“When I was just a baby, my mama told me, son always be a good boy, don't ever play with guns, But I shot a man in Reno, just to watch him die”
(Quando ero solo un bimbo, mia mamma mi disse: figlio sii sempre un bravo ragazzo, non giocare mai con le pistole. Ma uccisi un uomo a Reno, solo per vederlo morire).
Quello citato poc’anzi, è il verso più famoso di Folsom Prison Blues, canzone che uno sconosciuto Johnny Cash scrisse agli inizi del 1950 e che registrò e portò al successo solo successivamente, nel 1957, quando iniziò a incidere per la mitica Sun Record di Sam Philips. Una canzone che, a dispetto del ritmo caracollante, suona amara e malinconica, perché racconta una storia di prigionia, di dolore e rassegnazione. Protagonista del brano è un uomo imprigionato nel penitenziario di Folsom. Se ne sta chiuso in cella da tempo immemore (“Sono rimasto rinchiuso nella prigione di Folsom dove il tempo scorreva interminabile”) ad ascoltare il rumore del treno che passa proprio vicino al penitenziario (“Sento quel treno che arriva, arriva da dietro la curva”). Un rumore che è fonte di nostalgia, di riflessioni sui propri errori e su una speranza di libertà che non arriverà mai (“Quando sento quel treno che avanza piego la testa e piango”).
Cash tinteggia in nero una storia di ordinaria violenza, non vuole commuoverci, ma solo raccontare i fatti, la solitudine della prigionia, l’angoscia che si prova per un futuro già scritto e che non potrà essere emendato. Quel verso fulminante (e disturbante), citato all’inizio, ci impedisce ogni partecipazione alle sorti del prigioniero, che non ha alcuna giustificazione per il reato commesso, perché ha sparato a un uomo “solo per vederlo morire “. Nessuna vera motivazione, dunque, non la gelosia per una donna, non il denaro, non una lite. Nulla che dia un senso alla morte. Non c’è odio, non c’è rabbia, non c’è alcun sentimento, per quanto negativo, che possa giustificare l’orrendo crimine, solo la violenza per il gusto della violenza. Non si intravvede un solo filo di luce che illumini la scena: il calore del sole è soltanto intuito (“Non ho più veduto la luce del sole da talmente tanto tempo che nemmeno io mi ricordo da quando”), e nel buio rimbombano lo sferragliante passaggio del treno e lividi pensieri di morte.
Per tutta la narrazione, Cash non cerca mai la strada della comprensione e del perdono, perché non vuole mitigare la tragicità del racconto. Che anzi, prova a esasperare accennando una caustica querelle sociale, in cui si pone l’accento sulla diseguaglianza fra ceti (la vita dei ricchi è un treno in movimento, quella dei poveracci è una cella buia), sulla lotta di classe e il rancore che ne deriva (“scommetto che ci sono persone ricche nelle sue fantastiche carrozze risplendenti e probabilmente bevono caffè e fumano grossi sigari”).
E’ un Cash giovanissimo quello che scrive Folsom Prison Blues. Non gli sono ancora piombate addosso le pressioni dello star system, ancora non si sono acuite la costante e deleteria conflittualità col padre, le angosce di una vita sentimentale insoddisfacente (che risolverà solo con il divorzio da Vivian e il matrimonio con June Carter), i problemi di dipendenza dalle anfetamine (da cui, peraltro, non si libererà mai completamente) e gli inevitabili strascichi giudiziari (arrestato per possesso di stupefacenti nel 1965, sfiorerà quella prigionia così amaramente descritta nella canzone).
Ma quando nel 1968 si reca alla Folsom Prison per tenere un concerto da lui fortemente voluto, nonostante la resistenza della sua casa discografica, quelle tragedie le ha vissute già tutte. Canta per i detenuti, ed è come se cantasse per sé stesso. Conosce il dolore e conosce la tribolazione, conosce il pane duro della condanna e della reclusione (per lui la dipendenza dalla droga, per il suo pubblico il carcere), e gli anfratti disperati in cui vivono i reietti, li ha frequentati tutti. C’è una profonda empatia fra i detenuti di Folsom e Cash, la consapevolezza del peccato e l’attesa di un’impossibile redenzione. C’è la musica a creare un improbabile legame fra la rockstar e i negletti che lo ascoltano.
Non è un caso, quindi, che il concerto (da cui sarà tratto un leggendario disco dal vivo) preveda una scaletta anomala rispetto al repertorio di Cash, che omette volutamente canzoni famosissime, ma lontane dalla realtà carceraria (I Walk The Line, Ring Of Fire), per proporre, invece, un repertorio maggiormente “condiviso”, tra cui spiccano Send A Picture Of Mother (l’angoscia della prigionia), 25 Minutes To Go (il patibolo che attende all’alba) e la ballata disperata di I Still Miss Someone. Ed è altrettanto ovvio che The Man In Black apra il concerto eseguendo proprio Folsom Prison Blues, così da restituire la canzone, qui in una versione memorabile, ai legittimi proprietari.
Blackswan, giovedì 27/01/2022
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