venerdì 30 ottobre 2020

TYLER BRYANT & THE SHAKEDOWN (Snakefarm Records, 2020)

 


Quando nel 2013 uscì Wild Child, esordio sulla lunga distanza di Tyler Bryant e dei suoi Shakedown, si creò un immediato hype sul giovane chitarrista, emulo di tanti guitar heroes del passato e creatore di un rock blues solido, muscolare e, diciamolo pure, clamorosamente passatista. Niente che non si fosse già ascoltato migliaia di volte, certo; eppure, quel disco assemblava un lotto di canzoni impetuoso e brillante, suonato col ringhio sudato dei vent’anni e con tecnica notevole.

Una band affiata, di gente che il suo lo ha sempre saputo fare egregiamente (Caleb Crosby alla batteria e Graham Whitford, figlio di Brad Whitford degli Aerosmith) e un songwriting che, pur pagando debito, e che debito, al passato, produceva canzoni che rileggevano un canovaccio un po' frusto ma con disarmante passione.

In seguito, le luci dei riflettori si sono un po' abbassate, il trio (a cui bisogna aggiungere il bassista Noah Denney) si è comunque creato un discreto seguito e ha rilasciato altri due dischi, nemmeno questi particolarmente originali, con cui la band ribadiva concetti noti, strizzando talvolta l’occhio a sonorità radiofoniche.

Il nuovo Pressure non si discosta di molto dai suo predecessori: blues elettrico, vampate hard, ammiccamenti al southern, qualche luccichio sleaze e glam, qualche brano ripulito dal lucido mainstream. Tuttavia, questa volta, nonostante una scaletta che non nasconde le proprie derivazioni (lo spettro va dagli Aerosmith al rock sudista, dall’hard rock settantiano al blues più sanguigno) e un alto tasso di prevedibilità, le canzoni sembrano finalmente ritrovare la freschezza dell’esordio, in un alternarsi di sonorità che rendono Pressure un disco vario e brillante.

Si parte a razzo, con la bordata hard della title track, chitarroni distorti, riff urticante e tiro pazzesco. Bryant, poi, dimostra di essere un chitarrista coi controfiocchi, pochi assoli, magari, ma tutti ficcanti e letali. Quando la band mostra i muscoli, tira fuori dal cilindro i numeri migliori e regala al pubblico pagante sferzate elettriche come Automatic e Fuel, capaci in pochi minuti di frantumare le casse dello stereo.

Il disco mette in mostra, però, anche l’inclinazione del trio verso il southern rock e il rock blues: la slide e il riff scartavetrato di Hitchhiker alzano il tasso di adrenalina nel sangue, il passo lascivo di Holdin’ My Breath vede il contributo sudista di Charlie Starr dei Blackberry Smoke, e il tiro diretto di Crazy Days, canzone scritta durante il lockdown, che vede la partecipazione di Rebecca Lovell, una delle Larkin Poe e moglie di Bryant, è di quelli che fanno abbassare il finestrino dell’auto per essere schiaffeggiati da un corroborante vento di chitarre.

Poi, c’è qualcosa che funziona meno bene: il taglio radiofonico di Wildside, il cantato rap e il ritornello a la Aerosmith annaspano nella banalità, mentre Like The Old Me, nonostante la discreta melodia, è un ballatone troppo consunto per essere credibile. Chiude, però, e compensa, il blues tutta polvere di Coastin’, breve, classicissimo, ma decisamente riuscito.

Niente di nuovo in casa Bryant, quindi, ma un album che pur nei suoi evidenti limiti, si fa ascoltare più volte e con grande piacere. Certo, se non amate particolarmente il genere e la chitarra elettrica vi procura l’orticaria, state pure alla larga. Diversamente, spendere dei soldi per Pressure si potrebbe rivelare un’idea azzeccata.

VOTO: 7

 


 

 

Blackswan, venerdì 30/10/2020

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