Davanti
a casa, a Spanish Harlem, quartiere “difficile” di New York, dove la
giovane Suzanne si è trasferita coi genitori dalla California, ci sono
sempre dei bambini che giocano. Fanno chiasso, come è ovvio che sia,
provano lo skateboard, tirano calci a una lattina, si scambiano figurine
dei giocatori di baseball. Sono allegri e si divertono un mondo,
nonostante tutto intorno sia degrado, povertà e violenza. E’ la
spensieratezza dell’infanzia, quell’età inconsapevole alle storture del
mondo, popolata da bizzarre fantasie e da piccole esaltanti scoperte.
C’è
un bambino, però, che se ne sta in disparte, solitario, gli occhi
tristi, appena velati di lacrime. Suzanne lo vede spesso, e si chiede
chi sia quel ragazzino che guarda nel vuoto, che talvolta parla tra sé e
sé, come fosse avulso dalla realtà circostante, come se quella strada,
quegli amici, quelle ore di svago appartenessero a un universo
parallelo.
Quel
bambino, che ha toccato nel profondo l’animo di Suzanne, che l’ha
costretta a riflettere sulla vita e a porsi domande prima del tempo,
qualche anno dopo avrà un nome: si chiamerà Luka e sarà il protagonista
di una bellissima canzone, una hit da milioni di ascolti che compenserà
in eterno l’ingiustizia di quello sguardo triste, di quel dolore
nascosto in una feroce solitudine.
“Mi chiamo Luka, vivo al secondo piano, vivo sopra di voi, si, penso che mi abbiate visto prima”. Inizia così uno dei brani di punta di Solitude Standing,
secondo disco e clamoroso successo internazionale di Suzanne Vega, una
giovane cantautrice folk/pop che si inserisce nella grande tradizione
del cantautorato femminile (quella che ha come capostipite Joni
Mitchell) a fianco ad altre straordinarie artiste del momento, come
Tracy Chapman e Shawn Colvin.
Memore
di quel ricordo d’infanzia, la Vega scrive una canzone dolorosissima,
che affronta il tema difficile degli abusi sui minori. Una hit che
ascoltano tutti e tutti cantano, magari sotto la doccia; una canzone,
però, capace di risvegliare le coscienze, di mettere il dito nella piaga
e sensibilizzare l’opinione pubblica su un problema troppo spesso
taciuto. Una forma nobile d’arte, la canzone popolare che si fa veicolo
di denuncia, che costringe a pensare a quei bambini che, come Luka,
vivono un incubo, una lenta discesa negli inferi dell’infanzia abusata,
che cercano nella solitudine una via di fuga alla paura (E se chiedete ecco cosa dirò / che non è affar vostro comunque / Penso che mi piacerebbe star da solo / Con niente di rotto).
Se
con l’omonimo esordio del 1985 il mondo si era accorto di questa
delicata songwriter, capace di toccare le corde dell’anima con il suo
folk gentile e le sue parole potenti, Solitude Standing
definisce per sempre la cifra stilistica della Vega, una delle
interpreti più coraggiose e sincere del movimento neo folk, insensibile
alle lusinghe del rock business, capace di plasmare con modernità la
materia, continuando a mantenere lo sguardo lucido sulla società e sul
mondo interiore dei sentimenti.
Una
carriera punteggiata da canzoni che evitano la logica frusta del
binomio cuore/amore, cliche’ di tanto inutile cantautorato, ma che sanno
indagare senza filtri nell’animo umano, suggerendo alle coscienze che,
oltre a Luka, nella vita c’è tanto dolore, personale e universale, e che
il mondo degli ultimi è, purtroppo, il più popolato.
Blackswan, mercoledì 10/06/2020
3 commenti:
E' una canzone che mi piaceva quando non conoscevo l'inglese, una canzone che ho ulteriormente rivalutato capendola, quando le parole hanno cominciato a insinuarmi un enorme magone in gola.
Ma non conoscevo il retroscena di Luka, quindi ti ringrazio di averne parlato!
Questo è un brano spettacolare, sia come costruzione che come testo. L ho sempre eseguita con la mia band e continuerò a farlo. Meritatissima.
@ Babol: La bellezza di questa canzone sta proprio nel nascondere un dramma dietro un impianto melodico perfetto. Grazie a te, Babol. :)
@ Stefanover: Un pezzo semplicemente fantastico. Come molti della Vega di quel periodo. :)
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