sabato 30 marzo 2019

ROBERTO COSTANTINI - DA MOLTO LONTANO (Marsilio, 2018)


1990, le calde notti magiche del mondiale in Italia, il figlio di un ricco imprenditore e una ragazza povera: sembra l'inizio di un sogno, ma i due giovani spariscono nel nulla. Michele Balistreri indaga svogliatamente, stretto tra affaristi e malavitosi, donne troppo determinate o troppo emancipate, un magistrato nordista e un collaboratore meridionale che litigano su tutto, pure sulle colpe dei napoletani nell'eliminazione degli azzurri da parte di Maradona. Poi tutto precipita e alla fine un uomo viene arrestato. Ma è davvero lui il colpevole? 2018. Un macabro ritrovamento riapre il caso mentre l'unico condannato, uscito di galera, va in cerca di verità e vendetta. Balistreri è in pensione e non ricorda, o non vuole ricordare. L'indagine è condotta dal suo ex vice Corvu e dalla giornalista Linda Nardi. Si scatena una lotta all'ultimo sangue tra uomini molto potenti e donne molto forti.

Torna Michele Balistreri, con una nuova avventura che, come suggerisce il titolo, si svolge ancora una volta su due diversi piani temporali, in equilibrio tra lontano passato e presente. La storia, infatti, ha inizio nel 1990 e, tema caro a Costantini, che già aveva raccontato quelli del 1982, si svolge a Roma durante i mondiali italiani svoltisi in Italia proprio quell’estate. Con il sottofondo di un Paese eccitato dalle prestazioni pedatorie della Nazionale, che verrà poi eliminata dall’Argentina in semifinale, Balistreri indaga svogliatamente su una sparizione che ha tutta l’aria di essere un rapimento, ma che forse rapimento proprio non è. Poi, come nella migliore tradizione noir, arrivano i primi omicidi, e allora, tutta la vicenda prende un’altra piega. Quella che sarà poi sviluppata, vent’otto anni dopo, in una Roma molto diversa da quella di inizio libro, e che vede il protagonista, ormai in pensione, riprendere le fila del caso, nonostante sopraggiunti problemi di memoria.
Costantini è, come di consueto, abile tessitore di intrecci, bravissimo nel gestire i flashback e dare continuità e coerenza a una storia che si dipana nell’arco di un trentennio. Valore ulteriore del romanzo è anche la volontà di ricostruire, seppur per sommi capi, una parte importante della storia del nostro Paese, i mutamenti del tessuto sociale e politico, vizi e virtù di un popolo che, nonostante il trascorrere dei decenni, resta sempre uguale a se stesso.
Così è inevitabile che, rivolgendo lo sguardo a quel decennio (si raccontano i Mondiali, ma di lì a breve, ci saranno anche la cronaca di Mani Pulite e l’invasione di internet e dei cellulari) sia un fil rouge nostalgico ad attraversare le quasi seicento pagine di un romanzo che, come di consueto, appassiona per trama e colpi di scena, e stupisce grazie a un finale non del tutto prevedibile. Un eccesso di enfasi nel tratteggiare le caratteristiche del protagonista resta l’unico difetto di un libro comunque godibilissimo.

Blackswan, sabato 30/03/2019

venerdì 29 marzo 2019

PREVIEW




Il 5 aprile, l'acclamata bluegrass band degli Infamous Stringdusters pubblicherà un nuovo album, Rise Sun. Prima dell'uscita dell'album, la band vincitrice del Grammy ha condiviso il brano di chiusura di Rise Sun, Truth And Love
Truth And Love, come spiega il chitarrista Andy Falco, è un brano che è stato ampiamente ispirato alla retorica vetrificata dell'attuale clima politico: “'Truth And Love è una canzone che in realtà ho iniziato a scrivere qualche anno fa", dice Falco. "Nel mondo di oggi, con così tante divisioni e negatività, ho ripreso in mano la canzone perché è un messaggio di speranza e si concentra su ciò che è veramente importante nella vita. Mi sentivo come se avessi bisogno di questa canzone per ricordarmi tutto questo. Così l’ho finita di comporre, l’ho proposta alla band e penso che sia la perfetta canzone di chiusura del nostro disco.

Gli Infamous Stringdusters hanno registrato Rise Sun con il produttore Billy Hume. L'album presenta collaborazioni con Sarah Siskind e Kim Richey.





Blackswan, venerdì 29/03/2019

giovedì 28 marzo 2019

REESE WYNANS & FRIENDS - SWEET RELEASE (Provogue, 2019)

Il personaggio è di quelli da far tremare le vene dei polsi: Reese Wynans fece parte a inizio cariera dei Second Coming, con Dickey Betts e Berry Oakley, è stato a un passo da entrare nella line up degli Allman Brothers Band, ha militato nei Double Trouble di Stevie Ray Vaughan, con cui nel 2015 è entrato nella Rock And Roll Hall Of Fame, ha suonato con Buddy Guy, John Mayall, Kenny Wayne Shepard, e da ultimo ha collaborato con Joe Bonamassa in Different Shades Of Blues (2014) e Blues Of Desperation (2016).
Stupisce, allora, che con un pedigree di questo calibro, Wynans sia arrivato alla veneranda età di 71 anni senza avere ancora pubblicato un disco solista. Lo fa, finalmente, grazie ai buoni offici di Bonamassa, che produce questo Reese Wynans And Friends: Sweet Release. Un disco che, se da un lato, onora una carriera straordinaria, dall’altro, evita però l’enfasi celebrativa, scegliendo semmai la strada della divertita condivisione e mettendo al servizio del tastierista un filotto di musicisti di caratura internazionale.
Amici, compagni di avventura, gente che semplicemente paga un debito di riconoscenza alla “leggenda”, tutti insieme per esaltare il talento del “vecchio” Reese: Kenny Wayne Shepard, Warren Haynes, Jack Pearson, Mike Farris, Josh Smith, Keb Mo’, Bonnie Bramlett, Noah Hunt, Doyle Bramhall II, Sam Moore, Chris Layton e Tommy Shannon (sezione ritmica dei Double Trouble) e, ovviamente, Joe Bonamassa, che presta la propria chitarra e, come detto, nel contempo produce.
In scaletta, reinterpretazioni di brani che arrivano, fra gli altri, dal repertorio di Stevie Ray Vaughan, Boz Scaggs, Mike Bloomfield, Meters e Willie Mitchell, e che vedono come ovvi protagonisti l’hammond e il piano di Wynans, il cui suono viene sostenuto e corroborato da splendidi assoli di chitarra (c’è un vero e proprio parterre de roi alla sei corde) e da un scintillante contorno di fiati. Sweet Release è un disco di r’n’b e rock blues scalpitanti, a cui si alternano anche alcuni momenti più rilassati, che consentono al tastierista di squadernare tutta la propria versatilità interpretativa e una tecnica, inutile sottolinearlo, a dir poco sopraffina.
Così, a fronte della botta di adrenalina dell’iniziale Crossfire, r’n’b sanguigno e tiratissimo, dello swing pervaso da debordante entusiasmo di Say What!, del rock’n’roll travolgente di Hard To Be, piacciono, e molto, anche episodi meno muscolari, come il passo felpatissimo di Riviera Paradise o il suono old time di I’ve Got A Right To Be Blue, asciutto duetto fra il piano di Wynans e la chitarra (e voce) di Keb Mo’.
Chiude una superba versione per pianoforte di Blackbird dei Beatles, che sigilla un album suonato meravigliosamente bene e tracimante energia e pathos. Il nostro augurio a Wynans è che campi fino a cent’anni e che, trovato l’abbrivio con questo Sweet Release, possa iniziare una seconda parte di carriera sfornando altri dischi di questo livello. Chapeau!

VOTO: 7,5





Blackswan, giovedì 28/03/2019

mercoledì 27 marzo 2019

PREVIEW




Uno dei ritorni più inaspettati del recente passato, Peter Perrett – ex frontman e membro fondatore dei The Only Ones – è riemerso nel 2017 con l’album How The West Was Won, che lo ha visto entrare in classifica nel Regno Unito, essere protagonista di una delle BBC Newsnight, fare il sold out in locali come l’Electric Ballroom e l’Isilington Assembly Hall, e collezionare riconoscimenti in tutto il mondo.
In questo nuovo capitolo, Peter continua a dissezionare il romanticismo e la politica con il suo sardonico senso dell’umorismo, addirittura con maggior vigore e un palpabile senso di immediatezza. “Questo disco,” aggiunge Peter, “ha più urgenza e le canzoni sono più concise. Non mi piacciono le parole come ‘progresso’ ma spero che Humanworld sia musicalmente e testualmente più interessante del mio lavoro precedente.”
Oltre allo stesso Peter, la band che ha suonato sul disco comprende i suoi figli Jamie e Peter Jr (chitarra e basso, rispettivamente), il batterista Jake Woodward, Jenny Maxwell (Microkorg synth, viola, BVs) e Lauren Moon (tastiere, batterie, BVs) – un gruppo affiatato che ha affinato questo disco, così come il precedente, con una lunga serie di concerti.
Peter tuttavia non si distacca dal passato: “Il potere interiore è positivo ma il pessimismo ha connotazioni pesanti. Devo cercare la dualità in ogni cosa. Non importa quanto vadano male le cose, c’è sempre salvezza in ogni situazione. C’era una parte di me – e forse c’è ancora – a cui non frega un cazzo di niente; da qui viene la mia natura d’evasione. Ma avere dei figli cambia tutto. Da qui il titolo dell’album. Devi cercare il bene nel mondo. Una credenza romantica, forse.”
E aggiunge: “Sono pienamente consapevole che ci sono un sacco di persone che non hanno mai nemmeno pensato che sarei riuscito a fare un album, figuriamoci due, in così poco tempo.”
Dopo anni di forse troppo divertimento, Peter Perrett sta ricostruendo se stesso, la sua famiglia e la sua arte. Lavorando coi suoi figli e capeggiando un’altra grande band, si è di nuovo rimesso sulla buona strada.





Blackswan, mercoledì 27/03/2019

martedì 26 marzo 2019

L-A. GUNS - THE DEVIL YOU KNOW (Frontiers, 2019)

Dopo pause, diaspore, cambi di formazione e litigi apparentemente insanabili, gli L.A. Guns sono tornati un progetto stabile, una band che sa cosa vuole e, soprattutto, che sa come ottenerlo. Era già chiaro nel precedente The Missing Peace del 2017, in cui fin dal titolo e dalla copertina il gruppo esorcizzava il passato burrascoso, tenendo lo sguardo rivolto saldamente verso il futuro. Un disco che era qualcosa in più di un gradito ritorno e colpiva per una rinnovata verve che sembra ricondurre agli anni migliori della loro storia.
D’altra parte, Phil Lewis e Tracii Guns, a dispetto dei reciproci e frequenti sfanculamenti, se riescono a non mettersi le mani addosso, sono ancora in grado di interpretare al meglio quel genere che le enciclopedie classificano con il termine sleaze (o street rock, che dir si voglia). Di anni, è di tutta evidenza, ne sono passati parecchi: una trentina dall’omonimo esordio del 1988, qualcuno in meno da quel gioiello di audacia che porta il titolo di Hollywood Vampires (1991). Nonostante ciò, nonostante la tinta per capelli e il ricorso al botulino, quei due, anche se probabilmente stanno insieme per tornaconto economico, i dischi li sanno fare e bene.
Questo nuovo The Devil You Know è anche meglio del suo predecessore e, in assoluto, è un disco che spacca, dalla prima all’ultima canzone, tanto che i trent’anni di cui sopra sembrano solo ed esclusivamente un mero dato anagrafico. In un periodo in cui anche i suoni più duri vengono ammorbiditi per esigenze di mercato, gli L.A.Guns continuano a randellare senza pietà, sporcano il suono come se si fosse ancora sul Sunset Strip negli anni’80. Così, quando arriva un po' di melodia (Gone Honey, la ruvida ballata Another Season In Hell) i padiglioni auricolari quasi tirano un sospiro di sollievo.
Voce graffiante, e che voce, riff potentissimi, repentini cambi tempo, e impetuosi assoli di chitarra al fulmicotone, sono un repertorio che i Guns sanno gestire alla grande. Così, sono davvero pochi i momenti, quelli già citati peraltro, in cui il passo rallenta una corsa altrimenti a rotta di collo. A cominciare dallo stridore punk rock dell’iniziale Rage, un titolo un programma, per proseguire con gli echi zeppeliniani di Loaded Bomb, con la superba Don’t Need To Win, riff alla Ac/Dc in salsa sleaze, o con lo street metal più classico di Needle To The Bone, autentica fucilata sugli zebedei, le casse non smettono di vomitare agguerritissime ondate di decibel.
Non c’è una virgola fuori posto in questo The Devil You Know, che continua a esprimere un’energia rara per gente che, a prescindere dalla gloria passata, porta ora sul groppone più di cinquanta primavere (per Phil Lewis, a dire il vero, sono più di sessanta). Chi ancora all’uscita del precedente The Missing Peace aveva dubbi circa la validità di questo nuovo corso o riteneva la reunion fra Guns e Lewis solo il tentativo di sfruttare un brand arcinoto, può dirsi definitivamente servito. Gran disco.

VOTO: 8





Blackswan, martedì 26/03/2019

lunedì 25 marzo 2019

IL MEGLIO DEL PEGGIO




Da che mondo è mondo l'occasione fa l'uomo ladro e anche all'interno del Movimento 5 Stelle il virus del malaffare si è insinuato. Tutto il mondo è paese, non abbiamo di certo scoperto l'acqua calda.
Il cedimento alle lusinghe del potere è una costante a cui solo una sparuta minoranza sa resistervi e fare finta che non sia così è da ipocriti. Però, nel pasticciaccio brutto dell'arresto del Presidente del consiglio comunale di Roma, Marcello De Vito, occorre fare qualche distinguo.
Un conto è constatare che simili incidenti di percorso possono accadere anche nelle migliori famiglie, altro è atteggiarsi a bacchettoni, come fanno il Pd e la stampa "amica", che puntano con compiacimento il ditino contro un partito che dell'onestà ha fatto il proprio segno distintivo. È il solito sport del godere delle disgrazie altrui dimenticandosi consapevolmente della spazzatura in casa propria.
Una cosa va detta per l'onore della cronaca: De Vito è stato espulso da Movimento 5 Stelle in un nanosecondo e il fatto non è per nulla trascurabile. Anzi, il beau geste dovrebbe essere preso come esempio da coloro che hanno dimostrato di essere immunodeficienti al virus della immoralita'. Sottolineo dovrebbe, ma sappiamo come è andata a finire in certi casi. Pensiamo ai Verdini, ai Dell'Utri, ai Bossi, ai Penati e la lista potrebbe allungarsi. Da sinistra a destra, la questione morale riguarda tutti indistintamente.
E se la stampa, certa stampa, è colta da amnesia "selettiva", ricordo che non tutti gli italiani hanno la memoria corta. Prima o poi i nodi vengono al pettine. Per tutti. E chi oggi si scandalizza, impari a riflettere prima di parlare a vanvera. 

Cleopatra, lunedì 25/03/2019