domenica 11 ottobre 2020

HOWARD JONES - LIVE ACOUSTIC AMERICA (Mercury/Warner Music 1996)

 


Abile tessitore di irresistibili trame melodiche, pianista e tastierista tecnico e versatile, autore forse non originalissimo, ma capace comunque di sfornare hit spacca classifica, Howard Jones, sessantacinquenne musicista originario di Southampton, vive i suoi anni di gloria nel decennio eighties, diventando artista iconico dell’allora imperante synth pop.

La carriera di Jones, dopo la solita gavetta, prima con la band prog dei Warrior e poi come one man show, ha inizio nel 1984 (grazie ai buoni offici di John Peel) con la pubblicazione di Human’s Lib, best seller che gli garantisce fin da subito l’attenzione dei media e un imponente stuolo di proseliti. Numeri impressionanti per un esordiente, dal momento che il disco conquista la prima piazza delle charts britanniche, dove rimane per cinquantasette settimane, vince due dischi di platino e piazza quattro singoli nella top twenty britannica: New Song al terzo posto, What Is Love? al secondo, Hide And Seek al dodicesimo e Pearl In The Shell al settimo. Non male per il non più giovanissimo Jones (allora ventottenne), che da artista semisconosciuto diventa star di rilevanza mondiale.

Il successo si ripete l’anno successivo con il sophomore Dream Into Action, che spopola in Inghilterra e nel mondo, trainato da un altro pugno di irresistibili singoli: Things Can Only Get Better, Like To Get To Know You Well, Life In One Day e Look Mama.

Il clamore mediatico intorno alla figura di Jones, però, comincia a scemare, e pur mantenendo un nutrito stuolo di aficionados, il musicista comincia a perdere un po' di colpi, sia a livello di vendite, con l’ottimo One To One (1986), che d’ispirazione (il poco ispirato Cross That Line del 1989). Anche il nuovo decennio si apre con questa tendenza, e pur mantenendo una caratura artistica più che dignitosa, il pianista britannico pare sempre più lontano dai fasti di metà anni ’80.

Quando Jones pubblica il suo primo disco dal vivo, Live Acoustic America (1996), è iniziata già da qualche anno la fase calante della carriera, e Jones, da popstar acclamata si è trasformato in musicista affidabile, elegante artigiano di una musica meno “glitterata” ma capace comunque di raggiungere ancora orecchie e cuore di uno zoccolo duro di fan appassionati.

Non è un caso, quindi, che il 28 aprile del 1992, data in cui il concerto viene registrato, il Variety Arts Theater di Los Angeles sia sold out e che Jones decida di pubblicare un live interamente acustico, voce, pianoforte e le percussioni della straordinaria Carol Steele (Peter Gabriel, Joan Baez, Steve Windwood, Tears For Fears), come a voler tracciare un solco con il glorioso passato (successivamente, negli anni ’00, Jones pubblicherà due dischi intitolati Piano Solos).

Diciassette tracce in scaletta in cui il pianista affronta il meglio del proprio repertorio (manca Hide And Seek, ed è un vero peccato), si abbandona a brevi digressioni pianistiche, sfiorando jazz e classica e dimostrando di essere pianista sopraffino, e tira a lucido Come Together dei Fab Four, cover abusatissima, ma qui riletta con gran piglio.

Funziona tutto bene, in questo live: le brillanti melodie pop, spogliate dai paludamenti synth, rivelano un’affascinante anima soul, il lavoro della Steele è efficacissimo e dà nerbo all’esecuzione, e non manca neppure il singalong del pubblico, con cui Jones interagisce divertito.

In scaletta, un filotto di canzoni straordinarie, da Don’t Always Look At The Rain a No One Is To Blame, da What Is Love? a New Song, da Like To Get To Know You Well a Things Can Only Get Better. Il tutto, per una serata appassionata, divertente e, inevitabilmente pervasa da languori di nostalgia canaglia, che spinge inevitabilmente alla lacrimuccia quella generazione che negli eighties aveva vent’anni e che a riascoltare queste canzoni torna con la mente e i ricordi ai giorni felici della giovinezza.

 


 

 

Blackswan, domenica 11/10/2020

 

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