Nonostante sia venuto meno
l’effetto sorpresa, anche nella seconda stagione, Gomorra si dimostra una serie
solida nella sceneggiatura, ben recitata e ricca di colpi di scena. Promossa a
pieni voti.
VOTO: 7
THE
FAMILY
Un cast di tutto rispetto
(Joan Allen, Rupert Graves) per un thriller palpitante, ispirato al best seller
di Bret Anthony Johnston, Ricordami Così. Nonostante un finale a sorpresa che
avrebbe aperto inquietanti scenari per una seconda stagione, la ABC ha
cancellato la serie.
VOTO: 7
THE
EXORCIST
Ispirata al capolavoro di
William Friedkin datato 1973, the Exorcist è una serie che fonde horror,
thriller e fantapolitica. Non un capolavoro di originalità, ma i colpi di scena
non mancano e Ben Daniels nel ruolo di padre Marcus sfodera un’interpretazione
grintosissima.
VOTO: 6,5
WESTWORD
La fonte della serie è il
film cult del 1973, Il Mondo Dei Robot, scritto e diretto da Michael Crichton e
con una memorabile interpretazione di Yul Brinner. Spunto interessante, dunque,
ma sviluppato male: se le prime puntate sono palpitanti, gli sceneggiatori
perdono presto il filo della storia, che involve in un viluppo indistricabile
che fonde senza costrutto filosofia, sociologia spiccia e fantasy.
VOTO: 5,5
VINYL
Sarebbe la serie dell’anno,
se fosse solo per la straordinaria colonna sonora che ha, giustamente,
attizzato i cultori della buona musica. La sceneggiatura, però, fa acqua da
tutte le parti e si perde nella rappresentazione ostentata e fine a sé stessa
degli eccessi di un’epoca, senza concedere la benché minima chanche all’approfondimento
psicologico dei personaggi.
VOTO: 5,5
BILLIONS
Classicissima nella
struttura e nelle interpretazioni, Billions racconta lo scontro fra lo scaltro
ed esperto procuratore Chuck Rhoades (Paul Giamatti) e il brillante e ambizioso
re dei fondi speculativi Bobby 'Axe' Axelrod (Damian Lewis). Ispirato alla storia
del procuratore Preet Bharara e in particolare alla sua crociata contro i reati
finanziari nel Southern District di New York. Un cameo dei Metallica è la
ciliegina sulla torta di una serie riuscitissima.
VOTO: 7,5
THE
NIGHT OF
Ambientato in una New York
cupa e livida, il thriller prodotto dalla HBO è un capolavoro di tensione e un
gioiello di sceneggiatura. Non solo giallo investigativo, ma anche la storia di
un riscatto (quello dell’avvocato John Stone) e di una perdizione (il “colpevole”
Nasir Khan). John Turturro nella sua interpretazione definitiva: semplicemente immenso.
Chiudete gli occhi e
immaginate. Immaginate di essere seduti sul retro di un pick-up, il vento a
schiaffeggiarvi i capelli, l’interstate che sfreccia sotto i vostri piedi, il
sole buono della primavera a dorare un profondo orizzonte di grano. E immaginate
di sdraiarvi in quella distesa di spighe bionde, quando il crepuscolo vi
avvolge e voi, col naso all’insù, cercate di dare un nome alle prime stelle che
baluginano in cielo. Chiudete gli occhi ancora e spingetevi nella notte
silenziosa del Midwest, fino a quel silo là in fondo, dalla cui sommità potrete
attendere il brumoso abbraccio dell’alba. Ora, mettetevi le cuffie e ascoltate
Above The Prairie, quinto album in studio dei The Pines: vi accorgerete di non
avere più bisogno di chiudere gli occhi e che tutto quello che avete immaginato
si sta materializzando d’incanto intorno a voi. Il Midwest, cuore rurale
dell’America, il mare fluttuante del granoturco, distese d’erba profumata e
grassa, la primitiva solitudine di fattorie perse nel silenzio, il frinire dei
grilli nella notte tiepida, l’immensa quiete del cielo che abbraccia la terra.
Ora ci siete solo voi, il Midwest e i The Pines…
19. DAN LAYUS – DANGEROUS THINGS
Un disco di ballate,
dunque, il cui filo conduttore è quello di un’americana ricca di sfumature, sia
per la voce potente e duttile del protagonista, sia per la capacità del
songwriting di colorarsi ora di accenti gospel (l’eccellente Four Rings e Let
Me Lose You) e soul (la conclusiva Nightbird), ora di evaporare in visioni
cinematografiche che evocano spazi aperti e strade perse nel nulla (Driveway).
In scaletta, ci sono anche un paio di brani dal grande potenziale rock:
nonostante la veste acustica, Destroyer e Fell In Love On A Beach, infatti,
sono due straordinarie canzoni che potrebbero entrare tranquillamente nel repertorio
di Springsteen e che corroborate da un paio di chitarre elettriche sarebbero in
grado di far cantare uno stadio intero. Da citare anche Enough For You, il
brano più intimista del lotto, che vede unici protagonisti Dan Layus e la sua
sei corde. Non tragga, però, in inganno l’apparente semplicità del disco,
perchè Dangerous Things, nonostante i suoi arrangiamenti scarni ma incisivi, è
in grado di creare e sviluppare numerose stratificazioni emotive. Struggente e
bellissimo.
18. LORI MCKENNA – THE BIRD
& THE RIFLE
Un suono deliziosamente
retrò, che guarda agli anni ’70, la voce calda di Lori, la triangolazione
equilibrata fra folk, rock e country, e la sensazione di passare la mano sul
velluto di arrangiamenti morbidissimi, rendono The Bird & The Rifle uno dei
dischi di americana più riusciti dell’anno. Cobb è bravo a universalizzare il
linguaggio del country, modernizzandolo e rendendolo alla portata di tutti,
anche di coloro che non masticano la materia, mentre la McKenna è in possesso
di un songwriting limpido ed espressivo, capace di sfiorare il pop con melodie
accattivanti (la title track), di raccontare rimpianti che segnano come
cicatrici (l’autobiografica We Were Cool, che nasce dal ricordo di Smells Like
Teen Spirit, ascoltata da giovane, in audiocassetta), o perdersi in un mood
malinconico che stringe la gola in un grumo di amarezza (Halfway Home e If
Whiskey Were A Woman). Ne esce così un disco conciso (solo trentacinque minuti
di durata), ma ricco di sfumature che tengono l’ascoltatore su un bilico
emozionale tra nostalgie carezzevoli (Old Men Young Women), disarmanti
entusiasmi in echi springsteeniani (All These Things) e dolcissimi naufragi
sentimentali (Wreck You).
17. ANGEL OLSEN – MY WOMAN
Con My
Woman, secondo full lengh, la Olsen ha dimostrato un ulteriore passo
avanti verso il raggiungimento della cosiddetta maturità artistica, codificando
e definendo ulteriormente il songwriting già apprezzato all'esordio. Nella
musica di Angel convivono, infatti due diverse anime, ma tra loro complementari:
un lato più selvaggio, tutto fuzz, distorsioni e ringhi chitarristici, e
per converso un altrettanto forte inclinazione verso la ballata drammatica. Le
suggestioni di My Woman nascono proprio da questi opposti, dall'interplay
misurato fra strumentazione acustica, elettrica ed elettronica, da brani,
cioè, che sanno fondere in un unico mood cantautorato, bit e frementi
scosse di elettricità.
16. INA FORSMAN – INA FORSMAN
Prendete, ad esempio,
l’iniziale Hanging Loose, un r’n’b marchiato Aretha Franklin: ascoltare il
perfetto interplay fra il fraseggio di piano (che intuizione!), la travolgente
sezione fiati, l’assolo di chitarra dal suono decisamente rock, la batteria
pestata a sangue e la voce della Forsman, che prima agevola lo swing e poi si
sbriglia, lasciando libero passo all’istinto, è un’esperienza da capogiro.
Tutte le tracce in scaletta, però, esplodono di odori e di colori, sia quando
il suono ci porta nel cuore della notte al Cotton Club per ascoltare Cab
Calloway (Bubbly Kisses), sia quando si accendono le luci sugli anni ’60 e
l’omaggio alla grande Amy è più esplicito di un cazzotto in bocca (Before You
Go Home). Quindi, fidatevi del sottoscritto e non fatevi fuorviare dalla
copertina: la migliore sorpresa di questa prima parte del 2016 arriva dalla
Finlandia e si chiama Ina Forsman. Grande voce, grande disco.
15. BONNIE BISHOP – AIN’T
WHO I WAS
Non
c'è una virgola, in Ain't Who I Was, infatti, che suoni fuori posto, a
partire da una scrittura ispirata e sincera, in grado di donarci emozioni
dalla prima all'ultima delle dieci canzoni in scaletta. Cobb, da parte sua, ci
mette un grandissimo lavoro di produzione, esaltando la grande anima soul
del disco e delineando un suono caldo, avvolgente e
decisamente vintage, che, grazie al cesello del missaggio, si coglie in
tutte le sue sfumature. Ascoltare la voce della Bishop, una via di mezzo fra
Susan Tedeschi e Bonnie Raitt, è come passare una mano sul velluto; il resto ce
lo mettono un gruppo di sessionisti nashvilliani da paura, a partire
dall'irsuto Leroy Powell alla chitarra elettrica e da Jimmy Wallace al
pianoforte, Hammond e Mellotron. Basta ascoltare l'iniziale Mercy, un gospel
tinteggiato di swamp rock, per capire il livello di queste composizioni: c'è
passione, vulnerabilità, calore, un'anima che trabocca soul, una band in stato
di grazia. Ed è solo l'inizio: impossibile non essere rapiti dai
ritornelli irresistibili di Be With You (geniale il tappeto di Mellotron
sottostante), di Broken e di Looking For You, dal midtempo in stile Motown
anni '70 di Too Late, dall'arrembante spiritual della tradizionale Done Died e
dalla rivisitazione soul blues della (già citata) Not Cause I Wanted You,
forse anche migliore della celebrata versione di Bonnie Raitt.
14.
MARGO PRICE – MIDWEST FARMER’S DAUGHTER
Dieci canzoni in scaletta,
per un disco che si ascolta con infinita piacevolezza, tanto che arrivati alla
breve chiosa acustica di World’s Greatest Loser, si torna immediatamente alla
prima traccia con l’animo predisposto al meglio. Una musica che paga pegno a
Emmylou Harris, Linda Ronstadt, Dolly Parton, ma che mantiene una propria
originalità di fondo, come si coglie nell’iniziale Hands Of Time, ballata
impreziosita da un delicato arrangiamento d’archi e percorsa da emozionanti
vibrazioni soul, o in Tennesse Song e Four Years Of Chances, decisamente più
virate verso sonorità blues (nella seconda, espresse con aspre trame elettriche
e una curiosa ritmica dance). Particolare l’arrangiamento dei brani, con
l’accento posto prevalentemente sulla sezione ritmica, e straordinaria la voce
della Price (evito paragoni, perché a mio avviso possiede un timbro unico),
tanto squillante che, sulle note alte quasi ci ferisce le orecchie.
13. STURGILL SIMPSON- A
SAILOR’S GUIDE TO EARTH
Tutti, forse, tranne
Simpson, che per il suo terzo full lenght decide di cambiare (quasi) tutto. A
Sailor’S Guide To Earth, infatti, sposta prepotentemente l’accento dal country
al soul e al r’n’b, e si arricchisce di una complessità di arrangiamenti e di
inserti, decisamente preponderanti, di fiati e archi. Il vecchio Sturgill vive
ancora in qualche episodio come Sea Stories, un country rock ruspante con la
scintillante steel guitar di Dan Dugmore in bella evidenza, o in Oh Sarah,
languidissima ballata old style ammantata dal suono di due violoncelli e due
violini. E questo è tutto. Il resto del disco imbocca, decisamente, un’altra
direzione. A partire dall’iniziale Welcome To Earth (Pollywog), scombussolante
esempio di una scrittura che sa azzardare, lasciando l’ascoltatore a bocca
aperta: i suoni che arrivano dall’oceano si sciolgono nell’abbraccio dolcissimo
della chitarra acustica e del piano, mentre la voce baritonale di Sturgill
inizia a declamare versi, appoggiato su un morbido arrangiamento d’archi. Se
chiudi gli occhi, puoi immaginare che Elvis ti stringa la mano e stia cantando
solo per te. E poi, quando meno te lo aspetti, improvvisamente, la canzone
cambia, per trasformarsi in un ciondolante soul corroborato dai fiati
incalzanti dei Dap Kings, la backing band di Sharon Jones.
12. ELISABETH COOK –
EXODUS OF VENUS
E’ subito chiaro che le
sonorità rock predominano, che il sound è irrorato da un’aspra malinconia e che
durante l’ascolto sarà (prevalentemente) la notte a prendersi cura di noi. I
testi sono chiaramente autobiografici, e la Cook mette a nudo le sofferenze di un
amore che le ha causato un crollo fisico ed emotivo (Broke Down In London On
The M25). Nel consueto gioco dei rimandi è soprattutto Lucinda Williams a
venire in mente, come è palese nel solido groove di Dyin’, un altro brano
innervato da un rancore a stento trattenuto. Ma il peso del dolore e i fantasmi
del passato emergono prepotentemente soprattutto nel rock astioso di Evacuation
e nel rallenti blues di Slow Pain, una lenta e lunga discesa nei più
inaccessibili romiti del dolore, segnata dalle rasoiate di lap steel di Jesse
Aycock e dalle distorsioni noise di Green. La Cook, infatti, mette a segno il
suo personale capolavoro e uno dei dischi di americana più belli dell’anno:
aspro, ruvido, depresso, ben poco accondiscendente e lontano dai consueti lidi
contigui a sonorità country. Come spesso succede in ambito musicale, da un
grande dolore nasce una grande arte: qui c’è rabbia, c’è rancore, c’è un grumo
di fiele che rende amara la bocca. E’ sincerità, è sofferenza, è la vita, è
musica vera.
11. PJ HARVEY – THE HOPE
SIX DEMOLITION PROJECT
Canzoni che si nutrono di
contrasti, in una tavolozza nella quale convivono colori brillanti, abbagli di
luce, cromature scintillanti, ma anche violente pennellate di nero pece. Il
fluire è ondivago e spiazzante, il mood mai allineato, gli arrangiamenti
stranianti e imprevedibili. Community Of Hope che apre con passo gagliardo e
una melodia corale che non lascia scampo, Ministry Of Defence con la cadenza
marziale di un Leviatano in musica, lo stato e la politica che tutto fagocitano
in stridenti note di sax, il folk alla Joan Baez in Near The Memorials To
Vietnam and Lincoln, l’equilibrio instabile di River Anacostia, in bilico fra
gospel, ritmo tribale e accorata invocazione, lo sprofondo malinconico di The
Orange Monkey, la ruvidezza rock adornata di handclapping di The Wheel sono
solo alcuni dei momenti più riusciti di un disco, il cui unico fille rouge è
rappresentato dall’uso ossessivo dei cori e dal sapiente arrangiamento dei
fiati (fra i crediti anche il nostro Enrico Gabrielli). La nuova PJ Harvey,
dicevamo, si porta dietro tutto il suo passato e lo rielabora, pensando
nuovamente al futuro. L’urgenza espressa a inizio carriera, quel broncio capace
di trasformarsi in ringhio, oggi è diventata un’altra cosa, un modo maturo e
più riflessivo di fare musica, rimescolando (ancora) le carte in tavola, per
prepararsi a una nuova partenza e a un nuovo cammino. Di vertice in vertice,
con la passione e l’incanto di chi riesce sempre a stupirci, raccontandoci
nuove storie. La metamorfosi continua.