Mai
come in questo caso è doveroso partire da una notizia che solo in parte
ha a che vedere con la recensione di quest’album. Threads, stando alle
dichiarazioni di Sheryl Crow che ne hanno anticipato l’uscita,
sembrerebbe, infatti, essere l’ultimo disco in studio della songwriter
del Missouri. La musica è cambiata, nessuno più ascolta un disco per
intero, tutti si fanno playlist, e allora che senso ha pubblicare full
lenght che ormai hanno perso ogni fascino e attrattiva? Questo in
sostanza il pensiero della Crow, che alle soglie dei sessant’anni ha
deciso di tirare i remi in barca, almeno per quanto riguarda questo
aspetto della sua carriera. Continuerà a tenere concerti e a scrivere
canzoni, ma niente più dischi.
Una
circostanza, che getta una luce particolare su Threads, raccolta di
canzoni inedite e cover, in cui Sheryl duetta con amici e ospiti, tutti
di notevole peso artistico. Una sorta di celebrazione di celebrazione di
quasi trent’anni di carriera, un testamento spirituale, una grande
festa d’addio o il canto del cigno, scegliete voi la definizione che
ritenete più opportuna.
Sta
di fatto che per quest’ultimo capitolo, la Crow ha fatto le cose in
grande, convocando a sé un parterre de roi da far tremare le vene nei
polsi. Insomma, ci sono quasi tutti, da Willie Nelson a Keith Richards,
da Stevie Nicks a Jason Isbell, da James Taylor a Neil Young. Tanta
carne al fuoco, dunque, e forse troppa: il disco, infatti, è molto lungo
e non tutto risulta essere all’altezza delle aspettative. E’ come se la
Crow, presa da brama completista, avesse voluto inserire in questo
lungo addio tutto quello che aveva nei cassetti.
Intendiamoci,
non c’è nulla di veramente inascoltabile, a parte forse la stucchevole
chiusura di For The Sake Of Love in duetto con Vince Gill, ma alcune
canzoni sono, per così dire, prescindibili (The Worst con KeithRichards,
Story Of Everything con Chuck D, Andra Day e Gary Clark Jr e Don’t con
Lucius). Il resto invece non è affatto male, con alcuni vertici di
livello altissimo.
Se
l’iniziale ed esuberante, Prove You Wrong (con Stevie Nicks e Maren
Morris), una Live Wire dalle cadenze bluesy (con Bonnie Raitt e Mavis
Staples) o la radiofonica Wouldn’t Want To Be Like You (con St. Vincent)
confermano un ritrovato stato di forma, quando Sheryl si trova a
duettare con vecchi mostri sacri, la bellezza del disco subisce
un’impennata. I duetti con Willie Nelson (la struggente Lonely Alone),
Kris Kristofferson (l’intensa Border Lord) e quello con Emmylou Harris
(Nobody’s Perfect), infatti, rientrerebbero di diritto in un prossimo
greatest hits della songwriter statunitense.
Una
menzione a parte merita l’antimilitarista Redemption Day in duetto con
Johnny Cash, canzone che “the man in black” aveva già inciso per
American VI: Ain’t No Grave, e che oggi vede nuova luce con le parti
vocali di Sheryl aggiunte postume. Emozionante vetta di un disco bello,
anche se non eccelso, che rende comunque l’addio alle scene della Crow
un po' più doloroso.
VOTO: 7
Blackswan, venerdì 13/09/2019
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