mercoledì 5 maggio 2021

MACACO - EL MONO EN EL OJO DEL TIGRE (Edel Music, 1999)

 


Caos, casino totale, miscuglio: in una parola Patchanka. Che è un genere non genere, un ibrido musicale che ha come padre putativo e fonte d’ispirazione il leggendario album dei Clash, Sandinista (1980), e che raggruma, nelle sue svariate espressioni, correnti musicali anche diversissime tra loro, il cui elenco potrebbe condurre il lettore allo sfinimento: rock, punk, reggae, ska, musica latina, funky, salsa, rap, calypso, e chiudiamo qui per non appesantire troppo la pagina.

Il termine fu coniato dal gruppo francese dei Mano Negra, che lo utilizzarono come titolo del loro album d’esordio, datato 1988. La band, capitanata da Manu Chao, raggiunse il picco di maggior successo nel 1991, con King Of Bongo, e si sciolse, poi, nel 1994, aprendo le porte alla carriera solista del suo frontman, che portò la patchanka sul tetto del mondo, con il clamoroso successo di Clandestino, album datato 1998, che vendette milioni di copie in tutto il mondo.

L’avventura dei Mano Negra non fu un episodio a se stante, ma trovò moltissimi estimatori, contribuendo anche alla nascita di alcune band pronte a cavalcare l’ombra lunga di questo nuovo, suggestivo genere. Lo straordinario ibrido franco-algerino dei coevi Les Negresses Vertes, quello franco spagnolo dei Sergent Garcia, l’adrenalinica miscela di musica tzigana e punk dei Gogol Bordello, gli italianissimi Modena City Ramblers e, per finire il breve elenco, i catalani Macaco, sono alcuni dei nomi più interessanti che hanno abbracciato le coordinate del movimento.

Fondati nel 1997 dal cantante Dani Carbonell "El Mono Loco", i Macaco hanno rappresentato (e rappresentano) la quintessenza di quel caos musicale definito patchanka: membri della band originari di svariate parti del mondo, canzoni in cui la tradizione mediterranea viene imbastardita da inusitati connubi con reggae, dub step, rock, funky, blues, punk e musica elettronica, liriche declinate in lingue diverse, dallo spagnolo al catalano, dal francese all’inglese e financo in italiano.

Se è vero che la band è ancora in attività e continua a rilasciare dischi, è altrettanto vero che il momento di maggior successo è relegato alla fine degli anni ’90, con l’uscita di El Mono En El Ojo Del Tigre, album trainato da due singoli di successo, quali Tio Pedrito e Gacho El Peleon.

Un disco che è l’istantanea di una band ricca di talento e ispiratissima, il cui retroterra apolide e politicamente barricadero sfornava canzoni sempre in bilico fra impegno e pura energia, istintivamente concepite per la pista da ballo ma non prive di una struttura musicale ragionata e carica di suggestioni.

Se Manu Chao, per citare il padre del genere e l’artista che proprio in quei giorni viveva il suo maggior periodo di gloria, imbastiva canzoni con velleità rivoluzionare e l’occhio ben puntato sul mainstream, i catalani Macaco, pur senza sconfessare posizioni politiche apertamente di sinistra, giocavano maggiormente sull’immagine di cazzari festaioli e tossici, rimestando nello sporco grazie a suoni molto meno levigati.

Il risultato è un disco che riesce ad aggirare le coordinate buoniste alla Manu Chao, per esaltare invece una certa propensione al maledettismo più contiguo al punk che al pop. L’odore di canna si respira per tutta la scaletta, così come una certa sguaiata irriverenza (il singolo bomba Tio Pedrito e quel “Cabron!” urlato sfacciatamente) e la sensazione di trovarsi gomito a gomito con l’umanità colorata, cruda e, talvolta deviata, che abita la zona portuale di Barcellona, così come quella di altre mille città di mare.

Tante belle canzoni in scaletta, che è difficile ascoltare, rimanendo col sedere incollato al divano. Dal funky scalpitante di Lliamando a La Tierra alle suggestioni mediorientali di Brujo Cabicho, dalla salsa tossica di La Rebellion al reggae fumatissimo e sensuale di La Raiz, per non parlare poi dei due singoli già citati, veri e propri riempipista in salsa latina, El Mono En El Ojo Del Tigre funziona alla grande per tutta l’ora di durata, plasmando, con azzeccati inserti di elettronica, un ibrido musicale ricco di spezie e profumi che eccitano i sensi e spingono verso la voluttà del ballo. La restante carriera sarà punteggiata da altri buoni dischi (Rumbo Submarino del 2002), ma nessuno che si sia mai avvicinato alla miscela esplosiva di questo straordinario album con cui i Macaco salutano il vecchio millennio. Che è decisamente meglio di qualunque altra cosa abbia partorito Manu Chao, dopo lo scioglimento dei Mano Negra. Da riscoprire.

 


 

Blackswan, mercoledì 05/05/2021

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