Quando nel 2013
uscì If You Wait, ricordo che per parecchio tempo non si fece altro che
parlare, in termini lusinghieri, dei London Grammar e del loro album d’esordio.
Tutti convinti, anche da un ritorno di vendite davvero importante, che la band
originaria di Nottigham avrebbe spaccato il mondo. Invece, niente. I tre
ragazzi sono spariti dalla circolazione, come se quell’improvviso successo
mediatico li riguardasse solo marginalmente. Sono passati quattro anni, in cui
probabilmente Hannah Reid e soci hanno cercato di capire cosa avrebbero voluto
fare da grandi, se continuare cioè sulla strada già intrapresa oppure giocare
un’altra mano al tavolo del successo con carte completamente diverse. Un
dilemma evidentemente non facile da risolvere, vista la lunga gestazione per
dare alle stampe il loro sophomore. Il nuovo Truth Is A Beautiful Thing, per
quanto frutto di un lungo ragionamento, non suona però molto diverso dal suo predecessore
e conferma pregi e difetti che avevano contraddistinto If You Wait. Inutile
girarci intorno: i Grammar London sono una band che si prende terribilmente sul
serio, incapace di tenere sotto controllo una congenita propensione al
melodramma e una mano un po’troppo ridondante quando si tratta di arrangiare.
Ed è altrettanto evidente, anche a un orecchio non particolarmente allenato,
che certe melodie sono figlie di deja vù riadattati per l’occasione (Big
Picture sembra la cover in chiave ambient pop di Where The Streets Have
No Name degli U2). A parte, però, queste considerazioni da addetti ai
lavori, è indubbio che Truth Is A Beautiful Thing, pur non avendo singoli
spacca-classifica, funzioni bene dalla prima all’ultima canzone. Non certo una
musica per allegroni, quella proposta dai London Grammar, ma un pop soul che
punta dritto al crepuscolo, attraverso le movenze quasi cinematografiche di
canzoni strutturate sull’emozionante voce da contralto, questa si
straordinaria, della leader Hannah Reid. Così, è davvero difficile restare
indifferenti a piccoli gioielli come Oh Woman Oh Man, Non Believer
e Rooting For You, tutte canzoni che un cuore votato alla malinconia
farà fatica a rimuovere dal proprio iPod. Niente di nuovo sul fronte
occidentale, dunque, ma un disco ben calibrato, che non svende l’intelligenza
compositiva a esigenze di classifica e che conferma i London Grammar come una
band che, pur non rischiando nulla, sa maneggiare la materia pop con
invidiabile classe.
VOTO: 6,5
Blackswan, venerdì 28/07/2017
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