Un
anno in Inghilterra, quattro stagioni travolgenti vissute attraverso
gli occhi di tre ragazzi indiani in cerca di un futuro diverso:
l’Inghilterra è una promessa, il passato un peso da cui liberarsi.
Dietro di loro lasciano un Paese in radicale cambiamento, sconvolto dai
conflitti civili e troppo spesso governato da un codice morale pieno di
pregiudizi. Costretti dalle circostanze a condividere la stessa casa di
lavoratori irregolari nella città di Sheffield, sospinti dalle loro
aspirazioni, dall’amore ma soprattutto dalla necessità di sopravvivere, i
tre giovani affrontano una vita quotidiana spietata in cui la fuga, lo
sfruttamento, il lavoro massacrante minacciano ogni giorno di privarli
anche dell’ultimo briciolo di umanità. Sarà l’incontro con una giovane e
misteriosa donna sikh, cresciuta a Londra e animata da un’incrollabile
volontà di aiutare il prossimo, a cambiare nuovamente il corso dei loro
destini. Decisa a riscattarsi da una tragedia del passato, entrerà a
contatto con il mondo brutale della clandestinità, che le lascerà dentro
tracce indelebili.
Sono
molti i motivi per cui L’Anno dei Fuggiaschi è un romanzo
consigliatissimo, a partire da una scrittura asciutta, senza fronzoli,
all’apparenza distaccata, eppure sempre efficace e dolorosamente
urticante. Tuttavia, la cifra estetica del libro passa in secondo piano
rispetto ai contenuti e alla forza di un racconto che non è solo di
estrema attualità, ma è capace di scavare a fondo su un tema sociale
(quello dell’immigrazione) su cui spesso, da destra e da sinistra, si
parla a sproposito e senza cognizione di causa.
Sunjeev
Sahota, scrittore inglese di origine indiana, non ancora quarantenne,
ha il grande merito di mantenere un’adeguata distanza dalla materia
trattata, e di evitare banalizzazioni retoriche o buonismi pret a porter
tanto cari a certi intellettuali da salotto.
L’Anno
Dei Fuggiaschi racconta una storia di immigrazione, non molto
differente da quelle che ascoltiamo in tv, tutti i giorni, all’ora del
telegiornale: la fuga da un paese, l’India nello specifico, in cui le
condizioni economiche sono precarie, i giovani non trovano lavoro, le
disuguaglianze sociali sono abissi incolmabili, e la speranza di trovare
in Occidente l’abbrivio per un futuro migliore.
La
realtà, ovviamente, infrange subito tutte le speranze di questi quattro
ragazzi, ognuno con una storia dolorosa alle spalle, che si ritrovano a
vivere in un mondo, nel migliore dei casi, indifferente e, spesso,
invece, ostile, prestandosi a ogni tipo di abiezione in nome di un
unico, impellente, bisogno: sopravvivere.
Sahota,
però, non si limita solo a puntare il dito contro il sistema e il mondo
occidentale, ma ha il coraggio di superare facili stereotipi narrativi,
concentrando lo sguardo anche sulla cultura indiana, arretrata e
ferocemente razzista, incapace di superare la divisione in caste (veri e
propri gruppi sociali endogamicamente chiusi, impossibilitati a
comunicare fra loro), in cui la donna non ha voce in capitolo ed è solo
merce di scambio per matrimoni di convenienza.
Insomma,
se è vero che l’Inghilterra è terreno fertile per lo sfruttamento, se
il sistema capitalistico produce sperequazioni e sofferenza, è
altrettanto vero che tutti gli effetti negativi vengono amplificati
dalla chiusura mentale e dall’arretratezza sociale di una cultura con
cui è quasi impossibile integrarsi, se non attraverso gli elementi più
marcatamente visibili e ambiti del modello occidentale: il denaro, la
casa, la macchina, il lavoro sicuro.
In
questo contesto di dolore, di privazioni, di lotta quotidiana per la
sopravvivenza, ove tutto è lecito se serve a mettere insieme il pranzo
con la cena, i veri aguzzini, la mano “armata” del sistema sono gli
stessi oppressi, quegli immigrati che sono riusciti a conquistarsi una
piccola agiatezza economica e non hanno scrupoli a sfruttare e angariare
i propri simili, esattamente come facevano in India.
Romanzo
potente, duro come un pugno allo stomaco, e pervaso, soprattutto, da
un’epica della disperazione che scuote le coscienze e spinge verso un
surplus di riflessione e indignazione, che il finale, vagamente
consolatorio, non può e non riesce ad attenuare.
Blackswan, domenica 24/02/2019
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