Ammetto di aver
fatto una fatica del diavolo a entrare in sintonia con questo disco, a
comprenderlo nella sua interezza, a coglierne l’essenza. Un po’ perché, è cosa risaputa, non sono un fulmine
di guerra, e un po’ perché sono stato irretito da squilli di tromba che
annunciavano, quasi all’unisono, il capolavoro dell’anno. Non mi hanno fatto
bene nemmeno i continui, e fuorvianti, paragoni fra i quattro giovanotti di
Leeds e i Radiohead, dal momento che mi hanno costretto a cercare minuziosamente accostamenti con la band di
Thom Yorke, che in realtà, sempre ammesso siano plausibili, evaporano dopo
qualche ascolto come rugiada al sole. Così mi sono ritrovato ad ascoltare This
Is All Yours in tutte le salse possibili (stereo, ipod, cuffie, con il volume a
palla, in solitaria in mezzo alla natura, nel caos della metropoli, recandomi
al lavoro) e per un periodo di tempo così lungo, che se avessi una voce
decente, il disco potrei ricantarlo tutto io, nota per nota. Insomma, una sorta
di maratona musicale a senso unico, che mi ha riportato, tra momenti di
esaltazione seguiti ad altri di depressione post parto, esattamente al punto di
partenza, all’intuizione cioè che avevo avuto al primissimo ascolto. E cioè che questo è un disco più pretenzioso che
ambizioso, in cui gli arrangiamenti clamorosamente sontuosi sono
spesso l’unico fiore all'occhiello di un album che nella sostanza dice poche cose con troppe parole. Ora, mi
rendo perfettamente conto che al giorno d’oggi qualcosa che suona così
(apparentemente) strano, così ricco di suoni e di campionamenti, così
eterogeneo nel suo accostare rock progressive, suggestioni orientali,
elettronica, soul, visioni pastorali e folk di boniveriana memoria, faccia
sobbalzare sulla sedia e appaia di gran lunga meglio di tanta fuffa in
circolazione. Ma ho l’impressione che, a conti fatti, questo lavoro, così ben suonato e confezionato, si riduca più che altro a un esercizio di stile, dall’hype travolgente, eppure povero di
momenti davvero coinvolgenti. Anzi, a voler essere proprio sinceri fino in
fondo, la parte centrale dell'opera, quella che va da Every Other Freckle a
Choise Kingdom, così barocca, paludata e verbosa, è una rottura di coglioni che
risparmierei anche al mio peggior nemico. Così come trovo di un’arroganza senza
eguali i dieci minuti di silenzio fra l’inizio e la fine della conclusiva
Leaving Nara. Detto questo, sarebbe però ingiusto non apprezzare alcuni
momenti del disco davvero riusciti e che ci fanno ben sperare per il proseguo
di carriera di un gruppo le cui potenzialità sono tuttavia ancora
tutte in nuce. I primi tre brani, ad esempio, riescono a creare quelle
suggestioni emotive (splendido luso delle voci in Intro) e quei soundscapes malinconici che in altri
momenti del disco sono ammorbati da un noioso perfezionismo. Così come mi è
parsa un’idea azzeccata campionare 4x4 di Miley Cyrus per il singolo Hunger Of
The Pine o scarnificare il folk di Pusher giocando ancora una volta sull’interplay
fra le voci (caratteristica che potrebbe diventare il vero marchio di fabbrica
del suono Alt-J). In definitiva, This Is All Yours risulta essere un disco
riuscito a metà, ben lontano dal capolavoro di cui molti stanno parlando, ma
comunque capace di creare aspettative grazie ad alcuni momenti davvero
riusciti. Se questi ragazzi si mettono in testa che è più importante essere che
sembrare, asciugando il suono, come hanno fatto con Pusher e Arrival In Nara,
da ogni cerebrale barocchismo, è probabile che in futuro sapranno regalarci
grandi dischi. Per il momento, applaudiamo alle intuizioni, accentando tutti
gli sbagli come un tributo da pagare sulla strada che porta al successo.
VOTO: 6,5
Blackswan, martedì 30/09/2014