giovedì 31 dicembre 2015

MIGLIORI DISCHI 2015: LE SCELTE DEL KILLER - Dalla 10 alla 6






10) COURTNEY BARNETT – SOMETIMES I SIT AND THINK, AND SOMETIMES I JUST SIT

...Semplicemente, imbraccia la chitarra, alza il volume degli amplificatori e ci travolge di energia. Si inventa un blues siderurgico, Small Poppies, e se la gioca sul filo di lana con tutti i noise makers di professione, rilegge in chiave moderna i grandi classici della gioventù sonica (il fragore slabbrato della feroce Pedestrian At Best), si diverte col poppeggiare elettrico di Dead Fox, riesuma un certo british rock anni ’60 con urticante leggerezza (Nobody Really Cares If You Don’t Go To The Party), e alla fine dei giochi, ti piazza una sognante ballata acustica per voce e chitarra (Boxing Day Blues), solo per farti capire che, se vuole, un disco può suonartelo tutto così. I quarantaquattro minuti di Sometimes I Sit And Think, And Sometimes I Just Sit, passano attraverso le nostre orecchie più veloci di quanto si impieghi a leggere il titolo dato al disco, lasciandoci alla fine quel desiderio maledetto di aggrapparci alle cuffie e non lasciarle più. Un disco che, per dirla proprio tutta, possiede i numeri per tenersi ben lontano da ogni ovvio paragone con la sferragliante rabbia in quota riot grrrl, e che semplicemente ci restituisce un rock che non ha paura di essere ciò che natura ha creato: urgenza espressiva, rumore e filtri zero. 






9) SLEATER KINNEY – NO CITIES TO LOVE

...In No Cities To Love c’è tutto lo Sleater Kinney pensiero: lo stridere disturbante delle due voci (la Tucker a ringhiare la melodia e la Brownstein a giocare sul contrappunto disturbante), gli spigoli acuminati di riff assassini, l’ardore scompigliato di assalti sonori all’arma bianca, i testi abrasivi e senza fronzoli (si parte con lo sputo in faccia al capitalismo di Price Tag). Mezz’ora di corsa forsennata, senza un attimo di pausa, nemmeno per pisciare: si parte a cento all’ora, il piede pigiato a tavoletta, e si finisce in derapata, con i freni che stridono lancinanti e il motore, esausto, che fuma. Urgenza, urgenza e poi ancora urgenza, le Sleater Kinney 2.0 hanno nuovamente vent’anni, sentono ancora il bisogno primordiale di fare casino, di strattonare le melodie, afferrarle per i capelli e trascinarle in quel magma rumoristico che è la linfa vitale del rock. Da tempo non ascoltavo un disco pervaso da tanta credibile cattiveria, così genuinamente sferragliante, così modernamente retrò (Hey Darling ringhia alle radici del punk). Un disco da mettere sul piatto, infilarsi le cuffie e alzare il volume al massimo, fino a farsi sanguinare le orecchie. Tanti anni fa le Sleater Kinney cantavano: “Voglio essere la tua Joey Ramone, con le mie foto appese alla porta della tua camera”. Bè, io quella foto ce l’ho da una vita e oggi mi pare più bella che mai.


8) THE SONICS – THIS IS THE SONICS

...Trentatre minuti di piede pigiato sull’acceleratore per una corsa a perdifiato sul confine sottile che separa garage e punk: per star dietro alla canzone più lenta mettetevi in sella a un Suzuki 750 e sgasate alla morte, se cercate un po’ di melodia, ascoltatevi un disco dei Converge piuttosto, perché, statene certi, qui non ne troverete un’unghia. Brani originali che, ascoltati a tutto volume, senza un’adeguata preparazione psicofisica, possono indurre colpi apoplettici (la tripletta iniziale, I Don’t Need No Doctor, Be A Woman, Bad Betty, fa male peggio di un uppercut alla base del mento) e in più qualche cover mai così riuscita, come The Hard Way dei Kinks, puro orgasmo punk, e You Can’t Judge A Book By The Cover di Willie Dixon, che non ricordavo così eccitante dai tempi di Bo Diddley. Brutale, primordiale, feroce, rigorosamente in mono: questo è il volto più giovane e devastante del rock’n’roll. Non importa quanti anni si abbiano: l’anagrafe ne dichiara settanta, This Is The Sonics dice al massimo venti. Se non vi piace, siete voi, vecchi dentro.

 

 


7) THE LONDON SOULS - HERE COME THE GIRLS

...Tuttavia, i The London Soul (non fatevi trarre in inganno dal nome: non sono inglesi, ma americani di New York), rispetto ai gruppi appena citati, hanno un suono molto più variegato, meno legato a un unico genere, ma decisamente più eclettico. Tash Neal (chitarra) e Chris St. Hilaire (batteria), infatti, pur avendo una solida base rock blues, riescono nell'intento di sfornare un album (il secondo della loro breve carriera) capace di spaziare fra diversi generi, alternado randellate elettriche ad altri passaggi acustici decisamente più melodici. Il tutto condito da riferimenti espliciti a quel classic rock anni '60 e '70 che non ha mai smesso di essere di moda. Si inizia con il primo singolo tratto dall'album. When I'm With You, e si viene proiettati in atmosfere beatlesiane, impreziosite da un tocco r'n'b, che eccita una melodia già di per sè piacevolissima (non è un caso che i The London Souls abbiamo registrato il loro disco d'esordio nei mitici Abbey Road Studios). Con Steady, invece, si cambia subito registro e si passa a un acido hard rock blues che sta in equilibrio perfetto fra Black Crowes e Lenny Kravitz. Al terzo pezzo, poi, siamo completamente spiazzati, perchè la bellissima Hercules gioca con il folk d'antan, mentre la successiva Alone, ci porta addirittura a sonorità nere molto sixties, travolgendoci con un r'n'b di derivazione Stax e una melodia che tramortisce. Il disco prosegue tutto così, regalandoci sorprese, brano dopo brano, dal garage rock alla Tom Petty di The River alla leggerezza acustica di Run Zombie Run, dal rockaccio di Valerie, una sorta di versione elettrica e 2.0 di Angie, fino al divertissement jazzy di How Can I Get Through, che lambisce addirittura lo stile chitarristico del mitico Django Reinhardt. Ben suonato da due musicisti legati da un affiatamento verace e versatile, Here Comes The Girl si propone come uno dei dischi più interessanti del 2015. I The London Souls, ovviamente, sono una band da appuntarsi sul taccuino e da seguire con grande attenzione.


6) THE YAWPERS – AMERICAN MAN

...Un mondo, quello gridato dagli Yawpers, fatto di tenebra e di rovina, in cui l’uomo americano ha perso il proprio sogno, finito come un detrito ai margini di una qualsiasi periferia metropolitana. Definire questa musica semplicemente punk rock sarebbe assai riduttivo: nel tritatutto del combo di Denver ci finiscono il folk (azzardiamo la connotazione di sleazy folk), il blues, il cow punk, il rock a stelle e strisce, lo psycho-billy, il country e, ovviamente si, tanto punk. Il tutto strapazzato da un terzetto incapace di essere lineare, che predilige percorsi a zig e zag e la vertigine di continui saliscendi, e che restituisce un suono americano destrutturato e privato di ogni epica. La voce di Cook è come il ringhio di un giaguaro, Shomberg martella senza posa, e Parmet e la sua slide firmano i pezzi col marchio del serial killer. Non c’è trucco e non c’è inganno: tutto suona in presa diretta, tutto è sporco, genuino e feroce, e ogni svisata di bottleneck è una stilettata che colpisce direttamente alla gola. Eccessivi? Forse. Torbidi e sguaiati? Pure. Imperfetti? Certo, ed è proprio questo il bello, perché i tre di Denver confezionano un disco puro e selvaggio, come non se ne sentivano da tempo. Non saranno la salvezza del rock’n’roll, ma di sicuro sapranno destare la vostra attenzione e farvi esclamare “ Cazzo, che bomba!”.





Blackswan, giovedì 31/12/2015


mercoledì 30 dicembre 2015

MIGLIOR DISCO 2015: LE SCELTE DEL KILLER – dalla 15 alla 11




 

15) LAST DAYS OF APRIL - SEA OF CLOUDS

…Registrate in analogico, omogenee e compatte nella struttura, eppure al contempo leggerissime, le nove canzoni del disco possiedono il retrogusto agrodolce che avevamo già imparato a conoscere grazie a Elliott Smith, i Wilco, i Nada Surf e i Jayhawks, e fluttuano in una penombra estiva in cui filtrano, solo a tratti, piccoli raggi di sole che ammorbidiscono un mood decisamente malinconico. Sono molte le suggestioni prodotte dall'ascolto, alcune delle quali vivono solo a un livello emotivo (il country della title track), altre invece riguardano esclusivamente il piacere di melodie semplici e cristalline, in grado di rapirci fin da subito ed entrarci in testa in reiterati loop (The Artist è un gioiello di artigianato indie pop che farebbe invidia a Jeff Tweedy). Nessun filler ma tante belle canzoni, alcuni addirittura eccelse, quando diviene protagonista la pedal steel guitar, come nel mid tempo di Everybody Knows o nel lungo assolo della superba The Thunder & The Storm, vetta di un disco davvero riuscito e una delle migliori canzoni ascoltate quest'anno.


14) DAWES - ALL YOUR FAVORITE BANDS

…In definitiva, se rock e West Coast sono accostamenti inevitabili (e non potrebbe essere diversamente per un gruppo che nasce a Los Angeles, che è stato scoperto da Jonathan Wilson e che ha come nume tutelare un mito come Jackson Browne), in All Your Favorite Bands c'è però la visione moderna di una band che continua a stupirci con un suono (forse) risaputo ma maneggiato con gusto e originalità (come peraltro avevano già fatto con il precedente, bellissimo, Stories Don't End). Alla quarta prova in studio, i Dawes toccano il loro vertice creativo, si scrollano di dosso ogni sospetto di essere epigoni senz'anima di un suono retrò e danno alle stampe un disco che verrebbe voglia di definire un piccolo classico moderno per nostalgici che guardano avanti. Merito di alcune intuizioni che si smarcano dall'ovvio (la già citata Things Happen, la strana germinazione di Don't Send Me Away, frutto dell'azzardato innesto fra Fleetwood Mac e Blue Nile), e di un pugno di canzoni (almeno quattro di altissimo livello) che anche al decimo ascolto suonano fresche come la prima volta. Se poi volete proprio insistere a vederli come la copia 2.0 di Jackson Browne, va bene anche così: All Your Favorite Bands è comunque migliore di qualsiasi disco rilasciato dal cantautore losangelino da trent'anni a questa parte.





13) STEVE VON TILL – THE LIFE UNTO ITSELF

...Niente metal, niente doom, niente noise: il Von Till solista è un eremita del fingerpicking che, lontano da tutti, estraneo al mondo che lo circonda, dalle mode e dai suoni consueti, coltiva la sua concezione di americana in bilico fra esoterismo, psichedelia e visione. Accostarsi alle sette canzoni che compongono la scaletta del disco è un po’ come immergersi nel Lete, dimenticare il passato e le certezze, abbandonarsi al fluire obnubilante della musica, per risvegliarsi in un altrove di immense praterie e pece nerissima. Sette brani che ipnotizzano e la cui struttura melodica si compone di patterns acustici che, ripetuti all’infinito, celano trame disturbate di chitarra elettrica ed esaltano la voce cavernosa e ascetica di Von Till. Si parte con In Your Wings e la coltre è attraversata da brevi barbagli di luce. Poi, inizia un lungo piano sequenza di strazianti malinconie, che svaniscono in una maestosa caligine morriconiana (Known But Not Name), si sciolgono in lacrime nel funerale celtico di A Language Of Blood o si perdono negli spazi e nei silenzi della title track, un brano che dilata all’inverosimile quel suono “americano” che attraversa tutto il disco. A prescindere da ogni tentativo di spiegare cosa si celi in questi quarantacinque minuti di musica, ciò che resta alla fine dell’ascolto è l’appagante sensazione di aver vissuto un’esperienza extrasensoriale, consapevoli della propria finitezza fisica, presenti alle nostre malinconie, ma spettatori fluttuanti sopra il mondo senziente. Come arrivare in cima, e perdere la nostra piccola anima nell’infinita maestosità dell’orizzonte. Intimismo per spazi aperti.

12) ANDERSON EAST - DELILAH

...Anderson East fa sua la grande tradizione del profondo Sud e la infiamma con il fuoco della passione e con una pienezza di suono, che lascia a bocca aperta. Merito anche della breve durata del disco, composto da canzoni che, salvo rari casi, hanno una durata appena superiore a una sfuriata punk, e per questo estremamente incisive. Tante ballate al sapor miele e liquerizia, e sferzanti impennate R&B, impreziosite dal suono grasso dei fiati e da un vocione roco, che attribuiresti a uno scafato crooner piuttosto che alla giovane età di Anderson. Difficle trovare una canzone più bella delle altre, visto che Delilah tocca per tutta la sua durata un altissimo livello qualitativo e si beve in un fiato, lasciandoci in bocca la voglia di ricominciare subito. Ma proprio a voler segnalare un paio di pezzi, direi che la melodia del primo singolo, Satisfy Me, e What A Woman Wants To Hear, ballata in equilibrio perfetto fra americana e soul, valgono da sole il prezzo del biglietto. Insomma, non è un caso se Il Buscadero ha dedicato la copertina di ottobre a questo misconosciuto, ma straordinario artista, di cui, potete scommetterci, da questo momento in poi, non smetteremo di seguire le gesta. Soulful and powerful.





11) JJ GREY & MOFRO – OL’ GLORY

...Ecco allora, per arrivare al cuore della questione, che Ol’ Glory può essere definito la summa del JJ Grey pensiero: la musica di un rocker bianco che ha vissuto la propria vita ascoltando tutta la discografia Stax, e che ancora oggi gira in macchina con le cassette di Salomon Burke e James Brown sotto il cruscotto. Passatismo musicale? Nemmeno per idea. Le dodici canzoni in scaletta suonano freschissime, intense, immediate. Sia che il nostro si cimenti con i languori della ballata soul, sia che spinga il piede sull’acceleratore delle chitarre. L’inizio è morbido, con tre brani che ingolosiscono le orecchie con splendide melodie: Everything Is A Song, una sorta di Stand By Me 2.0,  The Island, lentone in punta di slide che scalda il cuore, e il primo singolo tratto dall’album, Every Minute, impreziosita da un assolo di Derek Trucks, ospite del disco. E poi, si prende il volo. Letteralmente. La voce graffiante di Grey si inventa un ballatone soul da strapparsi le mutande: Light A Candle è sesso puro, è Otis Redding che torna fra noi a lasciarci un ultimo saluto. Ho impiegato mezz’ora prima di passare alla canzone successiva, letteralmente rapito da tanto inaspettata gioia. Difficile tenere questo livello di meraviglia. Eppure, Grey ci riesce, dispiegando il meglio groove in circolazione, nel funk cazzoduro di Turn Loose. A questo punto, le coordinate sarebbero sufficienti per giustificare l’acquisto del disco. Poi, però, parte Brave Lil’ Fighter, welleriana fino al midollo e carica di ruvida malinconia, e vien da dire che forse c’è ancora un bel po’ di carne sulla griglia. Basta solo scegliere: il gospel di Home In the Sky, la frenesia chitarristica di Hold On Tight, il southern di Tic Tic Toe o il funky de-va-stan-te della title track, roba da James Brown impasticcato oltre il limite di guardia. Il disco si chiude con Hurricane che, a dispetto del titolo, è scarna, acustica, agrodolce. Un finale riflessivo, che ci aiuta a dare una risposta al quesito iniziale. JJ Grey. Chi era costui? Un grande, direbbe perfino Don Abbondio.





Blackswan, mercoledì 30/12/2015



martedì 29 dicembre 2015

MIGLIOR DISCO 2015: LE SCELTE DEL KILLER – dalla 20 alla 16




Come di consueto, arrivati a fine anno, ci divertiamo a stilare la classifica dei migliori dischi del 2015. Ascoltati, riascoltati e rivalutati alla prova del tempo trascorso. Ecco i primi cinque dischi, quelli che vanno dalla posizione 20 alla posizione 16. A seguire, nei prossimi giorni, gli altri.


20)  TOBIAS JESSO JR. – GOON

…Eppure, la sensazione è che Jesso faccia le cose con appassionata sincerità, come se l’architettura dell’album fosse frutto di un’estemporanea ispirazione e non di un progetto a tavolino, e le melodie fluissero dal suo pianoforte vestite solo di disarmante onestà. E poi, ci sono le canzoni, alcune davvero magnifiche (Just A Dream, For You, Without You), tutte intelligentemente melodiche, catchy quanto si vuole, ma mai affette da banalità o calcoli commerciali in odore di charts. Goon è un album deliberatamente vintage, golosissimo per retromaniaci del pop di classe, e decisamente poco incline alla modernità. Senza gridare ai miracoli e senza utilizzare iperboli fuori luogo, possiamo però dire che i tre quarti d‘ora della track list attraversano le nostre orecchie con piacevole semplicità, stuzzicandoci a ripetuti, e sempre soddisfacenti, ascolti. Cosa che, al netto di ogni intellettualismo, è ciò spesso ci spinge ad acquistare (e ad amare) un disco.






19) FAITH NO MORE - SOL INVICTUS

…Perchè, diciamolo subito, non sembra essere passato un giorno dall'uscita di Album Of The Year e la band è più in forma che mai, l'inconfondibile timbro vocale di Patton si è solo un poco ispessito ma resta assai brillante, di idee valide ce ne sono parecchie (Mike Patton, in questi vent'anni, ha messo in piedi progetti e collaborazioni a iosa) e di buone canzoni pure (Rise Of The Fall, Black Friday). Resta, e non potrebbe essere altrimenti, la sensazione di deja vù. Ma questo è un problema limitato a coloro che hanno vissuto in prima persona il decennio e sono fans del gruppo dalla prima ora. Per tutte le giovani leve, abituate a suoni ingessati e ovvietà assortite, Sol Invictus rappresenterà un'inconsueta botta di adrenalina. Bentornati.



18) PUNCH BROTHERS - PHOSPHORESCENT BLUES

…Un disco, Phosphorescent Blues, che inizialmente perplime (sensazione di arroganza alternative), ma che cresce a dismisura quando entriamo in sintonia con la logica che sottende alla scaletta: rinnovare la tradizione e giocare con le radici per vedere se l'innesto può produrre frutti succosi che profumino di musica classica come in Passepied (Debussy), di pop (le incantevoli Julep e I Blew It Off) e addirittura di funky soul (Magnet è ciò che scriverebbe Prince se avesse a disposizione solo strumenti acustici). Al comando di una band affiatatissima e dalle indubbie capacità tecniche (andatevi a vedere i video delle loro performance dal vivo) c'è un signore che si chiama Chris Thile: possiede una voce angelica e suona il mandolino come Gesù. Non è un caso, quindi, se alcuni momenti di Phosphorescent Blues vi sembreranno celestiali. Amen.






17) CLUTCH - PSYCHIC WARFARE

…Sono una band da presa diretta, i Clutch, buona la prima e via, approccio live senza mistificazioni di sorta e orpelli formali. Non è un caso che le due canzoni citate siano presentate come un unico blocco tenuto insieme da una partitura di batteria e che, in X-Ray Vision, Neil Fallon, come se si trovasse sul palco, si metta a presentare tutta la band, regalandoci uno dei passaggi più coinvolgenti e meglio riusciti del disco. Che, come si diceva poc'anzi, per tutte le dodici tracce in scaletta, non perde un briciolo della sua potenza e creatività, ma ci consegna anzi una band che sta probabilmente vivendo il suo vertice artistico. In prima linea e pronti a tutto, Neil Fallon e soci si gettano in assalti frontali e corrono sotto i cannoneggiamenti, si esaltano nei corpo a corpo e non fanno prigionieri. E' l'arte della guerra, campo nel quale i Clutch, ormai è chiaro a tutti, eccellono.



16) BANDITOS - BANDITOS

…E cioè, che i Banditos non sono solo bravi da morire, ma esaltano il loro roots rock abbastanza convenzionale (ma nemmeno troppo, in fin dei conti) con una grinta e una passione davvero difficili da trovare in giro. In queste dodici tracce c'è sudore da vendere, impeto, gagliardia, un approccio da strumenti sbrigliati che cavalcano verso l'orizzonte finchè c'è luce e fiato. Non è solo The Breeze, il graffio sudista che apre l'album: è tutto il disco, anche nei suoi momenti meno concitati, a farci pensare che i Banditos, se continuano con questa grinta, avranno un luminoso futuro. Nel frattempo, godetevi un esordio coi fiocchi, in cui un suono che più roots non si può amalgama con coerenza gli accenti cow-punk di Waitin' (un brano che sembra uscire da un disco dei Lone Justice), il rock'n'roll alla Jerry Lee Lewis di Still Sober (After All These Beers) e No Good, una zampata rock - soul, in cui Mary Elisabeth Richardson fa grandi cose in memoria di Janis Joplin. Energizzante e divertentissimo.





Blackswan, martedì 29/12/2015