezza superiore.

Con la quarta traccia, "Be So Lucky", il ritmo vertiginoso della prima parte rallenta, confluendo in un rock melodico in stile Tom Petty, echi vagamente psichedelici, ritornello orecchiabilissimo e un intrigante suono di chitarra. La successiva "Azalea", uno degli high light del disco, è una morbida ballata acustica che evoca il ricordo degli Allman Brothers, mentre sapienti tocchi di mandolino aggiungono colore e nostalgia al brano.

Il disco prosegue sulle note del country rock vibrante "Don't Mind If I Do", autentico divertissement trascinato da un ritornello contagioso, mentre in "Watchu Know Good" la band si immerge fino alle ginocchia in acque paludose, il groove è lento ma ficcante, la slide pigra ed evocativa. Chitarra slide che è protagonista anche della successiva "Other Side Of The Light", altra perla melodica, mentre la seguente "Little Bit Crazy" sfoggia un profondo retroterra gospel prima che parta un riff sudatissimo che sembra preso dal repertorio di Keith Richards.

La ballata "Barefoot Angel" chiude la scaletta con un tocco di malinconia soul, e mette in luce le ottime doti vocali di Starr, che insuffla pathos in un brano tutto sommato prevedibile.

Be Right Here è un album che mette in mostra orgogliosamente le radici southern dei Blackberry Smoke, non vuole innovare né rivoluzionare, semmai cerca, riuscendoci, di dare brillantezza a un genere risaputo, ma che la band originaria della Georgia riesce a proporre con incredibile efficacia. Si, è vero, è sempre lo stesso disco, ma grazie anche alla manina santa di Cobb, queste canzoni rifulgono di luce propria, collocandosi in un limbo senza tempo, in cui passato e presente si fondono in un connubio di suggestiva bellezza.

Voto: 7,5

Genere: Southern Rock

 


 

 

Blackswan, giovedì 11/04/2024

martedì 9 aprile 2024

Car Wheels On A Gravel Road - Lucinda Williams (Mercury, 1998)

 


Quando nel 2002 il prestigioso periodico Time elegge Lucinda Williams miglior cantautrice d'America, nessuno si stupisce più di tanto. L'anno prima, infatti, la Williams si era portata a casa il Grammy per la miglior interpretazione vocale femminile in Get Right With God, terzo grande riconoscimento, dopo quello vinto nel 1993 per la miglior canzone country con Passionate Kisses (interpretata però da Mary Chaplin Carpenter) e soprattutto quello vinto nel 1998 per il miglior album di folk contemporaneo con Car Wheels On A Gravel Road

Ed è proprio da questo disco che la carriera della Williams inizia a impennarsi: non solo per vendite, statuette e plausi della critica, ma soprattutto per un'eccellenza compositiva che, nonostante il tempo trascorso, si è mantenuta altissima anche ai giorni d'oggi. In queste tredici canzoni, infatti, si racchiude il meglio di tutto il Williams pensiero. Cantautrice, da un lato, legata alla tradizione (Bob Dylan e Robert Johnson, il Texas e la frontiera rappresentano il suo abbecedario formativo), dall'altro, però, capace di dotarsi anche di una efficacissima strumentazione elettrica, la Williams, con Car Wheels On A Gravel Road riesce a trovare il punto esatto di fusione di quel genere musicale che siamo soliti chiamare Americana, e cioè, per sommi capi, la sintesi fra sonorità roots (country, folk e blues) e rock.

Benedetto in fase di lavorazione da Steve Earle (che suona la chitarra anche in qualche brano) e co-prodotto da Roy Bittan, il quinto album in carriera di Lucinda è quello che si potrebbe definire apoditticamente un capolavoro: non c'è bisogno di spiegare nulla, basta ascoltare. Tredici canzoni che raccontano la storia del country rock a stelle e strisce, convogliando in sè decenni di musica con una consapevolezza e una chiarezza d'intenti che lascia di stucco. 

C’è tanto Sud in queste canzoni, e non poteva essere diversamente: Lucinda Williams è nata a Lake Charles, Louisiana, nel 1953, in una famiglia profondamente radicata alla propria terra. Suo padre, Miller Williams, era un noto poeta e professore di letteratura, e sua madre, Lucille Fern Day, era una pianista dilettante. I primi anni di Williams furono, però, all’insegna dell’instabilità, un viaggio continuo attraverso le strade del Sud degli Stati Uniti al seguito del padre che, per lavoro, era costretto a spostarsi continuamente. Questo stile di vita nomade ha esposto la Williams a una vasta gamma di culture ed esperienze che avrebbero poi influenzato il suo modo di scrivere canzoni. Una in particolare, e cioè quella che dà il titolo al disco, è l’esatto resoconto di quegli anni, una canzone autobiografica, in cui la Williams ricorda la propria vita attraverso una raccolta di immagini rurali del sud e della sua infanzia.

Car Wheels on a Gravel Road è un diario di viaggio del gotico meridionale, pieno di memoria e di perdita. La Williams canta di "campi di cotone che si estendono per chilometri" e "i pali del telefono, gli alberi e i cavi che volano via" mentre viaggia con i suoi genitori attraverso le terre del Sud.

Una canzone che è al contempo memoria (il vagabondare, visto attraverso gli occhi di una bimba, cristallizzato nell’immagine della strada sterrata) e anche agrodolce riflessione sull'instabilità e la transitorietà forzata (le ruote dell'auto). Un brano colmo di passione e malinconia, emotivamente destabilizzante non solo per la Williams ma anche per il padre di lei.

La songwriter, in tal senso, ricorda uno dei momenti più intensi della sua vita, quando suo padre, dopo uno spettacolo al Bluebird di Nashville, venne nel camerino a scusarsi. Era la prima volta, infatti, che ascoltava Car Wheels On a Gravel Road, e quelle immagini (i campi di cotone, l’odore del caffè, le uova e il bacon, l’omaggio a Loretta e Hank), gli fecero comprendere il dolore di sua figlia piccola, trascurata sul sedile posteriore dell’auto: "Guardo fuori dal finestrino. Un po' di terra mista a lacrime." Una canzone, questa, che, a detta della Williams, sgorgò come un flusso di coscienza, anche se negli intenti doveva essere tutt’altro. Durante un’intervista ad Uncut, la musicista, infatti, disse:” È stato il momento più sorprendente. Ed era agrodolce. Non sapevo il perché la stessi scrivendo, era una cosa legata al subconscio. Immagino sia strano come puoi sorprenderti per qualcosa che hai scritto tu stesso. Io pensavo di scrivere in terza persona, ma in realtà scrivevo in prima persona”.

Il brano fu registrato in parte al Room and Board Studio di Nashville e in parte al Rumbo Studio, Canoga Park, in California, con la supervisione dei produttori Steve Earle e Ray Kennedy. Nella canzone, che vede la Williams alla chitarra acustica, Gurf Morlix alla chitarra elettrica, Giovanni Ciambotti al basso e Donald Lindley alla batteria, si può ascoltare anche uno strumento particolare, suonato da Buddy Miller, chiamato mandoguitar. Questo strumento è caratterizzato da un corpo compatto simile a un mandolino abbinato a un manico di chitarra con corde di nylon. Questo forma anomala conferisce alla mandoguitar un tono versatile che può spaziare dai suoni brillanti e acuti del mandolino ai toni più morbidi e caldi di una chitarra.

Car Wheels on a Gravel Road fu accolto con ampi consensi da parte critica e ha vinto il Grammy Award come miglior album folk contemporaneo nel 1999. Oltre al successo della critica, il disco ha ottenuto anche un ottimo successo commerciale, restando nelle classifiche americane per oltre cinque mesi.

 


 

 

Blackswan, martedì 09/04/2024

lunedì 8 aprile 2024

Plantoid - Terrapath (Bella Union, 2024)

 


La prima vera sorpresa dell’anno arriva dall’Inghilterra e s’intitola Terrapath, album d’esordio dei Plantoid, quartetto composto da Chloe Spence alla voce, Tom Coyne alla chitarra, Louis Bradshaw alla batteria e Bernardo Larisch al basso. Un disco che raggruma in dieci canzoni generi immediatamente riconoscibili, ma sviluppati attraverso idee che modificano le coordinate del percorso, portando la proposta a inaspettati livelli di originalità e di freschezza.

Il nucleo principale del suono di Terrapath potrebbe identificarsi in una sublime fusione fra rock progressive e jazz; tuttavia, non mancano elementi psichedelici, nervature math rock e qualche apertura verso più moderne sonorità indie. La scaletta, pertanto, alterna complessi moduli compositivi presi in prestito dal jazz, improvvise derive strumentali tanto care al prog, e numerose sequenze sognanti ed eteree, che ammantano alcuni brani di una bellezza diafana, quasi impalpabile.

Un saliscendi emotivo, attraverso il quale si passa da brani guidati da una maestria tecnica da autentici fuoriclasse, che tuttavia non è mai esibizione fine a se stessa, a canzoni fluttuanti e oniriche, poggiate sul velluto della voce magica della Spence. Un ascolto inusuale, si diceva, avvolto in una foschia lattiginosa, il cui velo viene strappato da improvvisi groove, lancinanti distorsioni e intriganti cacofonie.

Terrapath inizia dolcemente con "Is That You?", che si sviluppa su un leggero riff di chitarra jazz di Tom Coyne, prima che alcuni suoni glaciali di synth si aggiungano all’atmosfera nebbiosa e che la canzone si gonfi in un spettacolare crescendo. Il singolo "Pressure" fiorisce intorno a una chitarra vagamente mariachi, mentre "Modulator" si ammanta di epica jazz rock, in un susseguirsi di cambi tempo, su cui galleggia nel finale l’evocativa voce della Spence. Uno dei momenti più suggestivi del disco è rappresentato da "Dog's Life", che sfodera un riff assassino quasi heavy e una fantastica linea di basso di Bernardo Larisch.

C’è ancora tempo, poi, per immergersi nel folk prog minimale di "Only When I’m Thinking", nella ritmica jazz di "Wander/Wonder" e nell’autentico gioiello finale rappresentato da "Softly Speaking", una dolce ninna nanna, in cui la voce morbida della Spence e le note di un pianoforte permettono all’ascoltatore di espirare profondamente, ricongiungendolo con naturalezza al mondo reale, dopo un viaggio in un universo parallelo, fascinoso e straniante.

Tante idee e splendide canzoni, a cui si aggiunge un’altra nota di merito, visto il disco è stato suonato quasi tutto in presa diretta, senza sovra incisioni e artifici in fase di post produzione, a dimostrazione ulteriore della caratura tecnica e della consapevolezza del quartetto.

Terrapath non è un album di immediata assimilazione e cresce tantissimo solo dopo svariati ascolti. In alcuni momenti può suonare estremamente bizzarro, e in altri, invece, classicamente famigliare, è complesso nei suoi moduli espositivi e al contempo decisamente accessibile, una dicotomia, questa, che produce un ovvio straniamento. Svanito il quale, resta appiccicata alle orecchie la bella sensazione di aver ascoltato un grande disco.

Voto: 8,5

Genere: Progresive Rock, Jazz

 


 


Blackswan, lunedì 08/04/2024

giovedì 4 aprile 2024

Liam Gallagher & John Squire - Liam Gallagher & John Squire (Warner, 2024)

 


In un anno in cui il britpop è tornato ad affacciarsi sulle pagine delle riviste specializzate (Kula Shaker, Cast) e sta vivendo un ritorno di fiamma per tanti appassionati, suona come un’ennesima, bella notizia questa estemporanea (?) collaborazione tra due mostri sacri del genere. Uno, il più noto, è Liam Gallagher, leader tracotante e bizzoso, insieme al fratello Noel, degli Oasis, nonché voce iconica del movimento; l’altro, meno conosciuto, è John Squire, chitarrista degli Stone Roses, band di nicchia con due formidabili dischi all’attivo, e nume tutelare del primo. L’amicizia fra i due è di lunga data, ma pare che l’idea di questa collaborazione, così raccontano le cronache, sia nata dietro le quinte del festival di Knebworth, dove Liam e John hanno dato l’abbrivio a un progetto, poi pianificato e, quindi, messo in atto.

Le canzoni sono tutte a firma Squire, mentre Liam ci mette il suo riconoscibilissimo timbro vocale. Al loro fianco, altri due ottimi comprimari: Greg Kurstin, che produce e si cimenta al basso, e Joey Waronker alla batteria. Pochi ma buoni, come buona è la resa finale di un disco che, a dispetto delle aspettative, suona molto meno brit pop di quanto ci si potrebbe immaginare.

Se è indubbio, infatti, che il patrimonio genetico mostra i cromosomi, e non potrebbe essere altrimenti, di quel periodo d’oro che va dalla fine degli anni ’80 alla prima metà del decennio successivo, il disco suona molto meno pop di quanto ci si potrebbe aspettare, offrendo, invece, all’ascoltatore un impianto maggiormente rock blues. La voce strascicata di Gallaher e la chitarra distorta di Squire rendono semmai omaggio a quel periodo, sul finire degli anni ’60, in cui psichedelia e chitarre rombanti spingevano verso lidi contigui all’hard rock.

Il risultato è un disco scarno, rumoroso, essenziale, in cui la chitarra graffiante di Squire scartavetra belle melodie che rimandano, ovviamente e soprattutto, ai Beatles, con citazioni sparse di altre leggende di quegli anni. Stupisce, quindi, che, sgorgando il songwriting esclusivamente dalla penna del chitarrista, il suono di queste dieci canzoni incarni maggiormente le vesti rockiste, spudoratamente british e working class del sodale Gallagher.

L’iniziale "Raise Your Hands", una sorta di invito a divertirsi prendendola come viene, è il brano più melodico e più vicino ai ’90 del lotto, anche se è inevitabile cogliere quegli echi Fab Four che rappresentano il corpus principale dell’opera. Con "Mars To Liverpool", nonostante la bella melodia, i suoni si irruvidiscono un po’, grazie a un riff di stonesiana memoria (nel senso di Rolling Stones) e a un assolo spettacolare di Squire. Se "One Day A Time" incorpora il brit pop in quota Oasis, "I’m A Wheel" è un bluesaccio cadenzato e distorto (qualcuno ha pensato a "Yer Blues" dei Beatles?), "Just Another Rainbow" spalanca la porta alla psichedelia, mentre "Love You Forever" cita addirittura Jimi Hendrix, incastonando un ritornello che più Oasis non si può. Nell’ultima parte del disco, c’è ancora spazio per il rock’n’roll sparato di "You’re Not The Only One", la psichedelia sixties di "I’m So Bored" e la ballata "Mother Nature’s Song" che, insieme alla breve "Make It Up As You Go Along", è l’episodio meno significativo della scaletta.  

Non so se si possa definire questo album come un’operazione nostalgia. Di certo, qui non troverete nulla di nuovo e tutto risulta essere abbastanza risaputo, anche se i due protagonisti del progetto sono talmente brillanti e conoscono a menadito le loro fonti d’ispirazione, da rendere i quaranta minuti di ascolto godibili e divertenti. Non solo per fan del britpop.

Voto: 7

Genere: Rock, Blues, Psichedelia, Brit Pop

 


 


Blackswan, giovedì 04/04/2024

mercoledì 3 aprile 2024

The Pretender - Jackson Browne (Asylum, 1976)

 


Ultima traccia dall’omonimo quarto album (1976) di Jackson Browne, The Pretender parla di un uomo che rinuncia ai suoi sogni e vive una vita monotona e di routine per accumulare denaro. “Il pretendente” sceglie la strada più semplice, quella con meno rischi, rinuncia alla bellezza del mondo per costruirsi solide basi, in nome della sicurezza.

E’ questo il significato principale di una canzone bellissima, che però si apre a diversi piani di lettura e a ben diverse implicazioni. Browne è sempre stato un abile songwriter, capace di spingere in profondità le sue liriche, di porsi domande a cui dare risposte, di giocare con l’ambiguità in modo da avere una visione più ampia possibile delle cose della vita. In tal senso, The Pretender rappresenta due diversi approcci esistenziali: è quella persona presente in tutti noi, che segue i propri ideali, ma è anche il suo opposto, quella che, invece, ha accettato un compromesso, perché, come diceva Truffaut, “c'è il film che avevi intenzione di fare, e c'è quello per cui ti accontenti”.

A volerne ampliare ulteriormente il significato, The Pretender parla anche dell'idealismo degli anni '60, dell'idea che la vita sia fatta di amore e fratellanza, giustizia, cambiamento sociale e illuminazione. Questi concetti hanno cresciuto un’intera generazione, la generazione di Browne, ma tutti quegli ideali, poi, sono come evaporati di fronte alla cruda realtà dell’esistenza. Quella generazione, alla fine si è accontenta di qualcosa di completamente diverso, di sogni di piccolo cabotaggio, e quel verso, "Say A Prayer For The Pretender”, da un lato, rappresenta un omaggio a quei giovani sognatori, dall’altro punta il dito ironicamente su quelle persone che hanno cercato di minimizzare quell’idealismo.

C’è di più. Browne scrisse il brano dopo essersi preso cura di un ragazzo affetto da schizofrenia. Il ragazzo un giorno scomparve, e Browne si mise alla sua ricerca. Lo trovò ore dopo seduto nel soggiorno di una famiglia latina, che fumava una sigaretta e si comportava come se appartenesse a quel posto, come se non ci fosse niente di sbagliato a trovarsi lì. Stava fingendo, fingendo di appartenere. The Pretender prende, dunque, spunto da questo episodio, che spinse il songwriter californiano a riflettere sul fatto che spesso molti di noi stanno fingendo di essere in sintonia con qualcosa che non è esattamente il posto a cui appartengono, ma solo una versione predefinita della realtà, con un lavoro e una casa, ma senza sogni.

La canzone, che vede la presenza di Graham Nash e David Crosby alle armonie vocali, e Jeff Porcaro (poi nei Toto) alla batteria, venne realizzata in un momento complicatissimo per Browne. Dopo aver dato alla luce il figlio Ethan nel 1973, Phyllis Major, che il musicista sposò nel 1975, cadde, infatti, in depressione e morì suicida nel marzo 1976. Browne visse giorni di dolorosa prostrazione (che influirono sulle tematiche del disco) e interruppe il lavoro sull'album per alcuni mesi, anche se, poi, riuscì a finirlo in tempo per la pubblicazione, avvenuta a novembre dello stesso anno, grazie anche a un approccio per lui inusuale.

Browne, infatti, aveva un'idea molto chiara di come voleva che suonassero le sue canzoni, e, pertanto, ha sempre vestito i panni del produttore per suoi primi tre album. Per The Pretender, però, cambiò completamente rotta e arruolò il produttore di Bruce Springsteen, Jon Landau, dopo essersi convinto che avere “un altro paio di orecchie” in studio, avrebbe dato frutti migliori, e gli avrebbe permesso, soprattutto, di prendere un po’ le distanze dalla materia delicata e intimista che trattavano quelle canzoni.

E’ inevitabile, a questo punto, un paragone con un altro grande classico che porta quasi lo stesso titolo: l’evergreen doo-wop del 1956 The Great Pretender interpretato dai Platters. Anche se in quella canzone, il tema è il lutto sentimentale, concettualmente il brano esprime qualcosa di molto vicino a quello che avrebbe inteso Browne vent’anni dopo: il protagonista di The Great Pretender finge di stare bene, ma sta solo nascondendo il proprio dolore, perché distrutto dal crepacuore per l’abbandono dell’amata: “Rido e sono allegro come un clown, Mi sembra di essere quello che non sono, Indosso il mio cuore come una corona, fingendo che tu sia ancora in giro. Troppo reale è questa sensazione di finzione”.

 


 

 

Blackswan, mercoledì 03/04/2024

martedì 2 aprile 2024

Juan Gomez-Jurado - Tutto Brucia (Fazi, 2024)

 


Questa è la storia di tre donne che hanno perso tutto. Anche la paura. Ecco perché sono così pericolose.
Aura Reyes, la mente: fino a poco tempo fa era una dirigente di successo, proprietaria di una lussuosa villa e madre di due figlie me-ra-vi-glio-se (così, scandendo bene le sillabe). Ora la attende una pena detentiva per frode su larga scala e riciclaggio di denaro. Mari Paz Celeiro, il braccio: una gallega tenace, in grado di piantare cime di rapa e arruolarsi nel corpo d’élite della Legione. Temprata da tante battaglie, da cinque anni attraversa un periodo difficile (in pratica, vive nella sua auto). Sere Quijano, l’hacker: ingegnera informatica e strega del caos. Le sue capacità tecnologiche sono inversamente proporzionali all’efficacia della sua magia. Ha un’enorme virtù: crede ciecamente in tutto ciò che fa.

 

Il nome di Juan Gomez-Jurado inizia a circolare con una certa frequenza anche nel nostro paese, grazie alla serie tv (che potete guardare in streaming su Prime) ispirata al suo romanzo Regina Rossa, il primo di una trilogia che in Spagna è stato un vero e proprio caso editoriale con milioni di copie vendute. Un successo clamoroso che ha portato nelle nostre librerie, grazie a Fazi Editore, non solo la citata trilogia, ma anche alcuni lavori precedenti, tutti meritevoli di essere riscoperti dagli appassionati del genere.

Questo Tutto Brucia è l’ultima, e più recente fatica dello scrittore madrileno, e conferma la straordinaria vena di un romanziere, che ha davvero pochi eguali in ambito crime e thriller. La trama, forse, non è particolarmente originale, ma è costruita con grande abilità e con quello stile distintivo che rende la lettura un’esperienza unica.

Aura Reyes, manager di successo, viene incastrata dal suo capo, nonchè mentore, nell’ambito di una spericolata, quanto illegale speculazione finanziaria. Aura, la cui vita è stata completamente stravolta, deve affrontare un processo il cui esito è scontato. Quando, però, conosce Mari Paz, un ex legionaria fiera e coraggiosa, ma tormentata dai fantasmi della guerra e dipendente dall’alcol, decide di vendicarsi. Una vendetta complicatissima da realizzare, quasi impossibile, ma anche l’unica speranza di redenzione e di riappropriarsi della propria disastrata esistenza. Sulle sue tracce, però, si mette una poliziotta spietata e corrotta, che tenta in tutti i modi di mandare all’aria i piani di Aura.

Come ogni thriller che si rispetti, Tutto Brucia si sviluppa con ritmi serratissimi, ed è punteggiato da numerosi colpi di scena, che tengono il lettore col fiato sospeso fino all’ultima delle cinquecento pagine del romanzo. Basterebbero questi elementi a conquistare il lettore, ma, ovviamente, c’è molto di più. Perché Gomez-Jurado non è un semplice scrittore di thriller, la sua visione è più ampia, sa scandagliare con acutezza l’animo umano, e riflettere sulla vita e sulla morte, sulle paure e le debolezze, sull’amicizia e la lealtà, scrivendo pagine di letteratura che potremmo definire “alta”. Stupisce, in primo luogo, la maestria con cui si addentra nell’universo femminile delle sue protagoniste, come ne descrive i sentimenti, le speranze, i desideri, le aspirazioni, i tormenti che le rendono fragili e vulnerabili. Aura e Mari Paz possiedono un abito psicologico complesso e strutturato, e sono figure che si fanno ricordare ben oltre la fine del romanzo.

Intorno alle due protagoniste, che, pagina dopo pagina, cementano in loro rapporto in un’amicizia sincera e profonda, ruotano altri personaggi vividi e ben delineati (la sconclusionata Sere, i quattro legionari amici di Mari Paz, la feroce e inesorabile Romero), comprimari, certo, ma tutte figure indispensabili per la riuscita del quadro d’insieme.

E poi, c’è la prosa, ritmata, coloratissima, che alterna un linguaggio popolare, diretto e accessibile, a momenti più lirici, intensi e profondi, il tutto condito con generose dosi di ironia e un tocco di surreale, che rendono la lettura affabulante, divertente, a tratti irresistibile. Insomma, molto più di un semplice thriller. Consigliatissimo.

 

Blackswan, martedì 02/04/2024