Io sono
springsteeniano. Che equivale a dire io sono cattolico, protestante, buddista,
e così via. Per chiarezza espositiva verso chi ancora non lo sapesse,
Springsteen non è una semplice rockstar, ma una religione, una fede, un dogma
ineffabile. Questo film documentario, diretto da Baillie Walsh e prodotto da
Ridley Scott, ha proprio lo scopo di raccontare il Boss attraverso lo sguardo
(incantato) di innumerevoli fedeli, ops ! fans, sparsi in tutto il mondo. Tra
questi, noterete, ci sono i praticanti ortodossi, che ascoltano solo Bruce, che
ne parlano di continuo, che custodiscono dischi, biglietti, filmati come
fossero relique, e quelli, invece, come il sottoscritto, che nonostante la
passione, riescono a mantenere ancora un rapporto ottimale con la realtà
circostante (durante la visione, ho pianto solo tre volte e solo quando mi sono
alzato dal divano per baciare lo schermo). Una storia, quella che lega
Springsteen ai suoi fans, che non ha eguali al mondo, questo ce lo devono anche
i detrattori, e che si nutre di reciproci e continui tributi d’affetto. Perché
il boss, anche questo ci devono i detrattori, è capace come nessun altro di
abbattere la barriera che separa la rockstar dal pubblico, di essere ciò che
semplicemente è: un uomo comune in mezzo alla gente comune. Non stupisce più di
tanto allora, vedere il Springsteen far salire sul palco un finto Elvis e
consegnargli il microfono per cantare insieme All Shook Up, o consolare un fan
appena scaricato dalla fidanzata davanti a una platea emozionata, o fermarsi
per strada a suonare la chitarra insieme a dei completi sconosciuti. Questo è
il Boss che emerge da decine di racconti di fans, da cui trapela, in una
festante carrellata di interventi, un amore così intenso e viscerale da
lasciare a volte senza parole (il fan che si mette a piangere mentre spiega il
senso delle canzoni di Bruce). Un film gioioso, emozionato ed emozionante,
arricchito da una sezione bonus da far tremare le vene dei polsi :sei tracce
dall’ormai mitico live di Springsteen all’ Hyde Park di Londra del 2012,
proprio quello interrotto dalla polizia, e al quale partecipò anche Paul
McCartney. Insieme i due cantarono Twist
and Shout e I Saw Her Standing
There, lasciando il pubblico, nemmeno il caso di dirlo, a bocca spalancata. Da
quella serata, c’è anche una versione di Thunder Road che, a parere di scrive,
è tra le migliori di sempre. Grazie di tutto, blood brother: i love you.
MIGLIOR FILM:
ZERO DARK THIRTY di KATHRYN
BIGELOW
DJANGO UNCHAINED di QUENTIN TARANTINO
Due grandi cineasti sfornano due autentici capolavori. Difficile
scegliere quale dei due sia il migliore. Quindi opto per un ex aequo che,
credo, non dispiacerà a nessuno.
MIGLIOR LIBRO DELL’ANNO:
JOEL DICKER – LA VERITA’ SUL CASO HARRY QUEBERT
Furbetto e ruffiano fin che si vuole, ma il secondo romanzo di Dicker si
è rivelato un’autentica bomba. Intreccio irresistibile, colpi di scena a go go
e un finale all’altezza delle aspettative.
IL MOMENTO TRISTE:
LOU REED & DON GALLO
Il 2013 è stato un anno funestato da molti lutti eccellenti, alcuni dei
quali, per il sottoscritto, assai dolorosi. Con la morte di Lou Reed e di Don Gallo ho perso una parte di me stesso.
IL MOMENTO FELICE :
RADIOPANESALAME
Un’esperienza iniziata per gioco che mi ha fatto conoscere nuovi amici e
mi ha riempito le giornate di gioia. Oggi, la radio è cresciuta, in ascolti e
qualità. Il 2013 ha portato il sito (http://www.radiopanesalame.it/),
il 2014 porterà nuovi programmi e nuove entusiasmanti esperienze.
L’UOMO DELL’ANNO:
ANTONINO DI MATTEO
L’uomo che sta indagando sulla trattativa Stato-Mafia, minacciato di
morte dalla cupola, abbandonato dalle istituzioni che dovrebbero proteggerlo.
Un eroe dei nostri tempi, di cui nessuno parlerà mai abbastanza.
A non conoscere la caratura artistica dei Counting
Crows e a essere un pò maliziosi, si potrebbe anche pensare che la band
capitanata da Adam Duritz sia al raschio del barile. Dal 2002, cioè dai tempi
di Hard Candy, i Corvi hanno rilasciato un solo disco di canzoni
originali (Saturday Nights & Sunday Mornings del 2008, peraltro composto di
materiale datato). Per il resto, è stato un susseguirsi di album live
(New Amsterdam e August And Everything After : Live At Town Hall ),
di best of (Films About Ghosts) e da ultimo di una raccolta, ancorchè
prestigiosa, di cover di brani altrui (Underwater Sunshine). Oggi, i Counting
Crows tornano sulle scene e, un pò a sorpresa, lo fanno con l'ennesimo
disco live, composto di canzoni registrate durante il loro tour americano del
2012. Verrebbe quindi da storcere il naso e soprassedere dall'acquisto di un
disco che probabilmente, appare quasi scontato, nulla aggiunge a quanto
già di buono conosciamo della band americana. Eppure, chi ha sempre seguito i
Counting Crows, sa benissimo che la dimensione live è quella in cui il gruppo
si esprime al meglio e soprattutto sa, dopo aver ascoltato l'ultimo lavoro in
studio uscito lo scorso anno, che ci troviamo di fronte a una band che vive il
suo stato di grazia, a prescindere da una certa carenza creativa. Per questo,
nonostante tutti i legittimi dubbi della vigilia, Echoes Of The Outlaw Roadshow
si rivela invece un gran bel disco, suonato al meglio da sette
musicisti, perfettamente a loro agio nel gestire l'alternanza fra suono elettrico
e acustico, e nel dosare in parti eguali cuore e tecnica. Anche la
scaletta è ben studiata ed evita con cura i luoghi comuni del greatest hits
live. Round Here c'è e non potrebbe essere altrimenti : non è solo la
magnifica canzone che tutti conosciamo, ma è soprattutto una sorta di condivisa
catarsi musicale, un rituale imprescindibile che lega i Counting Crows ai
propri fans fin dalla notte dei tempi. A renderla magica, non è solo la
strabiliante melodia, ma il modo sempre diverso con cui Duritz la propone,
cambiando gli accenti al cantato, dilatandone i tempi, intridendola di
soul oppure, come nel caso specifico, sporcandola di rock. L'unica altra
canzone tratta da August and Everything After è Rain King, mentre il resto
della scaletta pesca da tutti gli altri album più o meno in egual misura.
Citazione a parte merita la cover di Girl From The North Country di Bob
Dylan con cui il disco ha inizio e che Duritz reinterpreta con rara e ispirata
commozione. Da brividi.
2) NICK CAVE & THE BAD
SEEDS – LIVE FROM KCRW
Abbandonate (o solo accantonate) le
asprezze noise targate Grinderman, il nuovo Nick Cave ha dato alla luce, a
inizio anno, a un disco, Push The Sky Away,dall’andamento sommesso, composto di canzoni che si
muovono con passo felpato attraverso atmosfere spesso rarefatte, celando la
propria crepuscolare bellezza nell'ipnotica omogeneità di suoni distanti dal
consueto repertorio dell’ultimo re inchiostro. Insomma, un ritorno alla
ballata, al pianoforte, ad atmosfere tristi e malinconiche, a una scelta
stilistica figlia delle derive cinematografiche vissute da Cave a fianco del
fedele Warren Ellis. Questo Live From KCRW ricalca in toto, con l’eccezione
della conclusiva, scalciante, Jack The Ripper tratta da Henry’s Dream del 1992,
le sonorità di Push The Sky Away ed è costituito da una scaletta di canzoni
suonate in modo intimista, in un contesto raccolto, innanzi ad un pubblico di
centoottanta fortunati invitati per l’occasione. Registrato presso gli studi
californiani della KCRW e mixato magistralmente da un santone come Bob
Clearmountain (Rolling Stones, Bruce Springsteen, Tears For Fears, Tori Amos,
tra gli altri), il concerto si sviluppa attraverso ballate in cui a farla da
padrone è la voce profonda e tormentata di Cave, sorretta ottimamente da
organo, pianoforte, basso, chitarra e batteria, utilizzati sempre in chiave
elettro-acustica. Un disco suonato con precisione dai Bad Seeds, in cui però la
perizia tecnica non fa mai venir meno la tensione emotiva che pervade di
febbrile lirismo le dieci tracce dell’album (dodici nella versione in vinile,
in cui compaiono pure Into My Arms e God Is In The House). Una performance così
tanto convincente da farci sbilanciare affermando che questo è il miglior disco
dal vivo di Cave, migliore di Live Seeds (1993) e perfino del già notevole The
Abbatoir Blues Tour (2007). E' davvero difficile trovare il meglio in un
filotto di canzoni tutte egualmente appassionate. Ma l’iniziale Higgs Boson
Blues, uno dei brani più riusciti di Push The Sky Away insieme a Jubilee Street
(purtroppo qui assente) e la disperata The Mercy Seat, eseguita per pianoforte,
violino e voce, valgono da sole il prezzo del biglietto. Un disco dannatamente
bello, anzi bellissimo.
1) RY COODER & CORRIDOS
FAMOSOS – LIVE IN SAN FRANCISCO
Sembrava
incredibile che uno dei più grandi musicisti e compositori del secolo
scorso, in attività fin dal lontano 1965, si fosse limitato a un solo live
in più di quarant'anni di carriera. L'unica testimonianza di Cooder on stage,
infatti, si intitola Show Time, è stato pubblicato nel lontano 1977,
e contiene registrazioni tratte da due live act tenutisi al Great American
Music Hall di San Francisco, le notti del 14 e 15 dicembre del 1976. Oggi, a
distanza di ben 36 anni, l'immenso chitarrista di Santa Monica torna finalmente
con un nuovo disco dal vivo e, guarda caso, registrato ancora a San
Francisco e ancora nello stesso teatro, questa volta però il 31 agosto e il 1
settembre del 2011. Della line up di quel lontano show del '77 ci sono
nuovamente Flaco Jimenez (alla fisarmonica) e Terry Evans (ai cori), che nello
specifico vanno a integrare un numerosissimo parterre de roi, composto dai
Corridos Famosos (tra cui anche Joachim Cooder alla batteria e
Robert Francis al basso) e La Banda Juvenil, big band messicana di dieci
elementi che aveva già acconpagnato Cooder nella registrazione dell'ottimo Pull
Up Some Dust And Sit Down (2011). In scaletta, alcuni classici già presenti nel
disco del 1977 (Volver,Volver, School Is Out, The Dark End Of The Street),
brani più recenti (il reggae'n'gospel sincopato e tarantolato di Lord Tell Me
Why) e alcune cover, tra cui la celeberrima Goodnight Irene, traditional
portato al successo da Leadbelly, e uan rilettura in chiave elettrica di
Vigilante Man di Woody Guthrie, con la chitarra di Ry davvero sugli scudi.
Tuttavia, non è solo un filotto di canzoni strepitose, che fondono in un
abbraccio indissolubile rock, americana, blues e folk mariachi, a rapirci tanto
il cuore quanto le orecchie. Ciò che davvero incanta di questo live denso,
umorale, e variegatissimo, è la caratura tecnica dei musicisti all'opera e
l'inaudita qualità dell'esecuzione. In queste dodici tracce infatti ci sono
proprio tutti gli elementi che rende leggendaria una performance live: un suono
calibrato e impetuoso, la perfetta coesione e interazione fra tutti i
componenti della band, una tecnica mostruosa (d'altra parte, stiamo parlando di
gente che suona con Ry Cooder, mica pizza e fichi), e soprattutto un
trasporto e un'intensità tali, da trasformare in momenti di gioioso ascolto
anche le pause fra un brano e l'altro, quando Ry presenta le canzoni e scherza
col pubblico. Live in San Francisco contiene numerosi episodi davvero indimenticabili
(tra gli altri, The Dark End Of The Street, Wooly Bully e la graffiante Crazy
'bout an Automobile), tanto che, se volessimo abbandonarci al compiacimento
dell'iperbole, verrebbe da dire che questo è uno dei dischi live più belli del
nuovo millennio. Dal momento invece che voglio mantenere un profilo decisamnete
più basso, chioso la recensione parafrasando una fulminante battuta usata
da Carlo Verdone in una mitica scena del film Io e Mia Sorella: "n'artro
pianeta!". Le canzoni, Ry Cooder e questo disco.
Così
gli Arcade Fire, dall'alto dello scranno accademico, vendono per alta cucina
una sbobba insipida cucinata con tutti gli avanzi trovati in frigor.
Ovviamente, il piatto è servito con grande eleganza e attenzione quasi
maniacale a quei suoni di tendenza che piacciono alla gente che piace :
samples, elettronica a go go, overdubs, florilegio d'archi e un certo piglio
trash da dancefloor. Ma nonostante gli sforzi di apparire glamour, versatili ed
eccentrici, il risultato finale è di una mediocrità disarmante. Nel marasma
generale, non c'è una canzone che riesca a farsi notare, non uno scatto
d'ingegno che ricordi i momenti migliori della band. A voler salvare il
salvabile, scelgo Here Comes The Night Time e You Already Know, che restano
comunque episodi minori. Il resto del disco, invece, palesa solo una sicumera
che mi ricorda quel pessimo vizio italico con cui gli arroganti apostrofano i
loro interlocutori : lei non sa chi sono io ! Tutte chiacchiere e distintivo,
risponderebbe De Niro/Al capone come in un'epica scena de Gli Intoccabili. Era
meglio tenere un basso profilo e vivere di rendita. Invece 'sta noia
ammorbante, dispiegata peraltro in due cd (ah, cosa riesce a combinare il senso
dell'onnipotenza!), mette tutto a repentaglio. Aridatece Funeral !
2) GOGOL BORDELLO – PURA VIDA
CONSPIRACY
Pura Vida Conspirancy è un disco sciapo e senza
mordente, che ripresenta sempre la solita solfa ma leccata a uso e consumo del
grande pubblico. Sorvoliamo sulla copertina orripilante che già la direbbe
lunga sul contenuto in scaletta; e ti perdoniamo, caro Hutz, anche quel titolo
ammiccante a sonorità latino americane che, si sa, piacciono tanto a chi non
possiede una coscienza musicale che vada oltre i balli di gruppo in un
villaggio Alpitour. Qui, però, sono proprio le canzoni a fare pena : banali,
prive di verve, tese a centrare il ritornello vincente che si trasforma, fin
dal primo ascolto, in un innocuo involucro di plastica. Tanto che, arrivati
alla patetica Malandrino (e siamo solo al terzo pezzo di un lotto di dodici
canzoni), verrebbe già voglia di lanciare il cd dalla finestra. Insomma, siamo
arrivati alla vittoria dell’imborghesimento su una filosofia musicale che, non
più tardi di qualche anno fa, sembrava vivere a cento all’ora e a “regole
zero”. Il disco, ne sono sicuro, piacerà comunque, perché il mondo è pieno di cazzoni
che amano lustrare il pedigree da etno-freakettoni, sostenendo che i Gogol
Bordello sono fottutamente alternativi. Un tempo, forse si. Un disco del
genere, invece, lo si può passar tranquillamente in una balera estiva senza
dispiacere gli avventori. Quanta tristezza.
1)
MGMT – MGMT
Sul futuro degli MGMT avrei scommesso ogni cosa.
Loro due, Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser, mi sono sempre apparsi come gli
enfantes prodige di un eclettismo musicale germogliato fin dentro quei due
cognomi troppo strambi per appartenere a newyorkesi doc. Come un'astronave psichedelica
alla deriva nella galassia Stg. Pepper, la musica degli MGMT ha saputo
riscrivere il linguaggio pop rock, prendendo il meglio della tradizione,
declinandolo con una pronuncia dalla modernità assoluta e contaminandolo
vieppiù con scorie futuriste di luccicante bellezza. Due dischi
imprescindibili all'attivo : Oracular Spectacular (2007), opera cardine
del primo decennio del nuovo millennio, arcobaleno luminescente che fondeva
kraut rock, Beatles, Bowie, elettronica, rave e synth pop, e Congratulations
(2010), spiazzante seguito che confermava il talento, all'apparenza infinito,
di due giovani, insolenti e visionari, proiettati a velocità supersonica verso
l'Olimpo dei più grandi di sempre. Oggi, quel baldanzoso viaggio verso la
gloria eterna, che non più di tre anni fa sembrava inarrestabile, s'è
bruscamente interrotto. Sarebbe bastato un altro disco dello stesso livello o
anche solo un pugno di grandi canzoni, e il cerchio si sarebbe definitivamente
chiuso. MGMT, quarto album della band (il primo però era stato pubblicato sotto
il moniker The Management), ci racconta invece di una forza propulsiva che si è
esaurita, di un'astronave che fluttua nel cosmo della creatività, tenendo
a mala pena la rotta grazie alla forza d'inerzia. Se un tempo il progetto di
VanWyngarden e Goldwasser appariva figlio di un ambizione giovanile e sventata,
che però il pentagramma concretizzava egregiamente, adesso questa
musica sembra invece generata esclusivamente dalla presunzione di sentirsi
onnipotenti. Non bastano pochi episodi centrati come I Love You Too, Death, per
salvare un disco senz'anima, costruito a tavolino, algido prodotto
di copia e incolla elettronici e masturbazioni di liquefatta
psichedelia. Tutto suona cervellotico, farraginoso, inutile e di una noia
letifera. Dispiace ammetterlo, perchè sul futuro degli MGMT avrei scommesso
ogni cosa. Invece, coitus interruptus. Peccato.