La prima cosa che salta all’occhio è la copertina. C’è un elemento visivo, forse casuale, forse no, che ricollega il debutto sulla lunga distanza di Annahstasia con un altro eccezionale disco d’esordio, quello di Tracy Chapman, risalente al 1988. Una foto semplice ma icastica, il volto in primo piano, la stessa pettinatura riccia. La foto che ritrae la Chapman, però, è sgranata, il volto della songwriter è rivolto verso il basso, come a voler schermire un’anima fragile e a suggerire timidezza, umiltà e una certa ritrosia verso una medianicità che non le appartiene. Lo sguardo di Annahstasia, invece, è fisso sull’ascoltatore, è languido e sensuale, leggermente imbronciato, ma consapevole del momento.
Due esordi lontanissimi nel tempo, due epoche diverse, e un modo diverso di approcciarsi alla propria musica, al proprio pubblico. La Chapman è spaesata, sembra capitata per caso in un mondo che non le appartiene. Annahstasia è figlia dei suoi tempi, una ragazza cresciuta nel mondo dei social, che comprende quanto la comunicazione e l’immagine siano necessarie per emergere, per avere successo.
Un
lungo preambolo reso necessario dal fatto che queste due straordinarie
artiste, separate dall’età e da epoche lontanissime tra loro,
condividono molto. In primo luogo, un timbro vocale simile (Annahstasia,
talvolta, per certe disperate profondità evoca anche Nina Simone) e un
approccio dimesso all’interpretazione, che resta comunque ricca di
sfumature. E poi, la passione per il folk, chiave di volta di entrambi i
dischi, declinato dalla Chapman con una povertà quasi francescana, e da
Annahstasia attraverso arrangiamenti minimal ma raffinati, figli del
pensiero moderno dominante del less is more.
Annahstasia pubblica musica in piccole quantità fin dai tempi dell'università, e Tether è il primo progetto sulla lunga distanza che raccoglie la sua visione artistica entro confini ben delimitati. La sua musica accosta chitarra folk, fraseggi soul, echi jazz e orchestrali in un melange sfumato ma coeso, senza lasciare che un elemento della formula si sovrapponga all'altro. In undici brani, Annahstasia dimostra come le dinamiche morbide possano avere un peso reale quando la scrittura rimane chiara e l’interpretazione è vivida, appassionata, vissuta.
La maggior parte delle sessioni si è svolta con i musicisti chiusi in un'unica stanza, in presa diretta, come si faceva una volta. Una scelta di fine artigianato, in cui si percepisce l’ambiente circostante, in uno spazio sospeso a metà fra lo studio di registrazione e le mura domestiche, dando l’impressione che gli interventi in post produzione siano stati del tutto marginali.
Se le liriche della Chapman si alternavano tra critica sociale e politica e pene d’amore, il titolo del disco di Annahstasia, Tether (legare) allude alla connessione fra esseri umani. Le canzoni riflettono su come desiderio, affetto e rispetto di sé leghino o rendano complessi i rapporti e le persone: quanta libertà possiamo mantenere per noi stessi pur continuando a prenderci cura gli uni degli altri?
La sua scrittura è poetica, figurata, evita gli slogan e spesso affianca due immagini semplici e lascia che sia l'ascoltatore a tracciarne il collegamento, il che ben si adatta allo sviluppo paziente del disco.
La scaletta inizia con "Be Kind" e il tempo sembra fermarsi, sospeso in un limbo che, nota dopo nota, accumula malinconia, prima esitante, poi sempre più intensa. Chitarra, organo e voce: adesso, il tempo fluttua con i fraseggi vocali, finché una piccola sezione di fiati non entra e solleva il brano senza disturbarne il quieto andamento.
Un arpeggio di chitarra e la voce calda e profonda di Annahstasia aprono "Villain", che si arricchisce, lentamente, di un rullante spazzolato, morbidi tocchi di piano elettrico e brevi frasi di tromba. Mentre gli accordi ruotano, la voce della cantante cresce, sostenuta da un coro gospel, evidenziando l’approccio fondamentale dell’album, che sottolinea i cambiamenti emotivi attraverso cambiamenti di volume e consistenza, piuttosto che affidandosi a drammatici ritornelli.
"Unrest" dispiega tutta la sua emotività malinconica attraverso note di piano sgocciolate e chitarra acustica, salvo poi arricchirsi di un vellutato arrangiamento di fiati. Lo stesso mood lo si trova nella struggente "Take Gare Of Me", uno dei brani più vicini all’estetica della Chapman, per quell’incedere inizialmente quasi spoglio e per quella morsa malinconica che attanaglia la gola, quando Annahstasia canta senza filtri la propria fragilità, chiedendo sensibilità e attenzione.
Tether eccelle perché si affida alla moderazione. Le scelte tecniche non sono mai in competizione con la scrittura. Il respiro, il ronzio degli archi e i piccoli cambi di tono rimangono udibili, a dimostrazione della visione del disco secondo cui la cura si manifesta nei piccoli dettagli, non nel volume puro.
In tal senso, un brano come "Overflow" riesce a essere smaccatamente pop, tenendosi lontano da ogni escamotage, puntando tutto sulla melodia e il perfetto equilibrio sonoro, risaputo, forse ma efficacissimo. "Silk and Velvet" spoglia ulteriormente la tavolozza. I graffi asciutti del violoncello incontrano un singolo battito di cassa, lasciando spazio a un finale quasi noise.
Piccole variazioni, mai eclatanti, ma perfette per rendere l’ascolto sempre più seducente. Ecco allora l’ossatura magra e la dolcezza carezzevole di "Satisfy Me" o le scosse elettriche di "Believer", che mostrano un inaspettato graffio rock, ciò che potrebbe sembrare un’anomalia, una foto fuori fuoco, e che invece compenetra perfettamente il mood dell’album.
Con "All Is. Will Be. As It Was.", entra in scena la poetessa Aja Monet. Accordi di pianoforte e una chitarra strimpellata fluttuano attorno alle riflessioni parlate della scrittrice, creando un’atmosfera che richiama quella di un locale notturno nell’ora che precede la chiusura.
Il disco si conclude con "Slow", in duetto con Obongjayar (giovane campione dell’afrobeat): il tenore granuloso di lui incontra l’estensione più bassa di Annahstasia in un punto in cui convivono quiete e attrito. Quando le loro voci finalmente si muovono all'unisono, il mix colpisce con forza proprio perché era stato trattenuto per gran parte del brano e i brividi si sprecano.
Come artista di origine nigeriana che lavora in una scena come quella di Los Angeles, spesso divisa in categorie di genere, Annahstasia evita facili schemi. Mischia le carte, crea connubi fra progressioni folk, inflessioni soul e sottili partiture jazzy, in uno stile che serve le canzoni piuttosto che qualsiasi strategia di marketing.
Tether non pretende di reinventare queste tradizioni, ma dimostra, invece, che chiarezza emotiva, qualità di scrittura e una voce distintiva e sorprendente possono ancora toccare il cuore e dare l'impressione di essere urgenti. Senza trucchi, senza eccessi, esponendo fragilità e sincerità, cercando la catarsi e non lo sconvolgimento, usando il tocco tenue del cesello e non lo stordente impatto glamour del graffito.
Voto: 9
Genere: Folk, Soul
Blackswan, martedì 05/08/2025
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