Una carriera solista partita in sgommata e un successo imprevedibile. Probabilmente nemmeno lo stesso Fender, musicista ventisettenne originario di North Shields, ci avrebbe sperato: esordire ed essere in vetta alle classifiche inglesi, portarsi a casa un disco d’oro, aggiudicarsi il Critics' Choice Award ai Brit Awards del 2019 e, l’anno successivo, venire nominato Best New Artist ai BRIT Awards.
Il motivo di questa esplosione è molto semplice: Fender è di un livello superiore. Possiede una voce pazzesca, non solo potente, ma anche incredibilmente versatile per un ragazzo della sua età, e scrive grandi canzoni, fresche ma profonde, capaci di intercettare gli smarrimenti e i disagi della propria generazione, in modo sincero e tenendosi lontano dalle banalità.
Geordie Springsteen, così lo chiamano i suoi fan, guarda al grande rocker americano, a cui si ispira per l’intensità delle liriche, per lo spirito indomito che pervade di potenza le sue canzoni e per certe sonorità immediatamente riconducibili al Boss (la title track che apre il disco). Si tratta, però, solo d’ispirazione, di un modello a cui rifarsi: la musica di Fender non è un copia incolla di quella di Springsteen, ma è libera, appassionata, e suona originale e seducente.
L’inziale "Seventeen Going Under" incarna lo spirito del disco, è la chiave di volta per comprendere la poetica di Fender e il senso di undici canzoni che sembrano la perfetta colonna sonora di un film di formazione: tanta energia e tanto entusiasmo, la sopresa della scoperta, ma anche una visione ben calibrata e incredibilmente matura sul mondo circostante. Tutto, insomma, gira a mille nei solchi di quest’album, semplice e diretto, eppure ribollente di pathos, appassionante testimonianza di come nelle mani giuste il rock possa ancora suonare incredibilmente attuale. Il tiro di "Getting Started", nella sua linearità, riesce a essere contemporaneamente famigliare ed eccitante, Aye è attraversata da una drammatica tensione sotterranea, è furia allo stato puro che non ha bisogno di spingere sui volumi per mandare al tappeto anche il più distratto degli ascoltatori. "Get You Down" è un’altra delle classiche canzoni di Geordie Springsteen: la foto del Boss nel taschino, la ritmica diritta, la potenza delle chitarre e l’immancabile sax di Johnny Bluehat Davis a creare un muro di suono indistruttibile.
Un marchio di fabbrica, che non viene però reiterato all’infinito, perché Fender ha idee da vendere, e può sperimentare, come nell’incredibile "Leveller", gli archi che si muovono in perfetto sincronismo con la batteria, il cantato ipnotico di Sam che riempie i quattro minuti del brano con una stranissima sensazione malinconica. Sensazione che si prova quando il giovane rock si rinchiude in una dimensione più intima, dimostrando di saperci fare con l’intricato fingerpicking di "Spit Of You", in cui racconta le ansie della crescita, le insicurezze e la vulnerabilità di chi fatica a relazionarsi col prossimo, o con il lento sviluppo melodico della pianistica "Last To Make It Home". Due canzoni, queste ultime, che dimostrano quanto Fender sia in grado di essere sia fragile che potente, a volte anche all'interno della stessa melodia.
Il ragazzo, poi, non rinuncia nemmeno all’impegno politico e sociale, cosa che avviene in "Long Way Off", riff contagiosi, archi e ritmica basica, per una canzone che invita a schierarsi e a stare sulle barricate, o in "Paradigms", che getta uno sguardo pessimista sul degrado etico della società. Chiudi il disco "The Dying Light", una ballata rubacuori, in cui Fender mette al centro il pianoforte e la sua voce potente, prima di liberare la melodia in un crescendo springsteeniano gonfio di pathos.
Chiosa perfetta per un album che è addirittura superiore al celebrato esordio e che definisce lo stile di uno dei migliori songwriter in circolazione, capace di far convivere nella propria musica classicismo e innovazione, rabbia e dolcezza, il rosso accesso del furore giovanile e i pastelli sfumati di una meditabonda malinconia. Discone.
VOTO: 8
Blackswan, mercoledì 05/01/2022
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