Quando i London Grammar si sono affacciati per la prima volta sulla scena musicale, fortemente saturata, di quasi un decennio fa, le loro ballate pop dal mood fortemente emotivo hanno spinto la critica a spendere paragoni con artisti come XX e Florence and the Machine, oltre ad attirare fin da subito l’attenzione del pubblico mainstream. Contrassegnato dalla gamma vocale dinamica di Hannah Reid, il trio britannico si è distinto dai propri contemporanei non solo grazie alla natura accelerata dell'hype (erano in prima fila per l'ambito Mercury Prize prima di pubblicare il loro debutto nel 2013, If You Wait), ma soprattutto perché la loro musica mostrava un’invidiabile freschezza.
Con il loro secondo album, Truth Is a Beautiful Thing del 2017, hanno mantenuto fede alle premesse (e promesse) di una musica pop elegante e di gran classe, anche se in quel caso una produzione più ambiziosa aveva tolto un po' di vitalità alle canzoni in scaletta.
Oggi, Californian Soil, li vede modificare leggermente il sound per suggerire ulteriormente la portata delle loro ambizioni musicali, con risultati anche in questo caso, però, non sempre convincenti. I London Grammar esplicitano la loro volontà di esplorare nuovi territori già a partire dalla title track: c'è un diverso ed evidente spessore nell’impianto strumentale del brano, che manca, invece, in alcuni momenti della scaletta.
Infatti, nel complesso, Californian Soil soffre, in qualche caso, proprio di mancanza di profondità: è chiaro che la potente voce della Reid non ha perso un grammo del suo fascino, ma non può essere sempre il paravento per coprire le lacune aperte da un songwriting talvolta un po' debole e da una produzione che, qui e là, palesa qualche inciampo.
Se questi sono i difetti, e lo dico a prescindere dal mio gusto personale, che mi ha spinto ad ascoltare il disco in loop per un’intera settimana, California Soil si mantiene, tuttavia, su buoni livelli per tutta la sua durata, regalando anche momenti di abbagliante bellezza. La predilezione della band per i ritmi trip-hop e i paesaggi sonori cinematografici, molto amati dai Massive Attack, rimane un intatto marchio di fabbrica e la straordinaria voce di Reid, che è sempre stata al centro del suono della band, continua a risuonare potente e affascinante come sempre.
E’ indubbio, inoltre, che il taglio dato alle canzoni sia, nello specifico, ancora più pop, cosa che nel complesso funziona bene, come avviene, ad esempio tra beat e approccio sinfonico nella splendida Lose Your Head o nel drammatico crescendo melodico di Lord It’s A Feeling.
Pur con un andamento altalenante, California Soil possiede, quindi, un fascino etereo e riesce a toccare le corde dell’emozione grazie a una prova maiuscola della Reid, la quale riversa nelle liriche e nel cantato il proprio pathos interiore. Un tormento di fondo palpabile in America, la canzone che chiude il disco e che vince la palma del miglior brano del lotto: l’America come metafora di sogni da inseguire, sogni destinati a non realizzarsi e a restare chimere, forse perché, in primo luogo, non ci appartengono (“Tutto il nostro tempo a caccia dell'America/Ma lei non ha mai avuto una casa per me/ Tutto il nostro tempo inseguendo un sogno/Un sogno che non significava niente per me”).
Se tutto il disco fosse di questo livello, staremmo parlando di una delle prove migliori dell’anno. Invece, pur promuovendolo, California Soil resta il compito ben fatto di una band che potrebbe aspirare al massimo dei voti, ma non riesce mai a fare il vero salto di qualità. Non credo sia un problema strutturale: quando azzeccano la canzone, i London Grammar svettano sulla massa con estrema facilità. Forse, il vero problema, è il freno a mano tirato, la mancanza di coraggio con cui la band affida al cantato di Hannah Reid le sorti del proprio lavoro, senza cercare soluzioni alternative alla splendida voce del loro leader.
VOTO: 7
Blackswan, mercoledì 09/06/2021
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