martedì 30 giugno 2020

NORAH JONES - PICK ME UP OFF THE FOOL (Blue Note Records, 2020)

Sono passati diciotto anni dal successo clamoroso di Come Away With Me (2002), da quei venticinque milioni di copie e ben cinque Grammy vinti, e la classe di Norah Jones è rimasta intatta. Un segno distintivo indiscutibile, tratto principale degli otto album in studio e di tutti i progetti paralleli messi in piedi dalla figlia del leggendario Ravi Shankar (il disco con Billy Joe Armstrong dei Green Day, il country blues dei The Little Willies, il terzetto tutto al femminile delle Puss N Boots).
Quel successo planetario, in seguito, non è più arrivato, ma la Jones non ha smesso di credere nelle proprie qualità, rilasciando dischi commercialmente meno entusiasmanti ma sempre vestiti con la stoffa migliore della sartoria. Pick Me Up Off The Fool, uscito a ridosso del nuovo capitolo targato Puss N Boots, conferma l’assunto e fotografa un’artista in ottima forma, capace di replicare nei suoni, se non nell’ispirazione, la magia dell’acclamato esordio.
La prima impressione, ascoltando queste undici tracce, è proprio quello di trovarsi di fronte a una raccolta capace di replicare quei lontani standard con un gusto classicissimo. Le melodie cesellate deliziosamente dal pianoforte si adagiano in quella nicchia che la Jones ha scavato tra jazz, pop, blues, country e gospel, senza però suonare esplicitamente ed esclusivamente come nessuno di questi generi. La sua voce morbida, poi, si prende spesso la scena, caratterizzando le undici canzoni con un timbro unico, immediatamente riconoscibile.
Il risultato è un disco sofisticato, elegante, arrangiato con cura artigianale, il cui suono è arricchito da pedal steel, violini e partiture d’archi, per un mood che vira spesso verso paesaggi contornati da quella luce che esita fra il crepuscolo e la notte. Un tocco di oscurità, quindi, bene evidenziato, sotto il profilo delle liriche da un approccio decisamente più poetico ed elusivo, ispirato e assistito dalla poetessa Emily Fiskio, che firma le liriche di Were You Watching?, il momento più teso e inquietante del disco. E non è da meno il testo di This Life, scritta prima della pandemia, certo, e mesta presa d’atto di un amore collassato, ma perfetta per raccontare i giorni drammatici del Covid 19 e dell’isolamento.
Tante belle canzoni in scaletta, alcune da annoverare tra le sue migliori di sempre, come la conclusiva e struggente Heaven Above, rarefazione in punta di dita e di plettro, scritta ed eseguita con Jeff Tweedy, qui in veste anche di co-produttore.
Pick Me Up Off The Fool è un disco prevedibile, potrebbero sostenere i detrattori, e forse è anche vero: probabilmente, si poteva osare di più e tentare di uscire dalla comfort zone della ballata, che tanto ha inciso sulla carriera dell’artista newyorkese. Questa, però, è Norah Jones, prendere o lasciare: il suo lo sa fare meravigliosamente, e quella classe di cui si scriveva all’inizio fa la differenza, rendendo questo ottavo album in studio uno dei migliori in carriera.

VOTO: 7 





Blackswan, martedì 30/06/2020

lunedì 29 giugno 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO



La reclusione di questi mesi o se preferite l’abusata espressione anglosassone “lockdown”, pare non essere servita. E non mi riferisco certo al contenimento del virus quanto alla perfidia umana, pervasiva e letale al pari del Covid. L’odore nauseabondo dell’ipocrisia si avvertiva già all’epoca dei flash mob, quando in tempi di restrizioni dovuti alla pandemia, i condominii si affollavano di improvvisati menestrelli. Balconi ornati di tricolore, lenzuola con arcobaleni e scritte con “andrà tutto bene” per non parlare della insopportabile retorica della ritrovata famiglia del Mulino Bianco con il ritornello “state a casa”. Purtroppo, non è andato tutto bene e non mi riferisco alla disastrosa ricaduta sull’economia che il virus ha causato. 
Il risveglio è stato amaro: l’egoismo, l’odio, la sopraffazione imperversano come mai prima d’ora. Chi pensava che il Covid potesse rimettere ordine nel mondo ristabilendo equilibrio, senso del limite, rispetto verso il prossimo, l’ambiente, i deboli, si è dovuto ricredere. È tornato il mondo di prima, più brutale, individualista, sguaiato e arrogante. Guardate, ad esempio, la politica di casa nostra. Altro che collaborazione, solidarietà, unità di intenti. Parole al vento, come era intuibile: finito il lockdown sono ricomparsi i Salvini, le Meloni, i Renzi, gli Sgarbi i selfie, gli insulti, le denigrazioni e potrei continuare l’elenco a oltranza. 
È ritornata l’Italia maleducata, quella che offende, quella che irride. In certi casi, e ahinoi non sono pochi, la paura del contagio pare avere lasciato il posto a una sfida nei confronti delle regole. Ed ecco spiagge brulicanti di vacanzieri impazziti, code in autostrada per un posto al sole e il distanziamento sociale in cantina al posto del materassino. Diceva Rita Levi Montalcini: “Non temete i momenti difficili. Il meglio viene da lì”. Io invece temo i momenti difficili come questi in cui molti sembrano avere dimenticato. Come se nulla fosse accaduto, ma purtroppo qualcosa di grande è accaduto.

Cleopatra, lunedì 29/06/2020

P.S. Il Meglio del Peggio vi dà appuntamento a settembre.

sabato 27 giugno 2020

THE BLOWER'S DAUGHTER - DAMIEN RICE (14th Floor, 2002)



E’ il primo febbraio del 2002, quando Damien Rice, songwriter irlandese, originario di Kildare, pubblica il suo primo album, intitolato semplicemente O. Il disco, nonostante sia uscito per un’etichetta indipendente, la 14th Floor (Rice respinse l’offerta di alcune major, per poter dare sfogo, senza vincoli, alla propria libertà creativa), scala le classifiche anglosassoni, piazza due singoli nella top 30, e strappa sperticati elogi da parte della critica specializzata.
Un disco di folk delicato, intimista e malinconico, che viene saccheggiato da produzioni cinematografiche e televisive, che inseriscono molte delle canzoni in esso contenute nelle colonne sonore di film e serie: Delicate in Lost e Dr. House, Cold Water in E.R. – Medici In Prima Linea e nel lungometraggio Stay – Nel Labirinto Della Mente, Cannonball in The L World e The O.C. E’ The Blower’s Daughter, però, la canzone più “rubata”, visto che compare nella colonna sonora di The L World, in quella del bellissimo Closer di Mike Nichols e, strano a dirsi, anche ne Il Caimano, film datato 2006 per la regia del nostro Nanni Moretti.
Una canzone tanto bella e struggente, questa, da oscurare nel tempo anche la fama del disco da cui proviene, e che si identifica così tanto con il suo autore da divenire una sorta di spontanea equazione: Damien Rice = The Blower’s Daughter. Un brano che avvince fin dall’incomprensibile titolo, in cui molti hanno voluto un riferimento alla figlia di un fantomatico insegnate di clarinetto (blower, in inglese, si traduce in soffiatore), anche se lo stesso Rice ha sempre smentito.
Nonostante il titolo enigmatico e, a ben vedere, non particolarmente evocativo, il brano entra nell’immaginario collettivo come una delle canzoni più tristi di sempre, quelle da nodo in gola e fazzoletto alla mano, per intenderci. Anche perché il testo è molto meno sibillino e si riferisce con chiarezza a una storia d’amore finita o, volendo creare un’ulteriore suggestione, a un’attrazione non corrisposta, o a un rapporto impossibile, coltivato solo nella testa del protagonista del brano.
Ed è così, proprio come tu hai detto che sarebbe stato”: la canzone inizia con questa presa di coscienza che tutto è finito, la consapevolezza che il sogno d’amore è svanito nel nulla, frantumatosi contro la triste realtà dei fatti. Come dire: ci ho creduto, ho sperato, nonostante tutto, nonostante tu mi avessi avvertito che sarebbe finita male.
Certo, l’amore se n’è andato, ciò che poteva essere non è stato, restano il rammarico e la recriminazione (Ti ho detto che ti disprezzo?), ma dimenticare è impossibile e il ricordo fa male (“non posso toglierti gli occhi di dosso, non posso smettere di pensarti”). Il sentimento, però, non è eterno, e una canzone che codifica nelle liriche l’iconografia epica di un amore impossibile, ma senza fine, ha nel finale una svolta sorprendentemente amara: “non posso smettere di pensarti…fino a quando non troverò qualcun altro”.
Leggete quest’ultima frase in combinato composto con il primo verso della canzone e avrete scoperto il significato del brano: è così, il cerchio si chiude (il titolo del disco acquisisce maggior chiarezza), gli amori vanno e vengono, non c’è nulla che duri per sempre. E come nella vita, coi suoi corsi e ricorsi, la ripetizione di dinamiche che paiono esclusive, diventano poi buone per ogni altra relazione. Panta Rei: tutto scorre.





Blackswan, sabato 27/06/2020

venerdì 26 giugno 2020

LARKIN POE - SELF MADE MAN (Tricki-Woo Records, 2020)

Dopo circa dieci anni e cinque dischi in studio, le Larkin Poe, Rebecca Lovell, voce e chitarra, e Megan Lovell, lapsteel, dobro e voce, fissano il primo traguardo della loro carriera. E lo fanno intitolando il nuovo disco in un modo scherzoso, che riassume molte bene lo stato dell’arte: con impegno, passione e sudore si arriva ovunque.
Ce l’hanno fatta, insomma, hanno lavorato duramente, suonato incessantemente, hanno prodotto la loro musica attraverso una propria etichetta (Tricki-Woo Records) e sono passate, in un decennio, dal garage di casa a una nomination ai Grammy. Una sempre maggiore rilevanza mediatica che però non ha distratto le due ragazze dal loro obbiettivo né le ha spinte verso scelte artistiche differenti da quelle che hanno abbracciato fin dagli esordi.
Certo, la loro rilettura di un genere antico come il blues fa storcere il naso a molti ascoltatori ortodossi. Le due sorelle Lovell, infatti, camminano in bilico fra tradizione e innovazione, plasmando le classiche dodici battute con grande modernità e azzardi stilistici che suonano decisamente anomali rispetto alla consueta visione del genere (nel precedente Venom & Faith fecero ricorso anche a un pizzico di elettronica).
Insomma, da un lato l’attenzione filologica alle radici è rispettata, dall’altro, però, c’è il tentativo di plasmare la materia per renderla più attuale. Il taglio è ricco di accenti rock, certi riff strizzano l’occhio alle arene, certi slanci melodici si adattano bene ai passaggi radiofonici. Un po’ mainstream, un po’ furbette, eppure irresistibili.
Le dieci tracce di Self Made Man si muovono su queste coordinate, e l’impressione è che le due ragazze di Atlanta abbiano definitivamente codificato il loro suono: grezzo e aggressivo, certo, ma capace di esser appetibile anche a chi non mastica molto il genere. Così, i riff zeppeliniani (la title track che apre il disco), i tamburi battenti e le sventagliate slide, che evocano il delta sound, vengono compensati da sornioni handclaps e da eccitanti ganci melodici.
Certo, non si può pretendere che questa declinazione del blues possa piacere ai puristi; eppure, sarebbe ingeneroso non riconoscere alle Larkin Poe il merito di aver plasmato un suono per adattarlo a orecchie meno allenate, pur tuttavia mantenendo profondo rispetto per la matrice iniziale. Non mancano né la grinta né la polvere, e non tutti gli spigoli vengono smussati, dando al risultato finale la sensazione di autenticità. Tuttavia, anche a voler vestire i panni di severi detrattori, Self Made Man suona comunque pimpante e divertente, e questo, per quanto ci riguarda, è sufficiente a farcelo piacere. 

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 26/06/2020

mercoledì 24 giugno 2020

PREVIEW



Another Sky annunciano oggi l’album di debutto I Slept On The Floor, in uscita il 07 agosto su Fiction Records/Caroline International, distribuzione Universal. La band di South London condivide oggi il video per il nuovo singolo “Fell In Love With The City”, il loro brano più ambizioso ed euforico di sempre, trasmesso in anteprima ieri sera come Annie Mac’s Hottest Record su Radio 1. 
Dalla pubblicazione del loro singolo di debutto nel 2018, gli Another Sky mescolano impeccabilmente tematiche difficile con un sound cinematografico senza eguali. La rabbia poetica di Catrin Vincent è stata una presenza importante nella storia degli Another Sky, grazie agli argomenti che tratta come le relazioni tossiche, i traumi d'infanzia, l'elitismo sistematico, la Brexit, l'ascesa di Donald Trump e molto altro. Nonostante ciò, I Slept On The Floor non è didattico; è più una sorta di diario personale caratterizzato da una prospettiva timidamente speranzosa.





Blackswan, mercoledì 24/06/2020

martedì 23 giugno 2020

JIMMY GNECCO - THE HEART (Bright Antenna, 2010)

La storia degli Ours, alternative rock band originaria del New Jersey, ha inizio a metà anni ’90, ma si concretizza solo nel nuovo millennio, quando, nel 2001, esce il disco d’esordio (Distorted Lullabies) per la DreamWorks Records, suscitando immediatamente giudizi positivi da parte della stampa specializzata e del pubblico, che apprezza soprattutto il singolo Sometimes, spingendolo alto in classifica.
E’ il momento migliore di un gruppo, che si guadagna un ottimo seguito nel circuito alternative americano, rimanendo pressoché sconosciuto fuori dal territorio nazionale, Italia compresa. Ed è un vero peccato, perché il rock impressionista degli Ours ha come matrice la musica di Jeff Buckley, artista icona degli anni ’90, amato a ogni latitudine. Non è solo questione di suono (tra le fonti d’ispirazione è evidente il riferimento a quel decennio, chiamato in causa anche per alcune assonanze coi Radiohead del primo periodo), perché ciò che davvero permette l’accostamento fra la musica di Buckley e quella degli Ours è la voce incredibile del loro leader dal nome buffo, Jimmy Gnecco. Una voce pazzesca, la sua, dotata di un’estensione funambolica che, soprattutto nelle parti di screaming, può essere tranquillamente sovrapposta a quella di Jeff, senza che nessuno noti la differenza.
Gnecco, cantante, songwriter e polistrumentista, esordisce in solitaria nel 2010, con questo bellissimo e misconosciuto The Heart. Un disco autoprodotto, interamente acustico, intimo e confessionale, con cui il leader prende le distanze dalla casa madre, salvo poi, l’anno successivo, ripensarci e suonare l’intera scaletta con una backing band (pubblicando così The Heart X Edition).
The Heart è un’opera attraversata da una pressante urgenza emotiva, come se queste canzoni, trattenute a lungo nel cuore, più che nella testa, cercassero con prepotenza uno sbocco. E’ evidente il desiderio di Gnecco di mettersi a nudo (non è un caso la copertina e non è un caso il titolo del disco), di svestire i panni della rockstar (gli Ours, certo, ma anche una chiacchierata collaborazione con Brian May dei Queen) per raccontare i tormenti della propria anima e indagare sui rapporti interpersonali e sull’amore (per la cronaca, Gnecco ebbe una tormentata relazione con Lana Del Rey, che ispirò Ultraviolence).
Quindici canzoni (due in più nella deluxe edition), eseguite prevalentemente per chitarra e voce (ma compaiono anche pianoforte e batteria), dagli arrangiamenti scarni, che poggiano soprattutto sulla voce di Gnecco, il cui timbro è capace di riempire tutti gli spazi, dando spessore e stratificazione alle composizioni. Una voce, si diceva, incredibile, e incredibilmente versatile, che spesso imbocca la strada del falsetto, e in altre occasioni quella dello screaming, mantenendo però sempre inalterata la tensione drammatica e la potente estensione, che ha spesso aperto illustri paragoni con il citato Buckley e Chris Cornell.
Un disco lungo (circa un’ora di durata), che però non mostra mai la corda, ma è sempre sorretto da quell’urgenza espressiva, talvolta spinta fino al limite del parossismo e del melodrammatico, di cui si diceva prima. A metà strada fra i Radiohead acustici (quelli di True Love Waits, per intenderci) e il romanticismo disperato di Jeff Buckley, il songwriting di Gnecco lega a doppio filo il proprio cuore con quello dell’ascoltatore, in una immedesimazione di palpiti che perdura ben oltre l’ascolto. Canzoni dall’ossatura fragile ma dal pathos smisurato, carezze malinconiche per anime inquiete, piccoli gioielli da conservare gelosamente nello scrigno nascosto della propria cameretta, quando arrivano le ombre della notte, e fuori piovono lacrime di tristezza e di promesse infrante.
Rest Your Soul, Darling, I Heard You Singing, Bring You Home e It’s Only Love, solo per citarne alcune, sono canzoni destinate a durare nel tempo, e a vivere in quell’immaginario di suggestioni che solo la musica sa creare e che le anime romantiche si tengono strette, vicino al cuore, per amplificare l’eco dei propri struggimenti. D’altra parte, non è forse una melodia malinconica la scorciatoia più rapida alla voluptas dolendi?





Blackswan, martedì 23/06/2020

lunedì 22 giugno 2020

IL MEGLIO DEL PEGGIO






In controtendenza all’estate ormai alle porte, Matteo Salvini, politicamente (s)parlando, sembra stia vivendo una vera e propria stagione autunnale. Che l’ex ministro dell’Interno non ne azzecchi più una da quasi un anno a questa parte (galeotto fu il mojito) è cosa fin troppo evidente ai più. Il linguaggio da taverna, quell’approccio pecoreccio, irriverente, semplificatore nell’argomentare sembra ormai fare cilecca. 

Il Capitano zoppica, perlomeno mediaticamente. Se il copione dell’offensiva ai migranti puzza ormai di naftalina, così come l’ossessiva campagna denigratoria nei confronti di Elsa Fornero, al leader della Lega resta non più solo la paura ma anche il tema della rabbia degli italiani su cui puntare. Con la conseguenza di avere trasformato l’opposizione, di cui è il leader, in uno scontro privo di dialettica costruttiva, un tutti contro tutti a oltranza, spesso infarcito di “giravolte” che rasentano il ridicolo. 
In tema di Covid Salvini è passato dalla teoria del complotto sul virus creato nei laboratori cinesi e dunque del “chiudiamo tutto”, fino al negazionismo in versione light quando si è mostrato senza mascherina a fare selfie durante la manifestazione del 2 giugno a Roma o quando ha pubblicamente dichiarato di non scaricare l’app Immuni perché, a suo dire, tra gli azionisti della società che l’ha fondata ci sarebbe un investitore cinese. 
Nulla di strano: Salvini fa Salvini. Ma un conto è il folklore altro discorso è il decoro, il rispetto per gli esseri umani. Prerogative che il personaggio in questione non ha. Nel corso di una conferenza stampa, durante la quale il governatore Zaia manifesta grande preoccupazione per un batterio che ha ucciso 3 neonati e colpito un’altra decina, Salvini inopinatamente ingolla famelicamente ciliegie, una decina per l’esattezza, nell’arco di un minuto. 

Nessuna scusa da parte del Capitano, che anzi su TikTok alza il tiro giustificandosi che in quel momento aveva fame e che “forse per qualcuno è meglio farsi due canne che mangiare delle ciliegie”. Credo che non ci sia molto da commentare. Se la politica si trasforma in un pessimo intrattenimento di massa, a questo punto è meglio spegnere la televisione e leggersi un buon libro.

Cleopatra, lunedì 22/06/2020

sabato 20 giugno 2020

STEPHEN MARKLEY - OHIO (Einaudi, 2020)


Una notte d’estate, quattro ex compagni di liceo si ritrovano per caso nella città che hanno lasciato da tempo. Raccontando, ciascuno, un pezzo di verità, scopriranno prima dell’alba il segreto che ha segnato le loro vite. È un posto dimenticato da Dio, New Canaan. Dopo il diploma, dieci anni fa, se ne sono andati tutti. Bill, attivista disilluso con una passione per i guai; Stacey, una dottoranda che ha imparato ad accettare la propria omosessualità; Dan, reduce dall’Iraq segnato nel corpo e nella mente; Tina, ex cheerleader fragile e amareggiata. Ma la notte in cui le traiettorie dei quattro giovani si incrociano di nuovo, passato e presente, i giorni del liceo carichi di promesse e le disillusioni dell’età adulta, fanno contatto ed esplodono. Da anni non si leggeva un romanzo che affrontasse, con tanta ferocia e pietà, la perdita dell’innocenza.

Una notte d’estate a New Canaan, piccola cittadina dell’Ohio. Quattro ex studenti del liceo locale tornano nei luoghi in cui sono cresciuti e il loro destino si intreccerà nuovamente. E’ la provincia americana e il Midwest più profondo a fare da sfondo a questo romanzo d’esordio di Stephen Markley. Luoghi che paiono immutabili nel tempo, cristallizzati in un’iconografia da film di serie B: il liceo, le squadre locali di football e di basket, la main street, i diner, l’asfissiante quiete della provincia, la chiesa, le congregazioni religiose, l’alcol e il sesso, uniche via di fuga a una routine che fagocita la speranza e le aspirazioni dei più giovani.
Markley fotografa alla perfezione questa realtà e la racconta attraverso la lente distorta di un’America allo sbando, etico ed economico. Perché quella pace apparente, quell’abitudinario ripetersi di giorni e riti viene a impattare con il mondo che cambia, con la guerra (Iraq e Afghanistan) e il collasso finanziario, che mietono vittime, distruggono famiglie, mozzano le prospettive future.
Il passato, giovane e incosciente, e il presente, violento e disperato, si sovrappongono nell’intreccio narrativo che vede protagonisti quattro anime perse, alla ricerca di un’identità, di un motivo per andare avanti, di una ragione di vita. Quattro ex ragazzi che sono i figli reietti di una provincia che li ha rifiutati, variabili impazzite di una società retriva e conservatrice che li aborrisce e li rinnega.
Bill, ex militante di sinistra, ora in preda alle dipendenze; Stacey brillante dottoranda ed ecologista, omosessuale alla ricerca della pace interiore; Dan reduce di guerra, mutilato nel corpo e nell’anima; Tina, l’ex bella del liceo alle prese con gli incubi di un terribile segreto. Una generazione persa e disillusa, alle deriva fra le macerie del sogno americano e in perenne combattimento coi propri fantasmi interiori e con un vuoto etico che sgomenta. Figli di un’America che li ha partoriti e che adesso non li vuole più.
Una notte d’estate a New Canaan, Ohio, in cui quattro storie si intrecciano, nei ricordi torbidi di un passato che inchioda a responsabilità enormi e condiziona un presente in cui l’unica cosa che davvero conta è costruire, finalmente, una consapevolezza. Un dramma epico e struggente, che indaga sulla precarietà (etica, culturale ed economica) delle nuove generazioni, scritto meravigliosamente da una penna cinica e icastica, capace però di straordinari momenti di nostalgico lirismo.
Ohio ruberà parecchie ore al vostro sonno, rapiti da una vicenda che, pagina dopo pagina, svela lentamente tutti i suoi misteri, in un crescendo di tensione che, negli ultimi due capitoli, sfocia in un palpitante thriller. L’intreccio narrativo di queste cinquecento pagine è l’intuizione di un fuoriclasse della scrittura: Markley è destinato a grandi cose e Ohio è uno dei più bei romanzi americani degli ultimi vent’anni. Non perdetevelo.

VOTO: 9

venerdì 19 giugno 2020

BLANCO WHITE - ON THE OTHER SIDE (Yucatan Records, 2020)

Sotto il moniker Blanco White si cela Josh Edwards, ventottenne songwriter e chitarrista londinese, che con questo On The Other Side esordisce sulla lunga distanza. Come suggerisce il nome (ispirato dal poeta spagnolo Joseph Blanco White), Edwards ha il cuore diviso a metà: da un lato le origini britanniche e dall’altro la passione per la Spagna, dove si è trasferito a vivere (a Cadice, per la precisione). Una scelta di vita, certo, ma anche artistica, visto che in Andalusia Josh ha studiato la chitarra flamenco, sotto la guida di Nono Garcia, e ha affinato la sua tecnica, ulteriormente migliorata, poi, da un trasferimento a Sucre, in Bolivia, dove il songwriter inglese ha scoperto la musica folk del luogo e ha imparato a suonare il charango.
Josh ha passato, poi, molti anni in America latina e in seguito a questa esperienza si è appassionato alla cultura spagnola e in particolare alla musica. “Quando avevo 10 anni mio padre ha lasciato il lavoro, mia madre si è presa una pausa dal suo e hanno portato me e le mie due sorelle più piccole in America Latina. Abbiamo lasciato la scuola e siamo andati in Messico, Costa Rica e Perù. È stato un viaggio che ci ha cambiato la vita e quando sono tornato morivo dalla voglia di imparare a parlare spagnolo. L’America Latina per me rimarrà sempre un posto meraviglioso e molto romantico”.
Un gavetta di spessore, quindi, che ha forgiato il songwriting e la tecnica di Edwards, portandolo a suonare in giro per l’Europa e a incidere tre Ep con cui si è fatto conoscere nei circuiti alternative e che hanno preparato il terreno per questo full lenght d’esordio.
On The Other Side è composto di undici canzoni di ispirato folk pop, morbido e vellutato come la bella voce di Edwards. C’è molta attenzione al suono delle chitarre, che il giovane songwriter suona con una perizia invidiabile e che sono avviluppate quasi sempre in un soffice tappeto di synth. Nonostante la passione per la cultura spagnola, però, i riferimenti alla musica latina sono sporadici (a parte la conclusiva Mano a Mano cantata in spagnolo ed evidente omaggio alla sua patria di adozione) e la proposta mantiene salde le radici nella cultura folk britannica.
Il disco è piacevolissimo, ricco di soundscapes malinconici e attraversato da un mood sofferto e crepuscolare. Manca tuttavia l’intuizione melodica da ko, e la voce di Edwards, per quanto calda e carezzevole, è però monotonale, e finisce per appiattire l’andamento di un lavoro accattivante, ben suonato, ma nel complesso abbastanza prevedibile.

VOTO: 6,5





Blackswan, venerdì 19/06/2020

giovedì 18 giugno 2020

PREVIEW




Daniel Blumberg annuncia oggi il nuovo album On&On, che con i suoi 9 brani conferma le grandi abilità del musicista e artista visuale di Londra. On&On sarà disponibile dal 31 luglio su vinile, CD e in digitale via Mute [PIAS]. La pubblicazione è accompagnata da un saggio scritto da David Toop e da ritratti della fotografa Brigitte Lacombe.
On&On – seguito del debutto di Blumberg su Mute Minus, del 2018 – rappresenta il consolidamento dell’estetica decostruzionista dei brani che Blumberg ha sviluppato, operando tra strutture convenzionali e improvvisazione libera. Con questo nuovo lavoro, il musicista inglese va oltre, incorporando motivi proteiformi e talvolta dissolvendo i confini tra i brani. La title track “On&On” appare quattro volte nell’album, creando un vero e proprio brano infinito che rappresenta al meglio il paradosso del cerchio, esistendo in uno spazio laminare tra il moto perpetuo e la stasi, così come Daniel canta: ‘On and on and on and on and on…
L’album è nato durante delle live session con lo stesos gruppo di musicisti presenti in MinusDaniel Blumberg (voce, chitarra, armonica), Ute Kanngiesser (violoncello), Billy Steiger (violino), Tom Wheatley (contrabbasso) e Jim White (batteria), con l’aggiunta di Elvin Brandhi (voce). Si tratta di relazioni sempre più intense e di una forte condivisione di tecniche, per questo gruppo affiatato di musicisti che gira intorno al Cafè OTO. 
 
L’album è stato registrato da Peter Walsh (Scott Walker), che ha catturato le straordinarie performance del gruppo, includendo l’intera gamma espressiva dei loro strumenti, dalle melodie morbide e le armonie vocali delicate, ai graffi ruvidi e irregolari, mentre il suono della stanza e del mondo esterno sconfina naturalmente nel campo sonoro, come Toop dichiara, “as if a window has opened”.





Blackswan, giovedì 18/06/2020

martedì 16 giugno 2020

PETER GABRIEL - DON'T GIVE UP (Charisma, 1986)



Margaret Thatcher, ovvero Iron Lady, Primo Ministro britannico. Tre mandati, dal 1979 al 1990, che rappresentano per molti il periodo più buio della recente storia britannica.
Fu soprattutto il secondo mandato, quello che va dal 1983 al 1987, che gettò pesanti ombre sulla sua carriera politica: conservatorismo e liberismo esasperato, macelleria sociale, privatizzazioni a tappeto, l’ostilità, spesso sfociata nella violenza delle cariche della polizia, contro sindacati e minatori. Anni bui, soprattutto per gli ultimi, per i più deboli e i più poveri, che si trovarono spesso privati di lavoro, assistenza e diritti.
Anni in cui si coagulò, spontanea, un’opposizione trasversale, che ebbe anche parecchia eco nel mondo della musica: dai Clash di Sandinista! (intitolato così perché la Thatcher voleva proibire la parola sandinista) e dal Red Wedge di Paul Weller e Billy Bragg (collettivo di musicisti sostenuto dal Partito Laburista), fino ai Pink Floyd di The Final Cut (album fortemente polemico contro il Primo Ministro britannico per la partecipazione alla guerra delle Falkland), la scena musicale britannica non perdonò nulla a Margaret Thatcher.
Quando nel 1986 esce So, capolavoro a firma Peter Gabriel, fu inevitabile pensare che una delle più belle canzoni in scaletta, Don’t Give Up (in duetto con Kate Bush) fosse ispirata proprio al disastro sociale causato dalle politiche conservatrici della Iron Lady.  
La storia raccontata da Gabriel è quella di un uomo distrutto dalla vita, un fallito che ha perso tutto, privato dei suoi sogni ed economicamente distrutto. Un uomo alla deriva, insomma, che fatica a sbarcare il lunario, anche quello emotivo (Nessuna lotta è rimasta, o così pare, sono un uomo i cui sogni hanno disertato in massa, ho cambiato faccia, ho cambiato nome, ma nessuno ti vuole quando hai perso).
Ciò nonostante, questa canzone, che nasce da una tragedia individuale (ma anche collettiva delle fasce più deboli della popolazione britannica), è attraversata da un forte anelito di speranza, che veste i panni dell’amicizia. E’ Kate Bush, con la sua splendida voce, a dare conforto a un uomo che non si aspetta più nulla dalla vita: “Non arrenderti, hai degli amici, non arrenderti, non sei il solo, non arrenderti, non c'è motivo di vergognarsi, non arrenderti, hai ancora noi, non arrenderti adesso, siamo fieri di te, come sei”. Semplice, un filo retorico, certo, ma estremamente efficace: non è il denaro che determina una persona, ma le sue qualità interiori, e noi, i tuoi amici, amiamo quelle. Quindi, non mollare, perché noi ci saremo sempre.
Se si potesse fare una classifica delle canzoni che hanno salvato la vita a qualcuno, probabilmente Don’t Give Up si piazzerebbe al primo posto: una ballata dolente dagli accenti soul, che però ha rappresentato speranza e salvezza per tanta gente comune e anche per uomini famosi, che quelle condizioni estreme di disagio sociale non le hanno mai provate.
Basti pensare a Elton John. L’icona pop, disse, infatti, che nei periodi più bui della sua dipendenza dalle droghe, non ce l’avrebbe mai fatta se non avesse avuto il conforto della canzone di Peter Gabriel. In cui si riconosceva e da cui trasse la forza per evitare gesti estremi e uscire dal tunnel. Ci riuscì, ovviamente. Perché una canzone, talvolta, può fare miracoli.





Blackswan, martedì 16/06/2020

lunedì 15 giugno 2020

AMERICAN AQUARIUM - LAMENTATIONS (New West, 2020)

Quindici anni di carriera e un crescente livello di qualità, tanto che questo nuovo Lamentations può essere considerato il miglior disco in assoluto degli American Aquarium. E ciò, nonostante i continui cambi di line up, che hanno fatto della band della North Carolina una specie di porto di mare.
A guardia del faro, come unico membro originale della band, resta B.J. Barham, padre padrone indiscusso del progetto, figura particolare e non certo malleabile, uomo irascibile, arrogante, politicamente non allineato. Gli altri, anno dopo anno, si sono dati alla macchia: troppo complicato collaborare con questo leader che fa del pessimismo la lente d’ingrandimento della sua poetica, che non smette di guardare quel bicchiere perennemente mezzo vuoto e scrivere canzoni dai testi tanto acuti quanto depressi. Troppo lontano dalle logiche di Nashville, meno conciliante di tanti colleghi con cui condivide la prospettiva (Jason Isbell su tutti), B.J. Barham ha spinto sempre il suo linguaggio politico a sinistra, forse un po’ troppo per una panorama musicale che spesso guarda in direzione opposta. Una vera e propria anti-star, se così si può dire, che attraverso l’etica del lavoro ha saputo farsi strada nel mondo della musica, conquistandosi un posto importante fra i singer songwriter della sua generazione.
In collaborazione con Shooter Jennings, qui in veste di produttore, BJ e i suoi American Aquarium catturano in Lamentations il fermo immagine del sogno americano infranto, raccontato attraverso il filtro di una prospettiva meridionale e sviscerato in dieci canzoni che, oltre a un notevole impianto musicale, hanno il merito di essere cariche di emozioni, di spingere alla riflessione attraverso storie reali, quotidiane, condivise.
Un disco che è chiaramente un’opera politica di forte critica all’America bianca di Trump, con una visione chiara e schierata sulla società, ma sviscerata attraverso liriche che riguardano tutti e che mantengono un sorprendente equilibrio espositivo. Lamentazioni, quelle di Barham che riguardano anche se stesso e la propria vita: il rimpianto e la malinconia di Six Years Come September, storia della ritrovata sobrietà, The Day I Learned To Lie To You, sulla menzogna nei rapporti interpersonali o How Wicked I Was, amara riflessione sul divorzio, sono storie che riguardano da vicino B.J., il suo intimo, la sua vita, davanti alla quale non si assolve, ma mette il dito nella piaga, come sprone per evitare l’autocommiserazione. Nessuna giustificazione, ma consapevolezza e riscatto.
"Più lavori duro, più fortuna ottieni", canta Barham nella bella The Luckier You Get, ed è il modo in cui il songwriter affronta la vita e la musica, torturandosi per migliorare sempre e produrre di più, per raggiungere obbiettivi professionali ed esistenziali (e che diviene sprone per tutti nella conclusiva The Long Haul).
Basta chiudere gli occhi e Lamentations vi spingerà di peso all’interno di quegli scenari e quell’immaginario tanto cari a chi ama questo genere di musica. Tuttavia, rispetto al precedente Things Change (2018), che era un disco più visceralmente country, Lamentations possiede un respiro più ampio e una produzione più rigogliosa: la forza delle parole trova maggiore spinta in onde melodiche e scarti tangenziali inaspettati, come avviene nei finali di Me + Mine e Brightleaf + Burley, rendendo questo disco più coinvolgente e imprevedibile rispetto alla consueta misura roots della proposta (comunque presente nel ricorrente uso della steel guitar).
L’ennesima, ottima prova, quindi, di una band che, sono pronto a scommetterci, finirà molto in alto nelle classifiche di genere, magari contendendo la piazza più ambita a Reunions di Jason Isbell. 

VOTO: 8





Blackswan, lunedì 15/06/2020

domenica 14 giugno 2020

UNBELIEVABLE TRUTH - ALMOST HERE (Virgin, 1998)

E' durata un lampo la carriera degli Unbelievable Truth: solo tre anni di attività, dal 1997 al 2000, e due dischi in studio all'attivo.
Formatasi a Oxford nel 1993, la band capitanata da Andy, fratello minore di Thom Yorke (leader dei Radiohead), e composta anche dal polistrumentista e produttore Nigel Powell (The Sad Song Co., Frank Turner, Dive Dive, etc) e dal bassista Jason Moulster, prese il nome dall’omonimo film del 1989 diretto da Hal Hartley. Nemmeno il tempo di programmare il futuro e di mettere insieme un pugno di canzoni, che Andy Yorke saluta tutti e si trasferisce in Russia. Rientra in Inghilterra nel 1996, e da questo momento in avanti la breve storia degli Unbelievable Truth ha inizio.
Nel 1997 viene dato alle stampe il primo singolo, Building, via Shifty Records, un’etichetta locale, e l’anno successivo esce l’esordio della band, Almost Here, questa volta pubblicato da una major come la Virgin.
Un disco di canzoni fragili, cesellate nella porcellana diafana di un pop acustico, empatico e tendenzialmente depresso. Piccoli gioielli di semplicità e mestizia, geneticamente predisposte all’accordo in minore, avvolte in un tessuto sonoro scarno, dimesso ma non trasandato, in cui prevale l’utilizzo delle chitarre acustiche, talvolta appena sfiorate da echi quasi country, più spesso immerse in quelle calde acque malinconiche che segnano molta della musica britannica del periodo. D’altra parte, i geni non mentono: come per Thom, anche per Andy la malinconia era fonte d'ispirazione, sostanza e cifra stilistica.
Almost Here è una sorta di guida all’understatement del dolore, sempre sussurrato e mai gridato, declinato in atmosfere morbide che evocano il groppo in gola. Piccole canzoni, melodicamente inappuntabili e con un’anima grande così. Manca a Andy Yorke il genio del fratello, lo slancio sperimentale, l’intuizione melodica che strattona; eppure, questi undici brani riescono a conquistare più di un ascolto, magari in cuffia e nel buio della cameretta, dove Andy, mutate mutandis e con gli aggiornamenti sonori assorbiti dalla modernità del brit pop del momento, sembra quasi vestire gli abiti di un novello Nick Drake.
Be Ready, Solved, Building e Angel sono piccoli gioielli intagliati con cura artigianale, mentre la più movimentata e “rock” Higher Than Reason, è il singolo che traina i quarantadue minuti dell’album fino al ventunesimo posto delle charts inglesi.
Il successivo album, pubblicato nel 2000, sarà anche l’ultimo (l’anno successivo uscirà postumo Misc. Music, raccolta di B sides e di inediti). Leggermente più denso negli arrangiamenti, ma figlio dello stesso mood triste e crepuscolare, il disco chiuderà per sempre l’avventura degli Unbelievable Truth. SorryThankyou, si intitola: perdonateci e grazie di tutto. Una fine improvvisa ma non imprevedibile: l’ego di Andy, delicato singsongwriter dalla garbata introspezione, viene schiacciato irrimediabilmente dal paragone col fratello Thom, che negli stessi anni, coi suoi Radiohead, dà alle stampe due capolavori epocali: Ok Computer (1997) e Kid A (2000), che segneranno inesorabilmente la storia del pop britannico e non solo. Un peso troppo gravoso da portare sulle spalle di un’anima fragile. Peccato.





Blackswan, domenica 14/06/2020

venerdì 12 giugno 2020

PUSS N BOOTS - SISTER (Blue Note Records, 2020)

A sei di distanza No Fools, No Fun, le Puss N Boots, trio newyorkese tutto al femminile capitanato da Norah Jones (le altre due sono Sasha Dobson, cantante jazz californiana, qui alle prese con la batteria, e Catherine Popper, bassista che ha lavorato con Ryan Adams & The Cardinals, Grace Potter, Jesse Malin, etc.) tornano con un nuovo full lenght intitolato Sister (nel 2019 avevano però pubblicato un Ep).
Nonostante ognuna delle tre ragazze abbia un’intensa carriera solista e, nello specifico, a parte la Popper, si cimenti al di fuori del consueto ambito di competenza (la Jones è soprattutto una pianista e qui, invece, suona chitarra elettrica e, in un caso, la batteria), questo progetto, alla resa dei conti, risulta ben lontano da un evento estemporaneo. Anzi, nonostante la Jones e la Dobson non eccellano nelle parti strumentali, Sister possiede un’incredibile coesione, e l’approccio essenziale, spesso scarno, non toglie respiro alla raffinatezza e alla stratificazione delle armonie. Insomma, siamo di fronte a un lavoro che suona al contempo pensato e spontaneo, un equilibrio, questo, che dona fascinazione alle quattordici canzoni in scaletta (le ultime due, Joey e The Grass is Blue presenti solo nell’edizione in cd).
Come il suo predecessore, il sophomore mantiene intatta la formula di alternare, a brani originali scritti per l’occasione, cover di canzoni altrui, alcune famose, altre decisamente meno.
Un suono coeso, si diceva, in equilibrio fra elettrico (soprattutto) e acustico, arrangiamenti essenziali dal taglio quasi lo-fi, strumentazione scarna (basso, batteria, chitarra e poco altro), per un filotto di brani che oscilla tra il country (Lucky e The Razor Song, scritte entrambe dalla Popper), l’indie pop (la lenta, quasi narcolettica, The Great Romancer), il rock (la cadenzata Nothing You Can Do, con quel riff di chitarra che sembra rubato dal songbook di Neil Young) e reminiscenze anni ’60 (la title track).
Il meglio, però, le tre “sorelle” lo danno quando reinterpretano brani altrui: la rilettura davvero emozionante di Angel Dream di Tom Petty (da Songs And Music From She’s The One), con un’intensa Norah Jones alla voce, il recupero di It’s a Wonderful Lie da Suicane Gratifaction di Paul Westerberg, sublime melodia pop resa splendidamente in questa versione elettrica con la Popper al canto, e The Grass Is Blue, brano poco noto dell’icona country Dolly Parton, proposta attraverso un’esecuzione da brivido, una ruvida chitarra elettrica ammorbidita dal velluto delle tre voci.  
Una scaletta volta prevalentemente alla ballata, in cui forse manca la canzone (originale) da ko, ma che mantiene un alto livello di suggestione grazie all’affiatamento e l’intesa che lega queste tre artiste. Le quali, a dispetto di un progetto dilatato nel tempo, sembrano suonare insieme da una vita.

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 12/06/2020

giovedì 11 giugno 2020

PREVIEW





I JAPANDROIDS annunciano MASSEY FUCKING HALL, il live album che ripercorre la loro carriera in uscita il 19 giugno in digitale e il 2 ottobre in vinile. Ascolta “Heart Sweats”.

L’album conterrà dodici brani registrati alle Massey Hall di Toronto provenienti dai tre album di studio della band, acclamati da critica e pubblico. Il primo assaggio è “Heart Sweats”.
“Ci è sempre piaciuto suonare questo brano dal vivo,” dice il batterista David Prowse. “Possiede un grande impeto e mi fa sempre andare su di giri. Durante il tour era la seconda o la terza canzone di ogni set. Sembra essere ogni volta il momento, durante il concerto, in cui ho quella sensazioni di ok, sì, adesso abbiamo preso il volo. E voliamo per il resto del set.”
La Massey Hall è una celebre venue di Toronto inaugurata nel 1894. Con una capienza di quasi 3000 persone, il teatro ha ospitato performance storiche di artisti canadesi come Oscar Peterson e The Tragically Hip, e qui sono stati registrati album live epocali come quelli di Neil Young e dei Rush.
“Non avremmo mai pensato di poter suonare alla Massey Hall,” spiega Prowse, “è la venue più leggendaria del Canada ma non sembrava un posto adatto a noi. È un teatro che ha più di cent’anni, coi posti a sedere: non certo il luogo dove ti aspetti di vedere un concerto dei Japanandroids. Onestamente, quando siamo scesi dal palco quella sera, ricordo di aver provato un senso di sollievo ed euforia, ma il tutto sembrava un po’ confuso. È stato uno show molto emozionante per me. Eravamo tutti piuttosto nervosi.”





Blackswan, giovedì 11/06/2020

mercoledì 10 giugno 2020

SUZANNE VEGA - LUKA (A&M, 1987)






Davanti a casa, a Spanish Harlem, quartiere “difficile” di New York, dove la giovane Suzanne si è trasferita coi genitori dalla California, ci sono sempre dei bambini che giocano. Fanno chiasso, come è ovvio che sia, provano lo skateboard, tirano calci a una lattina, si scambiano figurine dei giocatori di baseball. Sono allegri e si divertono un mondo, nonostante tutto intorno sia degrado, povertà e violenza. E’ la spensieratezza dell’infanzia, quell’età inconsapevole alle storture del mondo, popolata da bizzarre fantasie e da piccole esaltanti scoperte.

C’è un bambino, però, che se ne sta in disparte, solitario, gli occhi tristi, appena velati di lacrime. Suzanne lo vede spesso, e si chiede chi sia quel ragazzino che guarda nel vuoto, che talvolta parla tra sé e sé, come fosse avulso dalla realtà circostante, come se quella strada, quegli amici, quelle ore di svago appartenessero a un universo parallelo.
Quel bambino, che ha toccato nel profondo l’animo di Suzanne, che l’ha costretta a riflettere sulla vita e a porsi domande prima del tempo, qualche anno dopo avrà un nome: si chiamerà Luka e sarà il protagonista di una bellissima canzone, una hit da milioni di ascolti che compenserà in eterno l’ingiustizia di quello sguardo triste, di quel dolore nascosto in una feroce solitudine.
Mi chiamo Luka, vivo al secondo piano, vivo sopra di voi, si, penso che mi abbiate visto prima”. Inizia così uno dei brani di punta di Solitude Standing, secondo disco e clamoroso successo internazionale di Suzanne Vega, una giovane cantautrice folk/pop che si inserisce nella grande tradizione del cantautorato femminile (quella che ha come capostipite Joni Mitchell) a fianco ad altre straordinarie artiste del momento, come Tracy Chapman e Shawn Colvin.
Memore di quel ricordo d’infanzia, la Vega scrive una canzone dolorosissima, che affronta il tema difficile degli abusi sui minori. Una hit che ascoltano tutti e tutti cantano, magari sotto la doccia; una canzone, però, capace di risvegliare le coscienze, di mettere il dito nella piaga e sensibilizzare l’opinione pubblica su un problema troppo spesso taciuto. Una forma nobile d’arte, la canzone popolare che si fa veicolo di denuncia, che costringe a pensare a quei bambini che, come Luka, vivono un incubo, una lenta discesa negli inferi dell’infanzia abusata, che cercano nella solitudine una via di fuga alla paura (E se chiedete ecco cosa dirò / che non è affar vostro comunque / Penso che mi piacerebbe star da solo / Con niente di rotto).
Se con l’omonimo esordio del 1985 il mondo si era accorto di questa delicata songwriter, capace di toccare le corde dell’anima con il suo folk gentile e le sue parole potenti, Solitude Standing definisce per sempre la cifra stilistica della Vega, una delle interpreti più coraggiose e sincere del movimento neo folk, insensibile alle lusinghe del rock business, capace di plasmare con modernità la materia, continuando a mantenere lo sguardo lucido sulla società e sul mondo interiore dei sentimenti.
Una carriera punteggiata da canzoni che evitano la logica frusta del binomio cuore/amore, cliche’ di tanto inutile cantautorato, ma che sanno indagare senza filtri nell’animo umano, suggerendo alle coscienze che, oltre a Luka, nella vita c’è tanto dolore, personale e universale, e che il mondo degli ultimi è, purtroppo, il più popolato.





Blackswan, mercoledì 10/06/2020

martedì 9 giugno 2020

VANJA SKY - WOMAN NAMED TROUBLE (Ruf Records, 2020)

L’etichetta tedesca Ruf Records è ormai da ventisei anni sinonimo di qualità. Dalle sue scuderie sono usciti artisti e dichi che hanno fatto la storia più recente del rock blues. Parlo di personaggi sulla cresta dell’onda come Samantha Fish, Ana Popovic, Eric Bibb o Sue Foley, solo per citare i nomi più noti.
Tra le ultime scoperte in ordine di tempo del patron Thomas Ruf c’è Vanja Sky, salita alla ribalta due anni fa con il bellissimo disco d’esordio Bad Penny.  Questa ragazza con la chitarra a tracolla e il cuore votato al verbo rock blues arriva dalla Croazia, nello specifico da Buzet, e ha iniziato a suonare la chitarra solo sette anni fa, dopo aver assistito a un concerto in un locale di musica dal vivo vicino alla sua città natale. Così inizia la storia artistica di Vanja che, dopo quella sera, ordinò una chitarra economica su internet, iniziò a prendere lezioni, e quindi abbandonò il suo lavoro di pasticciera per dedicarsi alla musica.
Circa due anni dopo, Vanja se ne andò di casa per unirsi a una rock band che era di stanza a Zagabria. Concerti in Serbia, Slovenia, Germania e nella sua nativa Croazia le hanno permesso di affinare le abilità sia come cantante che come chitarrista.
Poi, nel 2017, più veloce di quanto avrebbe potuto immaginare, la Sky è già in studio per registrare il suo disco d’esordio con alcuni dei più grandi nomi della scena blues. La sua carriera da professionista inizia, dunque, ai Bessie Blues Studios di Stantonville, nel Tennessee, la “casa” del produttore vincitore del Grammy, Jim Gaines. Lì, ha registrato per primo il frizzante road blues Low Down and Dirty di Luther Allison insieme ai chitarristi Mike Zito e Bernard Allison.
Per Zito, una delle figure più autorevoli del rock blues contemporaneo, è stato amore a primo ascolto: ha prodotto il disco Bad Penny, vi ha suonato la chitarra ritmica, e ha affiancato a Vanja un gruppo di abili sessionisti per registrare altri undici brani.
Quell’esordio era grezzo e potente, si percepivano tutti i limiti di questa giovane ragazza ma anche qualità come l’entusiasmo, la passione e una verace urgenza.
Woman Named Trouble è stato registrato in Germania insieme a un gruppo di ottimi musicisti locali ed è stato prodotto da Roger Inniss, che ha anche suonato alcune parti di basso. Rispetto al precedente, questo sophomore è decisamente meglio confezionato, curato nei dettagli e arrangiato e suonato decisamente meglio. Ne guadagnano il quadro d’insieme e l’appeal di una musicista che ha evidentemente fatto passi da gigante sotto il profilo della tecnica, ne perdono, invece, l’immediatezza e la veracità, che erano le frecce più acuminate dell’arco della giovane croata.
Il disco, però, pur nella sua prevedibilità, è molto buono, più virato al rock che al blues, come testimonia l’uno due iniziale (Rock’n’Rolla Train e Hard Times), graffiante campionario di riff stonesiani.
La Sky ha oggi acquisito una sicurezza che agli esordi mancava e gestisce alla perfezione il tiro diretto e scorbutico di rock blues grezzi e rumorosi (Voodoo Mama), ballate acustiche che distillano roots americano e melodia (Call Me If You Need e What’s Going On), tirate adrenaliniche al limite dell’hard rock zeppeliniano (Oh Well) e la consueta cover dal repertorio di Rory Gallagher, vero padre putativo per la Sky, qui omaggiato con un gran bella versione dell’incandescente Shadow Play.  
Woman Named Trouble è forse un disco meno arrembante e più di maniera del suo predecessore, ma resta comunque un bell’esempio di come sia possibile maneggiare con intelligenza una materia risaputa. Vanja Sky, poi, è quasi una neofita, a cui perdoniamo volentieri tutti i difetti della giovane età artistica. Il talento c’è, però, e questa è la cosa più importante.

VOTO: 7





Blackswan, martedì 09/06/2020