E’
curioso come il 2019 abbia visto alcuni artisti, tra i più seguiti
della scena country, cimentarsi in dischi ben lontani dalla propria
comfort zone. Mi viene in mente Sturgill Simpson, con il suo Sound & Fury, disco di pop rock curioso, inaspettato e, comunque centrato, o il mainstream di plastica di The Owl,
della Zac Brown Band, che, absit iniuria verbis, è forse il peggior
disco ascoltato quest’anno. Ora, ci prova anche una stella di prima
grandezza come Miranda Lambert che, giunta al suo settimo album in
studio, rilascia questo Wild Card (titolo azzeccatissimo), una raccolta di canzoni con cui la songwriter texana si cimenta con generi di solito poco frequentati.
Un
disco clamorosamente mainstream e clamorosamente radiofonico, in cui la
plurivincitrice di Grammy Awards esce dallo steccato dell’americana,
per cimentarsi in uno zibaldone musicale in cui confluiscono pop
(molto), rock, blues, soul, country, declinati con una maestria concessa
solo ai grandi. C’è tutto e il contrario di tutto in Wild Card,
e forse solo chi, come la Lambert, vive nell’Olimpo degli artisti più
amati dagli americani, poteva permettersi un tale azzardo. D’altra
parte, la fama e il successo sono spesso il grimaldello necessario per
aprire la porta della libertà artistica, ma da sole, ovviamente, non
bastano. Servono ispirazione, serve fantasia, serve soprattutto la
capacità di scrivere, comunque, grandi canzoni, e la Lambert, in tal
senso, è una sicurezza.
Ciò
premesso, è inevitabile fare una premessa: questo è un disco che farà
storcere il naso ai puristi del suono americano, perché Wild Card,
pur mantenendo alcuni episodi e una strumentazione prevalentemente
roots, è soprattutto un album aperto alla contaminazione, in cui si
respira libertà creativa in ogni singola traccia. Se è vero che le
quattordici canzoni in scaletta possiedono un mood smaccatamente
radiofonico, è altrettanto vero che la Lambert evita di prostrarsi alle
mode del momento, e cerca semmai strade alternative, riesumando anche
suoni clamorosamente retrò.
Alla
consolle, in tal senso, ha fatto un lavoro clamoroso il tanto
vituperato Jay Joyce (Eric Church, Patty Griffin, Emmylou Harris), che
ha arricchito ogni canzone di idee e spunti inaspettati, modellando
suoni che, spesso, sono lontanissimi da ciò che conoscevamo di Miranda.
Il disco si apre con White Trash,
che è un blues imbastardito con l’elettronica: pimpante, volutamente
easy e accattivante e, per certi versi, tutto il contrario da quello che
ti aspetteresti da un brano blues. Poi, ascolti quei suoni,
l’alternanza tra pieni e vuoti, l’utilizzo della resofonica e l’assolo
di chitarra a metà brano e capisci che questa canzone è tutt’altro che
banale. Quando parte poi la successiva Mess With My Head puoi
davvero immaginare le urla di disappunto di tutti gli ortodossi
americanisti che puntano il dito accusando la Lambert di apostasia.
Eppure, questa canzone così deliberatamente leggera e pop, dice
apertamente che Miranda non guarda in faccia a nessuno e ha coraggio da
vendere. E ci vuole fegato per sfornare un pezzo che avrebbe potuto
scrivere Katy Perry dieci anni fa e ammantarlo, poi, di sonorità ’80,
con molto più gusto, peraltro, di chiunque altro, e sono tanti, oggi
provi a fare le stesse cose. E diciamocelo, senza fare quelli che se la
tirano: il ritornello è perfetto, lo canticchi dopo un solo ascolto, e
la struttura del brano, apparentemente insipida, è invece lontanissima
da schemi preconfezionati (ascoltate l’assolo di chitarra e il
successivo raccordo con la strofa e ditemi dove l’avete già ascoltato
prima).
C’è
da perderci la testa in questo disco, in cui il mood continua a
cambiare, i generi si susseguono uno all’altro senza soluzione di
continuità, legati solo dal fil rouge dell’inventiva. In questo flipper
stilistico ed emozionale, si passa dal blues gospel di Holy Water (i suoni delle chitarre sono da urlo), al divertissement adolescenziale di Way Too Pretty For Prison, alla sfuriata punk blues di Locomotive, alla pop wave anni ’80 di Track Record.
Poi ci sono anche lente passeggiate nei territori che Miranda conosce meglio: il mid tempo malinconico di Fire Escape (il ritornello manda KO per quanto è bello), gli struggimenti d’amore e la melodia cristallina di How Dare You Love, con quel suono che arriva da un disco di cantautorato anni ’70 (lo stesso suono che troverete nella filastrocca Pretty Bitchin’), il country sbilenco di Tequila Does (elegante e inconsueto come una bella donna un po’ alticcia) o il distillato di nostalgia della conclusiva Dark Bars.
C’è la concreta possibilità che Wild Card
venga bastonato a sangue dalla stampa nostrana: troppo poco roots,
troppo pop, troppo lontano da ciò che conosciamo della Lambert. Eppure,
se si ascolta il disco senza preconcetti, aperti alla possibilità che un
artista possa cambiare, cercare nuove strade, evolversi, se si accetta
che il pop non sia necessariamente una iattura, ma una forma espressiva
con un nobile pedigree, e che essere mainstream, con intelligenza e
gusto, è la cosa più difficile da realizzare, quando si scrivono
canzoni, questo nuovo capitolo della discografia della Lambert suonerà
esattamente per quel che è: un gran disco. E da appassionato di musica
americana e da fan della prima ora, mi permetto di aggiungere che è il
suo migliore di sempre, Pistol Annies comprese.
Voto: 8
Blackswan, mercoledì 27/11/2019
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