mercoledì 26 maggio 2021

MYLES KENNEDY - THE IDES OF MARCH (Mapalm Records, 2021)

 


Leader insieme a Mark Tremonti degli Alter Bridge e voce stabile nella backing band di Slash, Myles Kennedy, arrivato alla cinquantina, ha finalmente aperto la porta alla carriera solista, iniziata nel 2018 con la pubblicazione dell’inconsueto e bellissimo Year Of The Tiger. Un disco, quello, che mostrava l’altra faccia di Kennedy (vera e propria icona metal), che, spiazzando tutti, cercava forme espressive diverse per rielaborare l’antico dolore della morte del padre. Year Of The Tiger, in tal senso, era un lavoro davvero anomalo rispetto a quanto precedentemente prodotto dall’istrionico cantante originario di Boston: una scaletta di dodici brani dal suono prevalentemente acustico, la cui unica connessione con il passato era rappresentata dalla voce potente e immediatamente riconoscibile di Kennedy, che, nella fattispecie, si misurava con registri non certo sconosciuti, ma sicuramente meno abituali, e con canzoni di vibrante pathos e dagli intenti catartici.

Il nuovo The Ides Of March, a tre anni di distanza, segna un ennesimo smarcamento, un nuovo cambio di rotta. Ancora una volta lontano dalla casa madre Alter Bridge, Kennedy muta, però, approccio anche rispetto al suo disco precedente, rilasciando undici canzoni che indossano abiti dai colori rock e blues. Se Year Of The Tiger era un azzardo, peraltro riuscito, e proprio per questo denso di suggestioni, anche per il retroterra emotivo che lo giustificava, The Idles Of March è, invece, un album che coagula tutto ciò che Kennedy ama, che alterna riff potenti a melodie ariose, strumenti acustici ed elettrici, spaziando fra diversi generi, tenuti insieme dal collante di una voce straordinaria e da una scrittura solida, anche se non particolarmente originale.

Grazie anche alla produzione affidabile di Michael “Elvis” Baskette (che aveva già prodotto il disco precedente, oltre ad aver collaborato con Slash e gli Alter Bridge), The Idles Of March possiede un suono tirato a lucido e un tiro importante, e procede, per quasi cinquanta minuti di durata, senza sbavature e con il pilota automatico inserito. Un buon disco, per carità, ma decisamente meno ispirato del suo predecessore, che aveva in un sincero pathos la sua ragione d’essere.

Get Along e A Thousand Words aprono la scaletta con piglio rock e belle melodie, la voce e la chitarra di Kennedy che danno nerbo a un plot tanto prevedibile quanto efficace. In Stride parte con potenti sciabolate slide e schizza veloce su una ritmica boogie rock marchiata seventies (ZZ Top). Sono, però, i sette minuti abbondanti della title track a far drizzare le orecchie per la prima volta: una canzone complessa, un puzzle sonoro che incastra l’intro acustica a languide carezze pop, atmosfere blues e un’inusitata impennata di teatralità che evoca i Queen. Il tutto giostrato con grande intelligenza e misura.

Il disco, poi, non riserva grandi soprese, ma alcune canzoni decisamente buone: la chitarra che apre Sifting Through The Fire, che cita smaccatamente gli Allman Brothers band, il fingerpicking folk che attraversa Wanderlast Begin, il brano più contiguo a The Year Of The Tiger, e le atmosfere soul che avvolgono la melodia Moonshot, sono gli high lights di un’opera godibilissima dal primo all’ultimo minuto.

Myles Kennedy dimostra ancora una volta di essere un musicista completo, capace di scartare dalla propria militanza metal con una visione ampia, che sa abbracciare svariati generi. Declinati con grande professionalità e con doti vocali uniche, ci mancherebbe, anche se, in questo caso, ciò che manca è un po' di trasporto emotivo e un tocco d’imprevedibilità.

VOTO: 7

 


 

Blackswan, mercoledì 26/05/2021

1 commento:

Ezzelino da Romano ha detto...

Ecco, Miles Kennedy è bravo ma, come dire, gli manca una lira a fare un milione.
Emotivamente non trasmette tantissimo.
Tranne che per un aspetto.
Quando canta, si vede che è proprio contento.