Dopo
aver concluso l’avventura nei bostoniani Banditas, Hayley Thompson –
King tenta la strada in solitaria, pubblicando il suo album di debutto,
dall’intrigante titolo Psychotic Melancholia. Un disco dal suono e
dall’andamento davvero particolare e che racchiude la summa delle
esperienze di vita della giovane cantante originaria del Massachusetts.
Registrato in sei mesi presso i Verdant Studios di Athens e prodotto da
Peter Weiss, Psychotic Melancholia è una sorta di “Sodom And Gomorrah concept album”
(definizione della stessa songwriter) che riflette sulla condizione
della donna nei testi sacri e nel mondo. Non un opera dai contenuti
religiosi, però, ma la risposta agli interrogativi di una ragazza che,
in passato, ha fatto parte della setta religiosa dei Clowns Of Christ e
la cui infanzia è stata segnata da una educazione religiosa di stretta
osservanza e il cui sguardo, però, si è fatto ora totalmente agnostico.
Temi alti, quindi, per un disco in cui confluiscono le varie esperienze
musicali di Hayley: la passione per il southern roots, ereditata durante
i lunghi viaggi in compagnia del padre, un allenatore di cavalli, il
talento canoro esercitato e affinato con un master in musica lirica
conseguito presso il New England Conservatory Of Music e una
predisposizione naturale verso suoni più ruvidi, quali il rock, il
garage e la psichedelia. L’impasto, e non poteva essere altrimenti, ha
dato vita a un’opera prima difficilmente collocabile, a meno di non
voler dar credito alla definizione un po’ pigra di psychedelic country,
che solo in parte rispecchia i contenuti di un disco che vive momenti
davvero sorprendenti. Basti pensare che il disco si conclude con Wehmut,
una straniante sonatina operistica, per voce e violoncello, in cui la
Thompson- King (che nell’occasione canta in tedesco) dà sfoggio della
sua formazione classica. Un brano fuori sincrono rispetto al resto del
disco, ma che pone l’accento sul vero fiore all’occhiello di Psychotic
Melancholia: le straordinarie doti vocali di Hayley, il cui soprano è
caratterizzato da un possente vibrato, che nei momenti caldi del disco
sfocia in un aggressivo screaming. Se le radici sono rispettate in
alcuni brani più addomesticati (la ballata al Roipnol di Soul Kisser e la tradizionalissima Old Flames (Can’t Hold a Candle To You)),
in altre canzoni emerge, invece un grinta da consumata rocker. Così, le
chitarre impazzano, rockeggiando indomite sul più classico dei country
(l’iniziale Large Hall, Slow Decay) o percuotono il finale della languida Dopesick, sciogliendo l’andamento sognante in uno sconquasso di distorsioni. Quando parte, poi, No Room For Jesus, non ci sono più fraintendimenti: garage puro, tonnellate di fuzz e coltello dai denti. Non è da meno Lot’s Wife
(i riferimenti biblici si sprecano), rock blues basilare e assolo di
chitarra acido come morsura. Da segnalare anche l’elettrica Teratoma, copia carbone sporca e sgranata di Knockin’ On Heaven’s Door,
con la voce di Hayley a gridare alle stelle, senza che lo straordinario
vibrato perda un solo briciolo del suo spessore tecnico. Disco breve,
poco più di mezz’ora, in cui la Thompson-King centra però l’obiettivo di
declinare un’idea inusuale di americana, che pur palesando diverse
discendenze artistiche, mostra compattezza, personalità propria e un
pugno di idee innovative.
VOTO: 7,5
Blackswan, giovedì 21/09/2017
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