10) COURTNEY BARNETT – SOMETIMES I SIT AND THINK, AND SOMETIMES I JUST SIT
...Semplicemente, imbraccia
la chitarra, alza il volume degli amplificatori e ci travolge di energia. Si inventa
un blues siderurgico, Small Poppies, e se la gioca sul filo di lana con tutti i
noise makers di professione, rilegge in chiave moderna i grandi classici della
gioventù sonica (il fragore slabbrato della feroce Pedestrian At Best), si
diverte col poppeggiare elettrico di Dead Fox, riesuma un certo british rock
anni ’60 con urticante leggerezza (Nobody Really Cares If You Don’t Go To The
Party), e alla fine dei giochi, ti piazza una sognante ballata acustica per
voce e chitarra (Boxing Day Blues), solo per farti capire che, se vuole, un
disco può suonartelo tutto così. I quarantaquattro minuti di Sometimes I Sit
And Think, And Sometimes I Just Sit, passano attraverso le nostre orecchie più
veloci di quanto si impieghi a leggere il titolo dato al disco, lasciandoci
alla fine quel desiderio maledetto di aggrapparci alle cuffie e non lasciarle
più. Un disco che, per dirla proprio tutta, possiede i numeri per tenersi ben
lontano da ogni ovvio paragone con la sferragliante rabbia in quota riot grrrl,
e che semplicemente ci restituisce un rock che non ha paura di essere ciò che
natura ha creato: urgenza espressiva, rumore e filtri zero.
9) SLEATER KINNEY – NO CITIES TO LOVE
...In No Cities To Love c’è
tutto lo Sleater Kinney pensiero: lo stridere disturbante delle due voci (la
Tucker a ringhiare la melodia e la Brownstein a giocare sul contrappunto
disturbante), gli spigoli acuminati di riff assassini, l’ardore scompigliato di
assalti sonori all’arma bianca, i testi abrasivi e senza fronzoli (si parte con
lo sputo in faccia al capitalismo di Price Tag). Mezz’ora di corsa forsennata,
senza un attimo di pausa, nemmeno per pisciare: si parte a cento all’ora, il
piede pigiato a tavoletta, e si finisce in derapata, con i freni che stridono
lancinanti e il motore, esausto, che fuma. Urgenza, urgenza e poi ancora
urgenza, le Sleater Kinney 2.0 hanno nuovamente vent’anni, sentono ancora il
bisogno primordiale di fare casino, di strattonare le melodie, afferrarle per i
capelli e trascinarle in quel magma rumoristico che è la linfa vitale del rock.
Da tempo non ascoltavo un disco pervaso da tanta credibile cattiveria, così
genuinamente sferragliante, così modernamente retrò (Hey Darling ringhia alle
radici del punk). Un disco da mettere sul piatto, infilarsi le cuffie e alzare
il volume al massimo, fino a farsi sanguinare le orecchie. Tanti anni fa le
Sleater Kinney cantavano: “Voglio essere la tua Joey Ramone, con le mie foto
appese alla porta della tua camera”. Bè, io quella foto ce l’ho da una vita e
oggi mi pare più bella che mai.
8) THE SONICS – THIS IS THE SONICS
...Trentatre minuti di piede pigiato sull’acceleratore per una corsa a perdifiato sul confine sottile che separa garage e punk: per star dietro alla canzone più lenta mettetevi in sella a un Suzuki 750 e sgasate alla morte, se cercate un po’ di melodia, ascoltatevi un disco dei Converge piuttosto, perché, statene certi, qui non ne troverete un’unghia. Brani originali che, ascoltati a tutto volume, senza un’adeguata preparazione psicofisica, possono indurre colpi apoplettici (la tripletta iniziale, I Don’t Need No Doctor, Be A Woman, Bad Betty, fa male peggio di un uppercut alla base del mento) e in più qualche cover mai così riuscita, come The Hard Way dei Kinks, puro orgasmo punk, e You Can’t Judge A Book By The Cover di Willie Dixon, che non ricordavo così eccitante dai tempi di Bo Diddley. Brutale, primordiale, feroce, rigorosamente in mono: questo è il volto più giovane e devastante del rock’n’roll. Non importa quanti anni si abbiano: l’anagrafe ne dichiara settanta, This Is The Sonics dice al massimo venti. Se non vi piace, siete voi, vecchi dentro.
7) THE LONDON SOULS - HERE COME THE GIRLS
...Tuttavia,
i The London Soul (non fatevi trarre in inganno dal nome: non sono inglesi, ma
americani di New York), rispetto ai gruppi appena citati, hanno un suono molto
più variegato, meno legato a un unico genere, ma decisamente più eclettico.
Tash Neal (chitarra) e Chris St. Hilaire (batteria), infatti, pur avendo una
solida base rock blues, riescono nell'intento di sfornare un album
(il secondo della loro breve carriera) capace di spaziare fra diversi generi,
alternado randellate elettriche ad altri passaggi acustici decisamente più
melodici. Il tutto condito da riferimenti espliciti a quel classic rock anni
'60 e '70 che non ha mai smesso di essere di moda. Si inizia con il primo
singolo tratto dall'album. When I'm With You, e si viene proiettati in
atmosfere beatlesiane, impreziosite da un tocco r'n'b, che eccita una melodia
già di per sè piacevolissima (non è un caso che i The London Souls abbiamo
registrato il loro disco d'esordio nei mitici Abbey Road Studios). Con Steady,
invece, si cambia subito registro e si passa a un acido hard rock
blues che sta in equilibrio perfetto fra Black Crowes e Lenny Kravitz. Al
terzo pezzo, poi, siamo completamente spiazzati, perchè la bellissima Hercules
gioca con il folk d'antan, mentre la successiva Alone, ci porta addirittura a
sonorità nere molto sixties, travolgendoci con un r'n'b di derivazione
Stax e una melodia che tramortisce. Il disco prosegue tutto così, regalandoci
sorprese, brano dopo brano, dal garage rock alla Tom Petty di The
River alla leggerezza acustica di Run Zombie Run, dal rockaccio di
Valerie, una sorta di versione elettrica e 2.0 di Angie, fino al divertissement
jazzy di How Can I Get Through, che lambisce addirittura lo stile
chitarristico del mitico Django Reinhardt. Ben suonato da due musicisti
legati da un affiatamento verace e versatile, Here Comes The Girl si propone
come uno dei dischi più interessanti del 2015. I The London Souls, ovviamente,
sono una band da appuntarsi sul taccuino e da seguire con grande attenzione.
6) THE YAWPERS – AMERICAN MAN
...Un mondo, quello gridato
dagli Yawpers, fatto di tenebra e di rovina, in cui l’uomo americano ha perso
il proprio sogno, finito come un detrito ai margini di una qualsiasi periferia
metropolitana. Definire questa musica semplicemente punk rock sarebbe assai
riduttivo: nel tritatutto del combo di Denver ci finiscono il folk (azzardiamo
la connotazione di sleazy folk), il blues, il cow punk, il rock a stelle e
strisce, lo psycho-billy, il country e, ovviamente si, tanto punk. Il tutto
strapazzato da un terzetto incapace di essere lineare, che predilige percorsi a
zig e zag e la vertigine di continui saliscendi, e che restituisce un suono
americano destrutturato e privato di ogni epica. La voce di Cook è come il
ringhio di un giaguaro, Shomberg martella senza posa, e Parmet e la sua slide
firmano i pezzi col marchio del serial killer. Non c’è trucco e non c’è
inganno: tutto suona in presa diretta, tutto è sporco, genuino e feroce, e ogni
svisata di bottleneck è una stilettata che colpisce direttamente alla gola.
Eccessivi? Forse. Torbidi e sguaiati? Pure. Imperfetti? Certo, ed è proprio
questo il bello, perché i tre di Denver confezionano un disco puro e selvaggio,
come non se ne sentivano da tempo. Non saranno la salvezza del rock’n’roll, ma
di sicuro sapranno destare la vostra attenzione e farvi esclamare “ Cazzo, che
bomba!”.
Blackswan, giovedì 31/12/2015