All'inizio di quest'anno, i giapponesi Boris avevano rilasciato un disco sonnacchioso intitolato W, che aveva lasciato i fan, per usare un eufemismo, un poco stupiti. Anche presa come una curiosità in una discografia notoriamente eterogenea, W apriva al quesito su quale direzione avrebbero preso i Boris, soprattutto di fronte a un’uscita, come questo Heavy Rocks, così ravvicinata nel tempo.
D’altra parte, il power trio si è costruito nel tempo un nome grazie a una formula multicolor che impastava stoner e sludge metal, facendo la gioia di tanti appassionati di genere, nonostante numerosi deragliamenti di natura sperimentale. Il corpus della loro opera, inoltre, è notoriamente labirintico: non solo una quantità spropositata di LP e collaborazioni, il cui ordine di bellezza varia a seconda di chi lo chiedi, ma molti di questi sono disponibili in una sfilza di formati o versioni remixate, con tracklist e persino arrangiamenti di singole canzoni, diversi. Per i fan è sicuramente una gioia scavare nei meandri della discografia, ma consigliare questa band a un neofita, necessiterebbe un manuale di istruzioni non propriamente agevole.
Fortunatamente, arrivati a bussare alla porta di questo nuovo Heavy Rocks, possiamo tranquillamente lasciare tutto il pesante passato dei Boris alle spalle. Questo disco, infatti, è abbastanza solido sia da rappresentare una pietra miliare della carriera recente della band, sia da offrire un valido punto di ingresso anche agli ascoltatori casuali (in netto contrasto, peraltro, con il precedente W). Sebbene sia un apparente successore della serie fondata dal leggendario Heavy Rocks (2002) e riavviata con Heavy Rocks (2011), non condivide materiale con nessuno dei due, ed è semplicemente accomunato dal fatto che sono tutti e tre rock, e tutti e tre sono pesanti. Questo, probabilmente, è il più grintoso della serie, tutto rumore e ringhio in un modo che ricorda lo sguardo duro di NO (2020).
Molte di queste canzoni virano verso il caos, pur senza dimenticare un discreto piglio melodico (l'apertura "She Is Burning"), ma la costante della scaletta risiede nella pura adrenalina, nelle voci gutturali, nello scambio infuocato di chitarre soliste e nel livello francamente irresponsabile con cui il mix spara i volumi dall’ampli del trio. Heavy Rocks suona, insomma, come carta vetrata, senza se e senza ma.
I Boris, tuttavia, non sono propriamente lineari, e se la cavano egregiamente quando offrono a tutta questa energia uno spazio più astratto in cui esprimersi: "blah blah blah" e "Nosferatou" utilizzano echi free jazz e un sassofono collassato per suonare a pieno ritmo sulle rispettive basi di noise rock e doom. C'è una grande volatilità nelle strutture delle singole canzoni, e la band si prende la libertà di dinamizzare potenti hook rock come "Cramper" e "Question 1", nel momento in cui hanno stabilito un movimento di strofa/ritornello, con digressioni inaspettate, o di sfumare la splendida "My Name Is Blank" proprio mentre raggiunge il suo apice.
Nella parte finale del disco, c’è un calo d’ispirazione, e così l’hardcore di "Ghostly Imagination" suona posticcio e senza pathos, mentre la conclusiva e sperimentale "(non) Last Song", col pianoforte in bella evidenza, sembra più un riempitivo che il sostanziarsi di una vera e propria idea. È un peccato, perchè Heavy Rocks, se l’ispirazione fosse stata tutta all’altezza, sarebbe potuto annoverarsi come un momento determinante in una infinita discografia a macchia di leopardo. Il disco, però, convince, momenti ottimi ce ne sono, eccome, e in definitiva, da una delle band più eclettiche e strane in circolazione, ci si può aspettare di tutto, picchi illuminati e momenti meno nobili. Prendere o lasciare: i Boris sono i Boris, e non c’è verso di inquadrarli in schemi prefissati.
VOTO: 7
Blackswan, lunedì 03 / 10/ 2022
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