mercoledì 31 marzo 2021

LANA DEL REY - CHEMTRAILS OVER THE COUNTRY CLUB (Polydor, 2021)

 


Dopo quasi un ventennio di carriera alle spalle, Lana Del Rey, disco dopo disco, ha messo a tacere i tanti detrattori, quelli che, anche con ingiustificata insistenza, l’hanno sempre considerata solo un fenomeno mediatico, una lolita priva di talento, buona per le pagine patinate di qualche rivistucola di gossip. La trentacinquenne artista newyorkese, invece, si è costruita una carriera in crescendo, sfornando album di gran classe, definendo uno stile immediatamente riconoscibile e ritagliandosi un posto di prima importanza nell’attuale panorama pop.

Etereo, fluttuante e atmosferico, il nuovo Chemtrails Over The Country Club è un disco fortemente nostalgico, che sviluppa in ogni canzone linee melodiche ariose e rigogliose armonie. Non ci sono artifici, però, nessuna costruzione complessa, ma un impianto espressivo, semmai, centrato sulla semplicità, lineare e diretto. Il disco si apre con White Dress, terzo singolo tratto dall’album, in cui Lana Del Rey dimostra di saper estrarre dalle sue potenti note basse un delizioso falsetto che sembra quasi evaporare nell’aria circostante, mentre il tono delicato, a tratti quasi afono, della voce, conferisce alla traccia una vulnerabilità che ne esalta la profondità e il pathos emotivo. Una canzone fortemente malinconica, che scivola in punta di dita su un pianoforte, evocando l’intensità espressiva di Cat Power, e raccontando i giorni lontani, in cui Lana, vestita di bianco, lavorava come cameriera a Orlando, Florida.

Non un inizio messo lì a caso. Anche in Chemtrails, infatti, il songwriting della Del Rey è come uno sguardo costantemente rivolto al passato, una peculiarità che da sempre, dagli esordi di Video Games, ha contraddistinto la sua sensibilità artistica sottilmente anacronistica. Tutto il disco è avvolto da diafane trame nostalgiche, in una sorta di ricerca del tempo perduto e irrecuperabile, in un continuo chiedersi quale sia il valore della propria arte e dove risieda la felicità, nella spensieratezza degli esordi o nell’eco mediatico della notorietà.  

Il tema della fama, una sorta di uomo nero che ruba il sonno e la pace, ritorna in Dark But Just A Game, in cui la voce morbidissima di Lana si appoggia su languidi arpeggi di dodici corde, e nei turbamenti del folk sommesso di Wild At Heart, amara riflessione sul tragico destino di molte star (il riferimento a Lady Diana è esplicito nel verso: “The cameras have flashes, they cause the car crashes”).

A fianco della Del Rey, opera nuovamente Jack Antonoff, che aveva co-prodotto Norman Fucking Rockwell, e la magia di quello strabiliante disco in qualche modo rivive anche qui, grazie alla peculiarità con cui il produttore dà spazio e sostanza alla splendida voce della cantante newyorkese. Quando il lavoro in tandem funziona, le atmosfere e le melodie riescono davvero a sorprendere, come una sorta di avvincente incantesimo, tanto che si può perdonare persino un momento un po' risaputo e sonnolento (Not All Who Wander Are Lost). Il resto, però, possiede un fascino irresistibile, e si ha la sensazione di fluttuare in un cosmo senza tempo, in cui il passato si confonde nel presente, in cui la modernità ha il sapore buono di cose antiche, di ricordi imprescindibili che fanno di questo disco una musica senza età, che si può collocare ovunque, senza che Chemtrails perda un grammo del suo incorporeo fascino.  

E’ questo, probabilmente, il motivo che ha spinto la Del Rey a chiosare l’album con una cover di For Free di Joni Mitchell (la canzone proviene dall'LP del 1970 di Mitchell Ladies of the Canyon): un rischio calcolato (la reinterpretazione è appassionata e rispettosa) che amplifica l’indeterminatezza temporale di cui è avvolta la scaletta e suggerisce un fil rouge tra anime affini, che, a distanza di mezzo secolo l’una dall’altra, si scoprono fragili di fronte alla caducità dell’arte e alle distorsioni della fama.

Il finale perfetto per un disco ipnotico, fascinoso e ricco di consapevolezza e toccanti riflessioni. Per un artista non è semplice bilanciare freschezza espressiva e coerenza stilistica, scartare l’autoreferenzialità e dimostrarsi credibile, senza essere ripetitivo. In tal senso, Lana Del Rey dimostra per l’ennesima volta di aver trovato una propria solida dimensione artistica e una chiave di lettura che, nella sua disarmante semplicità, non smette di essere avvincente, progredendo di disco in disco.

VOTO: 8




Blackswan, mercoledì 31/03/2021

martedì 30 marzo 2021

THOUSANDS ARE SAILING - THE POGUES (Pogue Mahone, 1988)

 


Guidati dall’estro alcolico del cantante e songwriter Shane MacGowan, gli irlandesi Pogues strattonano la tradizione spingendo forte su un’innata attitudine punk rock, e, almeno per un decennio, quello degli anni ’80, si guadagnano la palma di migliori interpreti del genere. Il capolavoro, dopo due album e un Ep, tutti di livello altissimo, arriva nel 1988, quando la band, arruolato il polistrumentista folk Terry Woods, pubblica If I Should Fall From Grace With God. Il disco, prodotto dall’asso Steve Lillywhite, è permeato da uno sgangherato clima cosmopolita, vira più decisamente verso il rock e  verso un’inedita varietà stilistica, inzuppa con dosi massicce di whisky il consueto orgoglio irlandese (Streets Of Sorrow/Birmingham Six), ammicca al medio oriente (Turkish Song Of The Damned), gioca con suoni mariachi, in polemica con Elvis Costello, colpevole di essersi sposato l’ex bassista Cait O’Riordan (Fiesta) e abbraccia idealmente tutti i diseredati del mondo con la toccante favola stracciona di Fairytale Of New York.

In una scaletta senza cedimenti, tra canzoni destinate alla leggenda, spunta anche Thousands Are Sailing scritta dal chitarrista Philip Chevron, classico brano minore, che in realtà si rivela tra le cose migliori mai pubblicate dalla band. Una canzone dai forti accenti folk rock, strapazzata dalla voce etilica di Shane MacGowan e pervasa da un sanguigno orgoglio nazionalista.

Dai potenti connotati epici, Thousands Are Sailing è, infatti, un brano che parla di immigrazione, del dolore di allontanarsi da casa in cerca di fortuna, del sudore e del sangue spesi per trovare una nuova collocazione in terra straniera, dei perigli e dell’esito esiziale di tanti viaggi affrontati per giungere in America, vera e propria terra promessa per tanti irlandesi. Un canzone che non è solo una canzone, ma una pagina dolorosa della storia d’Irlanda, un omaggio a coloro che hanno lasciato tutto nella speranza di un futuro migliore e che spesso, troppo spesso, hanno trovato, invece, solo la morte.

Thousands Are Sailing è, quindi, la voce di una nazione che riflette sul proprio passato, è il lamento universale di chi ha perso i propri affetti più cari e abbandonato l’amata patria, è la restitutio ad integrum di un’identità nazionale smarrita e di un orgoglio ferito, è la storia di tanti uomini dai volti sconosciuti, che ora dimorano, dimenticati, nei cupi abissi dell’Oceano.

La meta della migrazione è ovviamente l’America: “L'isola è silenziosa adesso, ma i fantasmi perseguitano ancora le onde. E la torcia accende un uomo affamato, che la fortuna non poteva salvare”. Un verso epico, i cui riferimenti storici sono palesi. La torcia, che evoca la Statua della Libertà e, soprattutto, l’isola, che è la Ellis Island del porto di New York, la più trafficata stazione di ispezione per immigrati degli Stati Uniti, dove, tra il 1892 e il 1924, furono schedati e processati circa dodici milioni di immigrati.

Cristallizzato il momento storico, il testo si sofferma sulla sorte degli immigrati, disposti a tutto pur di sbarcare il lunario, spesso costretti a lavori umili e spossanti o arruolati nelle forze dell’ordine (“Hai lavorato alla ferrovia? Hai liberato le strade dal crimine?”). Il dolore e la nostalgia di casa, però, sono una costante e non lasciano scampo, quando il pungolo ritorna, dolce amaro, insieme al ritornello di quelle canzoni legate indissolubilmente all’Irlanda (“Le vecchie canzoni ti facevano ancora piangere?Hai contato i mesi e gli anni o le tue lacrime si sono asciugate rapidamente?”).

Molti ce l’hanno fatta, sono riusciti a cambiare la propria vita e a regalarsi un futuro migliore, in cui la fame e la povertà sono solo un lontano ricordo. Ma molti, a migliaia, sono morti durante la navigazione, dispersi nelle acque gelide dell’oceano, volti cancellati dal tempo, storie di speranze frustrate e di morti premature. E’ uno di questi morti, un fantasma, a prendere la parola, facendosi portavoce per tante vite spezzate: “Su una nave bara sono venuto qui, e non sono mai arrivato così lontano“. E Ancora: “Migliaia stanno navigando, dall'altra parte dell'oceano occidentale verso una terra di opportunità, che alcuni di loro non vedranno mai”.Il fantasma, colui che racconta, è uno dei tanti dispersi in mare o morto durante la navigazione su questa navi, chiamate navi-bara. Ricostruzioni storiche hanno documentato che il tasso di mortalità durante questi viaggi era addirittura del 30%: uno su tre non ce la faceva.

La canzone, quindi, prende una risolutiva svolta temporale e la narrazione si sposta in tempi più recenti, evidenziati dai tanti riferimenti contenuti nel testo (JFK, Brendan Behan, etc). Cosa è cambiato? L’immigrazione resta una costante, ma adesso il protagonista della canzone vive in condizioni migliori e soprattutto non ha dovuto affrontare un viaggio pericolosissimo per arrivare in America. Non è però tutto rose e fiori. Il protagonista è, infatti, un immigrato clandestino: l'Immigration Reform and Control Act, datato 1986, impose, infatti, delle vere e proprie quote per gli immigrati irlandesi, assegnando "carte verdi" tramite un sistema di lotteria (“la mano dell’opportunità estrae biglietti in una lotteria”). Chi parla, adesso, è quindi un immigrato clandestino, che non è riuscito ad ottenere la green card. Un uomo devastato dalla nostalgia (“Quando sono tornato nella mia stanza vuota, suppongo di aver pianto”), che vive nascosto per non essere catturato ed espulso (“dalle stanze la luce del giorno non vede mai”).

I versi finali sono tutti dedicati alla terra natia, descrivono il carattere e lo spirito degli irlandesi, che affrontano un destino infame con il sorriso sulle labbra (“dove andiamo festeggiamo, la terra che ci rende profughi”) e tirano una feroce stoccata alla Chiesa Cattolica, uno dei motivi che spinge tanti a scappare da casa (“Dalla paura dei preti con i piatti vuoti, dal senso di colpa e dalle effigi piangenti”). Una canzone tragica, dolorosa, che mette il dito nella piaga dell’immigrazione, raccontata dal punto di vista di chi ha provato il pane duro della miseria, l’umiliazione, il dolore delle privazioni, la speranza di una vita migliore, spesso vanificata. Una canzone, però, che si chiude con un filo di speranza, perché quegli uomini, vilipesi, frustrati e oltraggiati, hanno ancora la forza di sorridere e tirare avanti: “Still we dance to the music, and we dance”. Siamo irlandesi, non ci arrendiamo, noi balliamo sulla nostra miseria.

 


 

 

Blackswan, martedì 30/03/2021

lunedì 29 marzo 2021

AUSTIN MEADE - BLACK SHEEP (Snakefarm Records, 2021)

 


Pressoché sconosciuto alle nostre latitudini, il songwriter texano Austin Meade ha alle spalle una militanza come batterista nella noise band dei johnboy e, dopo aver imparato a suonare la chitarra, ha dato vita a una carriera solista, che lo vede oggi pubblicare il suo sesto album in studio. In realtà, la vita di Meade aveva preso ben altro indirizzo, visto che famiglia l’aveva spinto a iscriversi all’università per seguire un corso di economia. Austin ha così conseguito una laurea, che lui stesso definisce come inutile, ma non ha mai mollato il suo sogno di diventare musicista a tutto tondo.

Cosa che, ad ascoltare questo nuovo Black Sheep, gli è riuscita molto bene. Siamo lontani dal suono tradizionale texano, e in tal senso Meade è un musicista che, pur conoscendo le radici, è uscito dalla comfort zone di quella musica masticata fin da ragazzino, per seguire la propria strada fatta di diverse influenze, che spaziano dal pop agli amati Black Sabbath.

Senza spingersi in territori metal, Meade riesce a bilanciare, in queste dodici splendide canzoni, un istintivo gusto per la melodia con la vibrante intensità di un approccio rockista. Ecco, allora, che alcuni ganci melodici dal sapore quasi radiofonico vengono scartavetrati dall’irruenza di chitarre sempre pronte a graffiare. Gli arrangiamenti semplici, non scarni ma decisamente asciutti, danno slancio a questi brani che filano diritti per la strada della ballata elettrica, vero filo conduttore dell’album.

Certo, l’inizio e la fine del disco sono schegge impazzite in un contesto decisamente più omogeneo: l’opener Dopamine Drop è un hard blues pestato e cattivo, retaggio del passato noise del songwriter, mentre l’inquieta title track chiude il disco con atmosfere cupe che deragliano in un ritornello percosso da feroci sportellate elettriche.

In mezzo, dicevamo, tante ballate in cui l’equilibrio fra elettricità e melodia è davvero inusuale. Dallo sfarfallio indie pop di Cave In all’innodica Happier Alone, messaggio di speranza in questi giorni bui, dalla volatile leggerezza di Settle Down alla più cupa riflessione di Deja Vù, brano che parla dei giorni del lockdown passati a fare sempre le stesse cose, Meade sfodera un songwriting calibrato e incisivo, che sfoggia con orgoglio un suono americano al 100%, pur riuscendo nell’intento di comunicare ad una fetta di pubblico più ampia. Merito di quelle chitarre, spesso sferraglianti, che trasformano melodie uncinanti in un personalissimo, e al contempo universale, abbecedario rock.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, lunedì 29/03/2021

venerdì 26 marzo 2021

MOONSPELL - HERMITAGE (Napalm Records, 2021)

 


Giunti al tredicesimo album in 25 anni, i pionieri del goth metal portoghese hanno ancora la forza e l’ispirazione di scartare dall’ovvio, mantenendo così il loro suono ricco, elegante ed eclettico, rinnovandolo di album in album, e a volte, come succede nel nuovo Hermitage, di canzone in canzone.

Questo è senza dubbio un approccio che protegge la loro musica dalla stagnazione e dalla ripetitività, ma, per converso, ad ogni deviazione dal seminato, c'è sempre una fila di ascoltatori apparentemente sconcertati perché una nuova canzone non suona come suonava nell’album precedente.

E’ inevitabile che ciò avvenga, ad esempio, con l'opener minaccioso The Greater Good, che punta su trame sonore più morbide e su quelle voci pulite in gran parte assenti da 1755, concept album datato 2017 e dedicato al terremoto di Lisbona dell’anno citato nel titolo, le cui atmosfere erano decisamente più estreme e drammatiche.

Hermitage, invece, fin da subito si manifesta come un lavoro più opaco, enigmatico e riflessivo, dai risvolti sensibili e profondi (lo sguardo è inevitabilmente volto ai giorni della pandemia) ma comunque capace, all’occorrenza, di ferire i padiglioni auricolari con feroce brutalità, scartavetrando melodie malinconiche e placida quiete con gelidi riff metallici.

Verrebbe da dire, ad un primo ascolto, che i Moonspell si siano trasformati nei Pink Floyd del metallo, ma in realtà, in virtù di ciò che si diceva prima, i Moonspell sono e restano i Moonspell. Il quintetto per anni ha flirtato con dinamiche prog rock e con il dualismo luce e ombra, armonia e dissonanza. In Hermitage, semplicemente, queste caratteristiche trovano la loro realizzazione più completa, come appare evidente nell’acustica morbida e nebbiosa e nei languori meditabondi di brani come All Or Nothing e Solitarian, e nel mellotron che avvolge di malinconica bellezza Entitlement.

Non mancano certo momenti che mettono in chiaro che stiamo comunque ascoltando un disco metal, come accade nella drammatica The Hermit Saints, il cui violento riff dark spinge il cantato rabbioso di Fernando Ribeiro con l’intensità di un vento che flagella con violenza tutto ciò che incontra.

Hermitage è dunque questo: un disco in cui furia metallica e costruzione progressive sono abilmente bilanciate in un’alchimia sonora di cui il combo portoghese da tempo è maestro. Se vi piace il genere, non lasciatevelo sfuggire.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, venerdì 26/03/2021

giovedì 25 marzo 2021

PREVIEW

 


black midi annunciano Cavalcade, il nuovo album in uscita il 28 maggio su Rough Trade, e svelano il video del singolo “John L.” Cavalcade è il seguito di Schlagenheim del 2019 e scala nuove e meravigliose vette attingendo da una pletora di generi e influenze. I black midi -- Geordie Greep (chitarra, voce principale), Cameron Picton (basso, voce), and Morgan Simpson (batteria) -- immaginano Cavalcade come una serie di personaggi, da un leader di un culto decaduto a un antico cadavere ritrovato in una miniera di diamanti alla leggendaria cantante di cabaret Marlene Dietrich. “Quando ascolti, puoi immaginarti tutti i personaggi formare una sorta di cavalcata. Ognuno racconta la propria storia e al termine di ogni traccia ti sorpassa, sostituito dal successivo.” commenta Picton.

La storia raccontata nel video della traccia di apertura dell’album “John L,” è una commedia nera su ciò che accade ai leader di una setta quando i loro seguaci si scagliano contro di loro. Il video è stato diretto dalla coreografa Nina McNeely, nota per il suo lavoro in “Sledgehammer” di Rihanna e Climax di Gaspar Noe.

Le basi per Cavalcade sono state gettate nel 2019, ma con questo album c’era il desiderio di registrare qualcosa che fosse armonicamente più interessante e stimolante.  È facile lasciarsi avvolgere dal mito dell’improvvisazione dell’intervento divino, che se una canzone non accade naturalmente nella stanza senza essere guidata da qualcuno in particolare, allora non è pura,dice Greep."È una cosa un po’ pericolosa perché finisci per non provare mai qualcosa di diverso, o semplicemente abbandoni un'idea se all'inizio non funziona perché aspetti sempre che quella cosa arrivi perfetta.

Con questo nuovo approccio in mente, metà di Cavalcade è stato scritto dai singoli membri a casa e messo a punto durante le prove.

Dopo aver registrato “John L” con la produttrice Marta Salogni a Londra, la band si è ritrovata nell’estate 2020 agli Hellfire Studios, sulle montagne di Dublino, sotto la guida di John Spud’ Murphy. Geordie commenta: “Ha funzionato molto bene con John. Volevamo un suono naturale e aperto combinato con suoni in grado rompere la quarta dimensione. Hai presente quando su disco senti lo stridore del nastro, quelle cose che ti fanno capire che stai ascoltando una registrazione? In molti album o ascolti un suono straordinario o un album lo-fi pieno di effetti folli. E ho pensato, ‘’Perché non fare un album che combini le due cose?’ Questa era una delle idee principali e John ne era entusiasta.

Con il chitarrista/cantante originale Matt Kwasniewski-Kelvin lontano dal gruppo per concentrarsi sulla sua salute mentale, i black midi hanno deciso di espandere il loro suono in Cavalcade, invece di replicarlo, con il sassofonista Kaidi Akinnibi e il tastierista Seth Evans.

The Times (UK) ha definito i black midi la band più eccitante del 2019e Schlagenheim è stato inserito da New York Times, Pitchfork, Stereogum, SPIN e altri nelle classifiche dei migliori album del 2019.

 


 

Blackswan, giovedì 25/03/2021

mercoledì 24 marzo 2021

HOWARD OWEN - OREGON HILL (NN Editore, 2020)

 


Willie Black è un giornalista vecchio stampo, ama il suo lavoro ed è mosso da un senso di giustizia che è quasi il retaggio di un'altra epoca. Per contro, beve troppo, e il suo carattere ruvido e schietto, poco incline al compromesso, non lo aiuta: infatti, dopo una lunga carriera nella cronaca politica del quotidiano dove lavora, Willie viene retrocesso alla nera, l'ultima sponda prima del licenziamento. Quando il cadavere di una studentessa viene ritrovato senza testa nelle acque del South Anna, la polizia archivia il caso appena il danzato confessa; ma Willie è convinto che dietro quel delitto si nasconda un colpevole ben più insospettabile. Così, intraprende un'inesorabile crociata a Oregon Hill, quartiere storico della città di Richmond in Virginia, dove è costretto a farsi strada in un clima di razzismo, corruzione e menzogne, alla ricerca della verità a ogni costo. "Oregon Hill" è più di una crime story, e rende omaggio al genere senza togliere l'anima ai personaggi, all'ambientazione, alle sfumature dei caratteri. E Willie Black si rivela un perfetto anti-detective noir, autoironico e impacciato, sempre disposto a sfidare le convenzioni pur di non rinunciare alla sua limpida umanità.

Il corpo di una ragazza decapitata, la testa recapitata al padre in un pacco, il fidanzato, subito arrestato, che confessa, la polizia che archivia velocemente il caso. Qualcosa, però, non torna, e Willie Black, reporter di cronaca nera, stanco e disilluso, che flirta con la bottiglia, ha tre matrimoni alle spalle, una figlia che vede poco, una madre strafatta di canne, un patrigno che si arrampica sui tetti e un amico pellerossa con cui divide il tetto, inizia a indagare. Perché è spinto dal desiderio di giustizia, e perché ama fare il giornalista, anche se, buttarsi a capofitto in questa storia, potrebbe costargli il posto e, forse, la vita.

Oregon Hill (il titolo si riferisce al quartiere popolare di Richmond che fa da sfondo alla narrazione) è un giallo classico, che rifugge l’azione e l’adrenalina, e sceglie la strada dell’indagine e della deduzione per giungere alla scoperta di una verità che affonda le sue radici nel passato.

La scrittura di Owen, così dinamica e ironica, non si concentra, però, solo sulla trama noir, ma si ritaglia un ampio spazio di critica sociale, mettendo alla berlina l’alta borghesia di Richmond, classista, ipocrita e razzista, e schierandosi, invece, con quel ceto medio agonizzante e senza prospettiva, di cui il protagonista Willie Black fa parte.

Il romanzo, inoltre, è anche un omaggio al giornalismo d’inchiesta, alla forza e alla pertinacia di chi mette a rischio tutto pur di raccontare la verità dei fatti. Willie Black è un eroe antieroe, beve smodatamente, fuma come un ciminiera, non si fa scrupoli a portarsi a letto giovani colleghe, ma possiede un’etica superiore. E’ un personaggio fragile, contraddittorio, schiavo dei propri vizi, eppure ancora libero di scegliere, di provare e di fallire. In un mondo come quello del giornalismo, piegato ai dictat dell’editore di riferimento e fagocitato dal progresso tecnologico che sta spazzando via la carta stampata, Willie rischia il lavoro e la vita alla ricerca di ciò che per tutti ormai è un risibile orpello: la giustizia. Sotto le mentite spoglie del thriller, questo è un romanzo con un’anima politica e di grande impegno civile. Leggetelo: vi divertirete, vi appassionerete, e soprattutto, quel che più conto, vi troverete a riflettere. Perché la verità rende liberi, costi quel che costi.

Blackswan, mercoledì 24/03/2021

martedì 23 marzo 2021

UNRULY CHILD - OUR GLASS HOUSE (Frontiers, 2020)

 


Quando, nel 1992, gli Unruly Child arrivarono sul mercato, il movimento AOR aveva già vissuto la sua stagione migliore, ed era stritolato, ormai, dalla morsa letale delle sonorità provenienti da Seattle. Un inizio in sordina, una navigazione a vista, con un paio d’album pubblicati in quel decennio, e poi, tra iati e cambi di line up, altri due nel nuovo millennio, fino all’assestamento definitivo avvenuto nel 2010 con Marcie Free (voce), Bruce Gowdy (chitarra), Guy Allison(tastiere), Jay Schellen (batteria) e Larry Antonino (basso).

Da questo momento, inizia per gli Unruly Child una seconda, e più convincete, parte di carriera, con cinque dischi pubblicati in dieci anni, uno sguardo tenacemente rivolto agli anni d’oro dell’Aor e la capacità di ritagliarsi uno spazio importante nel movimento con canzoni di rock melodico eleganti e di gran classe.

Il nuovo Our Glass House è il naturale successore di Big Blue World del 2019, un disco che continua a rivisitare l’AOR degli anni '80, mantenendo integri quegli elementi distintivi che mandano in sollucchero i fan della prima ora, riuscendo però anche ad arricchire e modernizzare la proposta per adattarla quel tanto che basta ai gusti e al suono di questi anni. Ne consegue che la maggior parte dei brani risultano al contempo filologicamente corretti e stilisticamente audaci, grazie ad arrangiamenti meno prevedibili di quanto ci si sarebbe potuto aspettare.

L’album parte alla grande con il singolo Poison Ivy, gagliardo opener che rimarca lo stile inconfondibile della band, grazie a quel riff di chitarra così famigliare e così dannatamente intrigante. Se Say What You Want deraglia, sgommando, in confini più contigui all’ hard rock, la sognante Glass House getta sul piatto la carta vincente di splendide armonie ad alto impatto emotivo, levigate dalla voce di Mark Free, che nonostante la veneranda età (sono sessantasette ad aprile), non ha perso un briciolo dello smalto del tempo.

Una scaletta che cresce di canzone in canzone: Everyone Loves You Whan Your Dead è una di quelle grandi canzoni rock a cui basta un gancio melodico memorabile per colpire nel segno, così come le suntuose Freedom Is A Fight (un brano che riflette sulle certezze della gioventù che si sgretolano con l’età adulta) e l’impetuosa The Wooden Monster, due episodi così generosamente orecchiabili, che in un mondo più giusto intaserebbero l’airplay radiofonico di mezzo mondo senza soluzione di continuità.

Se questo è il genere che amate, probabilmente già conoscete la caratura di questa band e saprete esattamente cosa aspettarvi da Our Glass House. A tutti gli altri, consiglierei di farsi un giro sulla giostra degli Unruly Child: male, di certo, non fa, e magari potreste perdere la testa per un gruppo che mastica il vecchio Aor con autorevolezza e modernità invidiabili.

VOTO: 7,5

 


 

Blackswan, martedì 23/03/2021


lunedì 22 marzo 2021

AMERICA - SIMON & GARFUNKEL (Columbia, 1968)

 


America, paese delle possibilità e delle speranze, El Dorado che premia tutti coloro che sono dotati di risolutezza, coraggio e spirito di sacrificio. Quanta letteratura, quanti film e quante canzoni sono state realizzate per raccontare l’American Dream? Un’infinità. E quante, per converso, hanno raccontato la fine di quell’utopia, sgretolatasi davanti alle contraddizioni di un paese che non fa sconti e che punisce con ferocia i suoi figli più deboli? Direi, altrettante.

E’ questo, ad esempio, il tema affrontato da Paul Simon nella sua celeberrima America, brano che compare in Bookends, disco a firma Simon & Garfunkel datato 1968, e poi, ancora, lanciato come singolo per accompagnare la pubblicazione di Simon And Garfunkel Greatest Hits nel 1972.

La canzone racconta il viaggio di una coppia attraverso le strade d’America, allo scopo di visitarla e di coglierne la vera essenza. Ma se la partenza è piena di entusiasmo, di leggerezza e di speranza, alla fine ciò che rimane alla coppia è un invasivo senso di frustrazione e di tristezza, che nasce dalla presa di coscienza che il sogno americano non è altro che un’illusione. Un significato metaforico inserito in una narrazione dai connotati quasi cinematografici, in cui il protagonista, che aveva idealizzato l’America, si rende conto che il paese dei suoi sogni non esiste, che quella bellezza, anche fisica, e i grandi ideali sono in realtà solo una chimera.

La metafora, tuttavia, è figlia di un’esperienza di vita, che riguarda molto da vicino Paul Simon. Perché i due ragazzi della canzone non sono personaggi inventati, ma persone reali. Lui è proprio il musicista americano, mentre lei, la Kathy citata nel testo, è Kathy Chitty, il primo grande amore di Paul Simon.

I due si conobbero nel 1964 in un folk club di Brentwood, nell’Essex, in cui Kathy, allora ventiduenne, faceva la bigliettaia, e Paul, poco più grande, suonava. I due s’innamorano perdutamente e organizzarono quel viaggio, così magistralmente raccontato nella canzone. Poi, tornarono in Inghilterra, dove anche Simon viveva; ma quando quest’ultimo, vincolato da numerosi impegni artistici, fu costretto a tornare negli States, Kathy, che era una ragazza semplice e di umili origini, per niente attratta dal rutilante mondo dello show business, si rifiutò di seguirlo, interrompendo di fatto la loro storia d’amore.

E’ questo, dunque, il senso più profondo della canzone: per inseguire il suo american dream, il sogno di diventare star, Paul rinunciò a quello che forse fu il più grande amore della sua vita. La fama, il successo e il denaro sono solo illusioni se, per ottenerle, si uccidono i più profondi sentimenti: “Kathy, mi sono perso, ho detto, anche se sapevo che stava dormendo. Sono vuoto e dolorante e non so perché”.

Un amore, quello per Kathy, che fu per Paul fonte di grande ispirazione. E’ lei, infatti, la protagonista femminile di Homeward Bound (“Home where my love lies waitin' Silently for me”), a lei è dedicata la dolcissima Kathy’s Song, è lei che compare sulla copertina di Paul Simon Songbook, primo album solista del cantautore di Newark, pubblicato nel 1965.

 


 

 

Blackswan, lunedì 22/03/2021

venerdì 19 marzo 2021

RICKY WARWICK - WHEN LIFE WAS HARD AND FAST (Nuclear Blast, 2021)

 


Ai tanti detrattori che sostengono che il rock è morto o, nella migliore delle ipotesi, sia ormai una forma d’arte passatista e al collasso, basterebbe rispondere mettendo sul piatto l’ultima fatica solista di Ricky Warwick.  

Figura di spicco del movimento hard rock a partire dalla fine degli anni '80, prima con il gruppo di Glasgow The Almighty e più recentemente come frontman occasionale dei Thin Lizzy, poi evolutisi nei Black Star Riders, il cantante e chitarrista irlandese Ricky Warwick è anche un affermato artista solista a pieno titolo, con alle spalle un pugno di ottimi album pubblicati a partire dal 2003. Ora, a circa 5 anni dall'uscita del precedente When Patsy Cline Was Crazy (And Guy Mitchell Sang the Blues), troviamo Warwick alle prese con il suo sesto lavoro in solitaria, dal malinconico titolo When Life Was Hard And Fast.

Nemmeno il tempo di poggiare la puntina sul vinile e si parte a cento all’ora con la title track, un botto di energia pura, la cui ritmica adrenalinica e le chitarre spingono ruggenti il cantato roco di Warwick (dietro il cui timbro si intravvede il fantasma di Phil Lynott). È con questo approccio gagliardo, replicato nelle sciabolate hard rock di Never Corner A Rat, Still Alive e Fighting Heart, che Ricky Warwick si è fatto un nome: in studio come sul palco, con una potenza di tiro esaltata dal lavoro magistrale di produzione dell'ex Buckcherry, Keith Nelson (che ha anche co-scritto una buona parte dell'album con Warwick), e dalle notevoli performance del batterista Xavier Muriel (anche lui ex Buckcherry) e del compagno di band nei Black Star Riders, Robbie Crane al basso. Ad arricchire il parterre, nei 40 minuti di durata del disco, compaiono anche ospiti del calibro di Joe Elliot (Def Leppard), Dizzy Reed (Guns n 'Roses), Luke Morley (Thunder) e persino Andy Taylor (ex-Duran Duran) che danno il loro contributo all’alternarsi fra sparate hard rock e power ballad.

A costoro, per onor di cronaca, si aggiungono anche il manager di Warwick, Adam Parsons, che si cimenta alla batteria su una ruggente cover di Gunslinger, brano dei Mink Deville datato 1977, e addirittura la figlia del cantante, Pepper. Quest’ultima è ospite nella splendida ballata Time Don't Seem To Matter, un brano scritto per lei e presentato qui in forma di demo originale, poiché sia Warwick che Nelson sentivano che era impossibile migliorare l'atmosfera della registrazione iniziale. Una canzone che rappresenta il cuore del disco, e che riesce a schivare prevedibilità e sdolcinatezza, proprio grazie alla scarna mise en place e alle interpretazioni vocali di padre e figlia, che si armonizzano fra loro con grande efficacia.  

Un approccio “francescano” che funziona alla grande anche con la penultima traccia del disco, Clown Of Misery, una registrazione demo fatta sull'iPhone di Warwick e inviata a Nelson con l'intento di migliorarla poi in studio, prima che i due decidessero semplicemente di usare la canzone in quella forma grezza.

Chiude la scaletta You're My Rock 'N Roll, un’esplosione classic rock rubata agli anni ’80, trainata da fendenti di chitarra distorta che portano dritti a un ritornello strappato dal songbook degli AC/DC. When Life Was Hard And Fast è l'ennesimo ottimo album per Ricky Warwick, una raccolta di inni rock e toccanti ballate, che mettono in evidenza alcuni ritornelli davvero eccellenti, una performance fenomenale della backing band e una serie di cammei sfruttati al meglio.

La versione deluxe dell’album contiene anche un secondo disco di cover, che, a parte le inaspettate You Spin Me Round dei Dead Or Alive e Oops…It Did It Again di Britney Spears, mostra una sequenza di brani prevedibili, ma suonati con rispetto e passione.

VOTO: 7,5

 


 


Blackswan, venerdì, 19/03/2021

giovedì 18 marzo 2021

PREVIEW

 


I Wolf Alice, una delle band più stimate della Gran Bretagna e vincitrice del Mercury Prize 2018 con l’ultimo album Visions of Life, annuncia l’uscita dell’atteso terzo album Blue Weekend, prevista per l’11 giugno su Dirty Hit. Il primo assaggio, il singolo “The Last Man On Earth”, è stato presentato ieri in anteprima nel programma di Annie Mac su BBC Radio 1 come ‘Hottest Record in the World’, continuando così la tradizione iniziata nel 2015 quando Annie passò “Giant Peach” dall’album di debutto My Love Is Cool, diventato poi disco Oro in UK.
 
“The Last Man On Earth” è un ritorno suggestivo che vede i Wolf Alice sfumare i confini tra cantautorato classico, atmosfere armoniose e ritornelli acuti. E’ una canzone piena di eleganza ed equilibrio, prodotto di una band che alza l’asticella della qualità ad ogni nuova opera. La cantante Ellie Rowsell è un'artista con un raro dono per chi scrive canzoni, la capacità di calpestare il confine sottile tra narratrice consumata e paroliere confessionale. La canzone è accompagnata da un video diretto da Jordan Hemingway (Gucci, Raf Simons, Comme Des Garçons), un'audace introduzione a questa nuova era dei Wolf Alice che mostra Roswell al centro della scena.
 
Riflettendo su chi sia l’ultimo uomo sulla terra, “The Last Man On Earth” del titolo, la cantante e chitarrista Ellie Rowsell dice “Tratta dell’arroganza degli umani. Avevo appena letto “Ghiaccio-nove” - Cat’s Cradle - di Kurt Vonnegut e avevo scritto la frase ‘Bizzarre proposte di viaggio sono lezioni di danza di Dio’ nei miei appunti. Ma poi ho pensato: ‘Mh, la tua bizzarra proposta di viaggio non è una lezione di danza da Dio, è solo una proposta di viaggio! Perchè ogni cosa deve significare qualcosa di diverso?”

I Wolf Alice sono Ellie Rowsell (voce, chitarra), Joff Oddie (chitarra, voce), Theo Ellis (basso) and Joel Amey (batteria, voce). Sono passati dieci anni da quando la band ha iniziato come duo, formato da Ellie Rowsell e Joff Oddie, per poi ampliarsi a quartetto con l’aggiunta di Joel Amey e Theo Ellis. Da allora la band ha visto il loro album di debutto del 2015 My Love Is Cool salire al secondo posto della classifica UK, e il secondo album Visions Of A Life vincere lo Hyundai Mercury Prize nel 2018 e ottenere la nomination ai GRAMMY come Best Rock Performance. La band si è esibita in 187 concerti durante il tour mondiale di Visions Of A Life, con un tutto esaurito all’Alexandra Palace, 2 date sold out alla Brixton Academy e un’esplosiva performance sul Pyramid Stage di Glastonbury.
 
Era prevedibile che scrivere il seguito di Visions Of A Life potesse incutere timore. L’enorme successo del disco ha significato trascorrere molti mesi in tour fra voli intercontinentali, hotel e lunghi viaggi in bus mettendo a dura prova la band.
 
La band si è trasferita in un Airbnb nel Somerset ed è stato lì, lontano dai palchi dei festival, dai tourbus, dagli show per i premi vinti e dai fan, che sono riusciti a ritrovarsi, cementando la loro amicizia. In una chiesa sconsacrata si sono messi a lavorare su demo solo abbozzati che piano piano sono cresciuti ed   evoluti fino a diventare Blue Weekend. L’album è stato prodotto da Markus Dravs (Arcade Fire, Björk, Brian Eno, Florence + The Machine) che ha aiutato la band ad affinare il proprio suono rendendolo ancora più definito. La capacità narrativa di Rowsell è il nucleo di Blue Weekend, un album che vede i Wolf Alice ritrovare audacia e vulnerabilità in uguale misura.

 


 

 

Blackswan, giovedì 18/03/2021

mercoledì 17 marzo 2021

THE HOLD STEADY- OPEN DOOR POLICY (Positive Jams, 2021)

 


Con un piede tenuto saldamente in due staffe, diviso tra una carriera solista cadenzata da un album ogni due anni e la militanza nella casa madre Hold Steady, Craig Finn, nell’ultimo lustro, ha regalato ai propri fan parecchie ragioni per essere felici. Tre dischi in solitaria, davvero centrati, il ritorno sulle scene come leader della band con l’ottimo Thrashing Thru The Passion (2019), un ibrido fra una raccolta di singoli e brani scritti per l’occasione, e oggi questo nuovo e brillante Open Door Policy, full length composto esclusivamente da canzoni originali.

Un disco che si allinea perfettamente al consueto stile della band, il cui rock spigoloso e adulto, spesso inquadrato nel mare magnum dell’alternative, è figlio in realtà di un impeto fortemente popolare, contiguo all’arte di musicisti come Springsteen e Petty, e di un suono sovraccarico di pathos ed energia, che unisce in un abbraccio fraterno, artista, gente comune, ultimi e diseredati. Merito della scrittura e, soprattutto, delle liriche di Craig Finn, verboso crooner col cuore in mano, che partendo da riflessioni personalissime, quasi fossero uno sfogo terapeutico per evitare il lettino dello psicanalista, riesce a trasformare la propria soggettiva in una visione universale, in cui non è poi così difficile immedesimarsi.

In tal senso, le canzoni di Open Door Policy si gettano a capofitto nell’attualità e nelle comuni traversie della vita che ciascuno di noi si è trovato ad affrontare, soprattutto in questo periodo buio, sviscerando temi come potere, ricchezza, salute mentale, tossicodipendenza, spiritualità, tecnologia, capitalismo, consumismo, nonché l’arte difficile della sopravvivenza, che è tornata prepotentemente alla ribalta sulla scia della pandemia e, per quanto concerne gli States, della pesante crisi politica e razziale che ha afflitto la seconda parte del 2020.

Dieci canzoni in tutto, che trasmettono un senso di disagio, urgenza e incertezza, e che possiedono la qualità di scrittura e di arrangiamenti che da sempre contraddistingue la musica degli Hold Steady, una band che non si è mai tirata indietro quando si è trattato di scavare sotto la superficie alla ricerca di un messaggio non rassicurante, certo, ma sempre improntato a una indefettibile etica, politica e sociale.

Dieci canzoni prodotte meravigliosamente da Josh Kaufman, che ha affiancato Finn nei suoi ultimi lavori solisti, e che mettono al centro della scena il cantato-non cantato volutamente prolisso del leader, l’afrore aspro delle consuete ruvide chitarre, e un tocco di r’n’b apportato da azzeccati inserti di fiati. Uno stile inconfondibile, particolarmente evidente nella propulsiva The Prior Procedure, nell'urgenza inquietante di Spices o nel tiro springsteeniano di Family Farm.

Canzoni spigolose e potenti, e liriche affilate e profonde, pongono gli Hold Steady in quella lunga schiera di musicisti che si sono fatti poeti o di poeti che si sono musicisti. Una nobile schiatta di artisti che, da Dylan ai giorni nostri, ha sempre cercato, spesso con successo, di mescolare pagine di letteratura e accordi di rock’n’roll. In questo, la band capitanata da Craig Finn, è maestra.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, mercoledì 17/03/2021

martedì 16 marzo 2021

I SAY A LITTLE PRAYER - ARETHA FRANKLIN (Atlantic, 1968)

 


Ci sono canzoni così famose, così radicate nella nostra cultura, che spesso le si ascolta un po' superficialmente, perché sono coinvolgenti e hanno una melodia irresistibile, senza, però, domandarsi, quale sia il reale significato che sottendono.

Una di queste è I Say A Little Prayer, un brano che tutti abbiamo ascoltato almeno una volta nella vita, probabilmente nella versione più nota della grande Aretha Franklin. La canzone, scritta da Burt Bacharach e Hal David nel lontano 1967, era l’opener di The Windows Of The World, splendido album a firma Dionne Warwick, reso celebre anche dalla title track. Il brano scalò subito le classifiche dell’epoca, si piazzò alla quarta posizione di Billboard Hot 100, e fu certificato disco di platino.

Come dicevamo poc’anzi, la versione più famosa di I Say A Little Prayer, però, resta quella che Aretha Franklin incise l’anno successivo e che comparve nel suo disco Aretha Now, uno dei più clamorosi best seller della storia della musica, che grazie a un filotto impressionante di gemme (Think, See Saw, You Send Me, etc) ha venduto ben quaranta milioni di copie a tutto il 2015.

Come succede per alcune canzoni di grande successo, sono stati molti gli artisti che si sono cimentati a reinterpretarla: oltre ad Aretha, si ricordano le cover di Gloria Gaynor, Whitney Houston e Natalie Cole, Bomb The Bass, James Taylor Quartet e, udite udite, anche delle nostre Raffaella Carrà e Giuni Russo.

Il maggior picco di popolarità lo ebbe la versione incisa nel 1997 dalla cantante giamaicana Diana King, che entrò a far parte della colonna sonora del film Il Matrimonio Del Mio Migliore Amico, esilarante commedia interpretata da Julia Roberts e Cameron Diaz, diretta dal cineasta australiano PJ Hogan. La canzone ha reso memorabile la sequenza del pranzo di famiglia, quando su input di un bellissimo Rupert Everett viene cantata in coro da tutti i protagonisti del film, in un momento di toccante e giocosa leggerezza.

In realtà, pur possedendo una progressione melodica irresistibile che inebria di allegria, il significato vero della canzone è decisamente più serio. I Say a Little Prayer è sì una canzone d’amore, ma Hal David scrisse le liriche del brano immedesimandosi in tutte quelle donne, moglie e fidanzate, il cui compagno era partito per il Vietnam.

Quelle donne, la cui vita era stata stravolta dalla lontananza e dalla paura di perdere il proprio amato: “nel momento in cui mi sveglio, prima di truccarmi, dico una piccola preghiera per te, mentre mi pettino i capelli e decido quale vestito indossare, dico una piccola preghiera per te”. Il brano è quindi l’invocazione di una donna il cui cuore è afflitto dal dolore e al contempo pieno di speranza, è il desiderio che tutto torni come prima e che possa essere coronato quel sogno d’amore bruscamente interrotto dalla guerra (Per sempre e per sempre, non ci separeremo mai. Oh, come ti amerò, Insieme, insieme, è così che deve essere. Vivere senza di te significherebbe solo dolore per me).Una canzone che sembra allegra, ma che in realtà possiede un retrogusto amarissimo.

Un’ultima curiosità. Il brano ha un posto d’onore nei ricordi dei tifosi italiani, in quanto venne usato dalla RAI come sigla dell’intervallo tra il primo e il secondo tempo delle partite del Mondiale messicano del 1970. Ma quella piccola preghiera contenuta nel testo non bastò a farci vincere la Coppa del Mondo: l’Italia, infatti, perse in finale per 4 a 1 contro il quotatissimo Brasile di Pelè.

 


 

Blackswan, martedì 16/03/2021

lunedì 15 marzo 2021

DRIVE-BY TRUCKERS - THE NEW OK (ATO, 2020)

 


La pandemia che ha funestato il pianeta ha prodotto grandi stravolgimenti anche nel mondo della musica. L’assenza di esibizioni dal vivo e di tour promozionali, ha spinto molti artisti a un approccio diverso, a fare di necessità virtù e, quindi, a concentrarsi soprattutto sulla scrittura, sia in termini di qualità che di quantità. Non è un caso che lo scorso anno i dischi bellissimi si siano sprecati; e non è un caso, che molti artisti si siano trovati con un surplus di materiale, tanto da rilasciare in pochi mesi ben due album. E’ stato il caso di Taylor Swift, il primo esempio che mi viene in mente, e quindi dei leggendari Drive-By Truckers, che dopo The Unraveling, uscito a gennaio, hanno raddoppiato con questo The New Ok, pubblicato lo scorso ottobre.

Rilasciato da ATO Records, (prima solo per lo streaming e poi su supporto fisico a dicembre) il disco era stato originariamente concepito, durante la quarantena, come un EP. Poi, il progetto è cresciuto rapidamente fino a includere nuove canzoni, il cui intento dichiarato era raccontare quella che il co-fondatore della band, Patterson Hood, ha definito “questa infinita estate di proteste, rivolte, imbrogli politici e orrori pandemici”.

I nuovi brani, ispirati soprattutto dalle proteste che hanno seguito l'omicidio di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis la scorsa estate, sono stati registrai e mixati sotto la supervisione di David Barbe, produttore di lunga data de Drive-By Truckers. Il risultato finale un disco intelligente e centrato, che ha il merito di bilanciare l'oscurità e la sofferenza di quel tragico periodo con la speranza di costruire un futuro migliore. Il tredicesimo album in studio in venticinque anni è nato, dunque, sotto la buona stella dell’ottimismo, porta in sé la promessa di un 2021 più felice e una fiduciosa aspettativa di guarigione delle divisioni sociali che hanno fratturato gli Stati Uniti. Su come è iniziato questo 2021 di nuovi contagi e fantomatici vaccini, è meglio tacere; ma la speranza di un nuovo corso, dopo la terrificante era Trump, ha invece buone chance di realizzarsi.

E’ proprio la passione politica ad aprire il disco con il taglio ruvido della title track, canzone che Hood ha scritto dopo aver partecipato alle manifestazioni di protesta, nel luglio del 2020, a Portland, dove il musicista risiede. Una canzone militante, che invita a non accettare quegli eventi (la repressione e le uccisioni a opera della polizia) come normali, ma a ribellarsi e a manifestare per i propri diritti: “It’s summer in Portland and everything’s fine, Black Lives Matter holding up the line, We’ve got mommy’s and vets, taking fire, from the cops on the beat, and the occupiers.” Un inizio, dunque, diretto, crudo, potente e barricadero.

Con Tough To Let Go la tensione scema in un country soul atmosferico, avvolto dalle spolverate d’organo di Jay Gonzalez, mentre il rock graffiante The Perilous Night riaccende la fiamma della contestazione, puntando il dito sulla pericolosa deriva totalitarista del governo Trump (un testo profetico, visto quello che poi è successo dopo la vittoria delle elezioni da parte di Biden).

Sono tutte di grande livello le canzoni di The New Ok, centrate sul politico e sul sociale, in un riuscito alternarsi fra vibrante elettricità (The Unraveling) e splendide ballate d’ampio respiro (la trasognata bellezza di Watching The Orange Clouds, con il suo retrogusto dolce amaro alla Elliott Smith).

Il disco si chiude con una brillante cover di The KKK Took My Baby Away dei Ramones (cantata dal bassista Matt Patton), un brano potente, che ci ricorda come quell'energia rock and roll, anche se lontana nel tempo, è ancora importante per le nostre anime, oggi più che mai. Una chiosa appassionata, che suggerisce desiderio di normalità e l’implicita speranza di tornare presto ai concerti dal vivo, per stare sotto al palco, a ballare, divertirsi e cantare. Un altro, l’ennesimo, grande disco di una band che continua a mantenere dritta la barra dell’impegno politico e delle emozioni.

VOTO: 8

 


 

Blackswan, lunedì 15/03/2021

giovedì 11 marzo 2021

PREVIEW

 


Il suo quarantaduesimo disco ”Latest Record Project: Volume 1”, il suo album più dinamico e contemporaneo da anni, è un viaggio di 28 tracce nel suo continuo amore per il blues, l'R&B, il jazz e il soul. Per quanto possiate amare i suoi classici, questo nuovo progetto dimostra che Morrison vive nel presente e rimane un artista integro e originale.

“Mi voglio allontanare dall'essere riconosciuto sempre per le solite canzoni, I soliti album", dice Morrison. "Questo ragazzo ha scritto 500 canzoni, forse di più, quindi? Perché promuovere sempre le solite dieci? Sto cercando di uscire da questo schema”.

”Latest Record Project: Volume 1” è il risultato di un periodo di isolamento forzato. Impossibilitato di andare in tour, Van Morrison si è immerso in un costante songwriting, suonando al piano, alla chitarra o al sassofono. Sono emersi così I nuovi brani che brillano di schiettezza e vivacità, grazie anche alla collaborazione con una sezione ritmica con la quale condivide un feeling immediato e spontaneo.

Van Morrison lancia oggi il suo nuovo progetto pubblicandone la title track.
Il re indiscusso del soul celtico va dritto al cuore con il suo baritono che abbraccia un caldo suono di organo, accompagnato da armonie vocali doo wop e sha-la-la. Altri spunti eccellenti emergono di continuo, dal sassofono che brilla nella gemma R&B ”Jealousy”, alla gioiosa e country ”A Few Bars Early”, passando per lo spirito garage rock in stile Them dell'esplicita ”Stop Bitching, Do Something”.

Nonostante che l'album risuoni del sentimento romantico e del calore notturno per cui è noto al suo pubblico, il tema dominante è un commento diretto sulla vita di oggi. ”Dead Beat Saturday Night” è una presa di posizione nell'affrontare in modo concreto il suo lockdown: "No life, no gigs, no choice, no voice". Emerge anche nel rock'n'roll da bar di ”Where Have All The Rebels Gone”, che denuncia la mancanza di un vero pensiero indipendente, oggi sostituito dalla mera apparenza. E per quanto riguarda le opinioni di Van Morrison sui social media? Sono riassunte in ”Why Are You On Facebook?”.

Due brani, ”Love Should Come With A Warning” e ”Mistaken Identity”, sono scritti con il grande Don Black. Van Morrison si è avvicinato a Black dopo aver riconosciuto in ”On Days Like These”, la sua ballata pop del 1969 cantata da Matt Monro per la colonna sonora di ”The Italian Job”, qualcosa che gli ricordava il suo stile. Il risultato ha portato Black a scrivere oggi ”Mistaken Identity”, che, paradossalmente, è la canzone più autobiografica dell'album.

Ciò che ”Latest Record Project: Volume 1” dimostra è che se volete apprezzare veramente l'arte di Van Morrison, dovete ascoltare quello che fa oggi perché è un'artista che non si ferma mai.

Latest Record Project: Volume 1” uscirà il 7 maggio su Exile/BMG in formato doppio-CD, deluxe-CD, triplo-vinile e su tutte le piattaforme digitali.

 


 

Blackswan, giovedì 11/03/2021

mercoledì 10 marzo 2021

ALICE COOPER - DETROIT STORIES (earMusic, 2021)

 


Settantatre anni compiuti lo scorso febbraio, quasi mezzo secolo di carriera, trenta dischi alle spalle (di cui due con gli Hollywood Vampires), numerose comparsate come attore. Questi pochi numeri, snocciolati in fretta, sono la fotografia di un artista che ha scritto una pagina importante della storia, padre riconosciuto dello shock rock e nume tutelare di una schiera immensa di epigoni.Nonostante la veneranda età, Alice non si è ancora rassegnato a vestire i panni della leggenda nella sala cariatidi del museo del rock, e oggi mostra, come non capitava da tempo, un invidiabile stato di forma.

Già nel 2019, con l’Ep Breadcrumbs, Cooper aveva reso omaggio alla sua Detroit e alle sue radici. Con questo nuovo lavoro amplia il tema, e alla città e alla musica che l’ha cresciuto e che ha amato, dedica un intero album, quindici canzoni, un mix di brani originali e una manciata di cover, prodotte dal grande Bob Ezrin, colui che è stato determinante nella creazione del mito Cooper, a partire da Love It to Death (capolavoro dato 1971), e che da Welcome 2 My Nightmare (2011) è tornato al timone del bastimento.

Non solo. Alcuni musicisti nativi di Detroit, come il chitarrista degli MC5, Wayne Kramer, il batterista Johnny "Bee" Badanjek (la band di Mitch Ryder), Mark Farner dei Grand Funk e i Motor City Horns, si sono resi disponibili e, presso i Rust Belt Studios di Royal Oak, hanno dato il loro contributo alla scaletta, infondendo l'album con un ulteriore quid di autenticità.

Il disco prende il via con il ringhio rabbioso di Rock 'n' Roll (Lou Reed / The Velvet Underground) in una versione da far tremare le vene nei polsi, per poi proseguire con altre quattordici canzoni, alcune delle quali sorprendentemente cariche d’intensità. Cooper e la sua backing band suonano altrettanto cattivi e motivati ??in Drunk and In Love, Go Man Go, I Hate You e Social Debris, e sembra di essere tornati ai giorni d'oro di Schools Out di quattro decenni fa. La voce beffarda del cantante è in ottima forma, nonostante 72 anni trascorsi nelle trincee del rock and roll, e queste canzoni riescono a replicare con successo il tiro hard rock melodico, che ha reso immortali i suoi grandi classici degli anni '70.  

Tuttavia, non tutte le ciambelle sono venute con il buco. Sul finale, lo spoken di Hanging On By The Thread (e i tastieroni decisamente fastidiosi) e la fin troppo prevedibile e semplicistica Shut Up and Rock, ad esempio, sono riempitivi che appesantiscono un album già piuttosto lungo.

Fortunatamente prima dell’epilogo, ci sono momenti di assoluto godimento e, soprattutto, quei riff graffianti, che rappresentano il marchio di fabbrica di Cooper: la grintosissima Hail Mary, una cover infuocata di Sister Anne degli MC5 e le atmosfere conturbanti e paludose di Wonderful World, sono numeri che faranno drizzare le antenne ai fan della prima ora. I quali possono rallegrarsi per questo nuovo Detroit Stories, probabilmente uno dei dischi di Cooper più centrati e gagliardi da anni a questa parte. Tornare a respirare l’aria di casa, come spesso accade, è stato un vero e proprio toccasana.

VOTO: 7,5

 


 

 

Blackswan, mercoledì 10/03/2021

martedì 9 marzo 2021

THE PRETTY RECKLESS - DEATH BY ROCK'N'ROLL (Century Media Records, 2021)

 


Sono passati ben cinque anni dall’ultimo e fortunato Who You Selling For (2016). Un lustro in cui i newyorkesi The Pretty Reckless hanno visto glamour e successo adombrati da eventi tragici, che hanno fatto decisamente fatica a rielaborare. Nel 2017, quando erano in tour coi Soundgarden, li colse improvvisa la morte dell’amico Chris Cornell, e poi, il 25 aprile dell’anno successivo, dovettero fare i conti con il decesso, in un incidente automobilistico, del loro produttore storico Kato Khandwala. Due botte che avrebbero messo al tappeto chiunque, seguite poi dal tragico destino della pandemia. Due botte, che hanno portato a un lungo periodo di silenzio, di depressione, di abuso di sostanze, e che sono state, poi, rielaborate, metabolizzate ed esorcizzate in Death By Rock’n’Roll, un disco costato un anno di lavoro, un disco che fa i conti con la morte e la caducità umana (la lapide senza nome nel retrocopertina del disco), ma che è anche una reazione rabbiosa, un’esplosione di energia e di vitalità che contrasta con tutto il dolore accumulato.

Il fantasma dell’amico Khandwala aleggia ovunque, nelle note di copertina, nei passi registrati a inizio disco, nel titolo dell’album. Non siamo, però, di fronte a una sorta di Back In Black 2.0. Nessuna campana a morto: il tributo c’è, ma viene superato dalla varietà elettrizzante del materiale proposto, dai testi colmi di fiducia, da omaggi leggeri ed entusiastici (nel ballatone dagli accenti americani di Rock And Roll Heaven la Momsen cita gli eroi musicali della giovinezza e canta: ”Freedom found me / When I first heard the Beatles sing…In rock and roll Heaven / The great gig in the sky”) e da momenti stranamente solari e ottimistici.

Funziona tutto incredibilmente bene in Death By Rock’n’Roll: la potenza di fuoco e i riff gagliardi, la scelta oculata di pochi, ma azzeccatissimi ospiti, le melodie catchy ma non banali, e la voce della leader Taylor Momsen (attrice, modella, rocker) capace di ruggire come una pantera (My Bones), di fare le fusa carezzevole come una gatta (Got So High) e di librarsi libera e potente verso il cielo (Standing At The Wall).

E’ nella prima parte del disco che i Pretty Reckless sparano le cartucce di grosso calibro: la title track è una bordata hard blues senza compromessi, seguita dalle cupe staffilate elettriche di Only Love Can Save Me Now (ospiti gli ex Soundgarden Matt Cameron alla batteria e Kim Thayil alla chitarra) omaggio palese agli anni d’oro del grunge, e dalla devastante And So It Went (ospiti Tom Morello e un assolo pazzesco), capace, però, di una struttura articolata, che inserisce, in un brutale clima da combattimento all’ultimo sangue, un repentino e morbidissimo intermezzo acustico e lo straniante coro della Maine Academy Of Modern Music.

Poi, il disco si fa meno lineare, più vario nell’esposizione, alternando momenti duri ad altri decisamente più leggeri e volatili. 25 è una ballata in crescendo dalle atmosfere crepuscolari, My Bones un assalto a baionetta innestata, tambureggiante e impetuoso, Got So High una ballata colorata di pop, che conquista con due linee melodiche acchiappone (richiama What’s Up dei 4 Non Blondes), Witches Burn un rockaccio diretto e un po' prevedibile, Standing At The Wall un brano morbidamente acustico con pennellata d’archi e crescendo finale, Rock And Roll Heaven e Harley Darling due ballate spruzzate di country, molto americane, molto solari e melodiche.

Death By Rock’n’Roll è un album con molti meriti e anche qualche difetto. Da un lato, l’eterogeneità del materiale proposto disorienta e certi momenti risaputi abbassano il tiro di un disco che, a tratti, fa letteralmente scintille. Dall’altro, a prescindere dalla figura e dalla voce, iconiche e conturbanti, della Momsen, vero leit motiv della scaletta, i Pretty Reckless dimostrano di saper maneggiare l’hard rock con grande consapevolezza e originalità, e muoversi nei confini di un suono, che richiama spesso gli anni ’90, con rispetto filologico. L’impressione è che quando c’è da alzare il tiro, la band newyorkese trovi la sua dimensione migliore, mentre quando lo abbassa, invece, perde la propria peculiare attitudine. Il disco, però, è comunque molto buono e noi ve lo consigliamo caldamente.

VOTO: 7,5 




Blackswan, martedì 09/03/2021