sabato 31 dicembre 2016

2016: LE SERIE TELEVISIVE




GOMORRA




Nonostante sia venuto meno l’effetto sorpresa, anche nella seconda stagione, Gomorra si dimostra una serie solida nella sceneggiatura, ben recitata e ricca di colpi di scena. Promossa a pieni voti.

VOTO: 7

THE FAMILY



Un cast di tutto rispetto (Joan Allen, Rupert Graves) per un thriller palpitante, ispirato al best seller di Bret Anthony Johnston, Ricordami Così. Nonostante un finale a sorpresa che avrebbe aperto inquietanti scenari per una seconda stagione, la ABC ha cancellato la serie.

VOTO: 7


THE EXORCIST




Ispirata al capolavoro di William Friedkin datato 1973, the Exorcist è una serie che fonde horror, thriller e fantapolitica. Non un capolavoro di originalità, ma i colpi di scena non mancano e Ben Daniels nel ruolo di padre Marcus sfodera un’interpretazione grintosissima.

VOTO: 6,5


WESTWORD




La fonte della serie è il film cult del 1973, Il Mondo Dei Robot, scritto e diretto da Michael Crichton e con una memorabile interpretazione di Yul Brinner. Spunto interessante, dunque, ma sviluppato male: se le prime puntate sono palpitanti, gli sceneggiatori perdono presto il filo della storia, che involve in un viluppo indistricabile che fonde senza costrutto filosofia, sociologia spiccia e fantasy.

VOTO: 5,5


VINYL



Sarebbe la serie dell’anno, se fosse solo per la straordinaria colonna sonora che ha, giustamente, attizzato i cultori della buona musica. La sceneggiatura, però, fa acqua da tutte le parti e si perde nella rappresentazione ostentata e fine a sé stessa degli eccessi di un’epoca, senza concedere la benché minima chanche all’approfondimento psicologico dei personaggi.

VOTO: 5,5


BILLIONS



Classicissima nella struttura e nelle interpretazioni, Billions racconta lo scontro fra lo scaltro ed esperto procuratore Chuck Rhoades (Paul Giamatti) e il brillante e ambizioso re dei fondi speculativi Bobby 'Axe' Axelrod (Damian Lewis). Ispirato alla storia del procuratore Preet Bharara e in particolare alla sua crociata contro i reati finanziari nel Southern District di New York. Un cameo dei Metallica è la ciliegina sulla torta di una serie riuscitissima.

VOTO: 7,5


THE NIGHT OF





Ambientato in una New York cupa e livida, il thriller prodotto dalla HBO è un capolavoro di tensione e un gioiello di sceneggiatura. Non solo giallo investigativo, ma anche la storia di un riscatto (quello dell’avvocato John Stone) e di una perdizione (il “colpevole” Nasir Khan). John Turturro nella sua interpretazione definitiva: semplicemente immenso. 

VOTO: 9


Blackswan, sabato 31/12/2016

venerdì 30 dicembre 2016

I MIGLIORI DISCHI DEL 2016: LE SCELTE DEL KILLER (dalla 20 alla 11)





20. THE PINES – ABOVE THE PRAIRIE
Chiudete gli occhi e immaginate. Immaginate di essere seduti sul retro di un pick-up, il vento a schiaffeggiarvi i capelli, l’interstate che sfreccia sotto i vostri piedi, il sole buono della primavera a dorare un profondo orizzonte di grano. E immaginate di sdraiarvi in quella distesa di spighe bionde, quando il crepuscolo vi avvolge e voi, col naso all’insù, cercate di dare un nome alle prime stelle che baluginano in cielo. Chiudete gli occhi ancora e spingetevi nella notte silenziosa del Midwest, fino a quel silo là in fondo, dalla cui sommità potrete attendere il brumoso abbraccio dell’alba. Ora, mettetevi le cuffie e ascoltate Above The Prairie, quinto album in studio dei The Pines: vi accorgerete di non avere più bisogno di chiudere gli occhi e che tutto quello che avete immaginato si sta materializzando d’incanto intorno a voi. Il Midwest, cuore rurale dell’America, il mare fluttuante del granoturco, distese d’erba profumata e grassa, la primitiva solitudine di fattorie perse nel silenzio, il frinire dei grilli nella notte tiepida, l’immensa quiete del cielo che abbraccia la terra. Ora ci siete solo voi, il Midwest e i The Pines…

19. DAN LAYUS – DANGEROUS THINGS
Un disco di ballate, dunque, il cui filo conduttore è quello di un’americana ricca di sfumature, sia per la voce potente e duttile del protagonista, sia per la capacità del songwriting di colorarsi ora di accenti gospel (l’eccellente Four Rings e Let Me Lose You) e soul (la conclusiva Nightbird), ora di evaporare in visioni cinematografiche che evocano spazi aperti e strade perse nel nulla (Driveway). In scaletta, ci sono anche un paio di brani dal grande potenziale rock: nonostante la veste acustica, Destroyer e Fell In Love On A Beach, infatti, sono due straordinarie canzoni che potrebbero entrare tranquillamente nel repertorio di Springsteen e che corroborate da un paio di chitarre elettriche sarebbero in grado di far cantare uno stadio intero. Da citare anche Enough For You, il brano più intimista del lotto, che vede unici protagonisti Dan Layus e la sua sei corde. Non tragga, però, in inganno l’apparente semplicità del disco, perchè Dangerous Things, nonostante i suoi arrangiamenti scarni ma incisivi, è in grado di creare e sviluppare numerose stratificazioni emotive. Struggente e bellissimo.

18. LORI MCKENNA – THE BIRD & THE RIFLE
Un suono deliziosamente retrò, che guarda agli anni ’70, la voce calda di Lori, la triangolazione equilibrata fra folk, rock e country, e la sensazione di passare la mano sul velluto di arrangiamenti morbidissimi, rendono The Bird & The Rifle uno dei dischi di americana più riusciti dell’anno. Cobb è bravo a universalizzare il linguaggio del country, modernizzandolo e rendendolo alla portata di tutti, anche di coloro che non masticano la materia, mentre la McKenna è in possesso di un songwriting limpido ed espressivo, capace di sfiorare il pop con melodie accattivanti (la title track), di raccontare rimpianti che segnano come cicatrici (l’autobiografica We Were Cool, che nasce dal ricordo di Smells Like Teen Spirit, ascoltata da giovane, in audiocassetta), o perdersi in un mood malinconico che stringe la gola in un grumo di amarezza (Halfway Home e If Whiskey Were A Woman). Ne esce così un disco conciso (solo trentacinque minuti di durata), ma ricco di sfumature che tengono l’ascoltatore su un bilico emozionale tra nostalgie carezzevoli (Old Men Young Women), disarmanti entusiasmi in echi springsteeniani (All These Things) e dolcissimi naufragi sentimentali (Wreck You). 

17. ANGEL OLSEN – MY WOMAN
Con My Woman, secondo full lengh, la Olsen ha dimostrato un ulteriore passo avanti verso il raggiungimento della cosiddetta maturità artistica, codificando e definendo ulteriormente il songwriting già apprezzato all'esordio. Nella musica di Angel convivono, infatti due diverse anime, ma tra loro complementari: un lato più selvaggio, tutto fuzz, distorsioni e ringhi chitarristici, e per converso un altrettanto forte inclinazione verso la ballata drammatica. Le suggestioni di My Woman nascono proprio da questi opposti, dall'interplay misurato fra strumentazione acustica, elettrica ed elettronica, da brani, cioè, che sanno fondere in un unico mood cantautorato, bit e frementi scosse di elettricità. 




 



16. INA FORSMAN – INA FORSMAN
Prendete, ad esempio, l’iniziale Hanging Loose, un r’n’b marchiato Aretha Franklin: ascoltare il perfetto interplay fra il fraseggio di piano (che intuizione!), la travolgente sezione fiati, l’assolo di chitarra dal suono decisamente rock, la batteria pestata a sangue e la voce della Forsman, che prima agevola lo swing e poi si sbriglia, lasciando libero passo all’istinto, è un’esperienza da capogiro. Tutte le tracce in scaletta, però, esplodono di odori e di colori, sia quando il suono ci porta nel cuore della notte al Cotton Club per ascoltare Cab Calloway (Bubbly Kisses), sia quando si accendono le luci sugli anni ’60 e l’omaggio alla grande Amy è più esplicito di un cazzotto in bocca (Before You Go Home). Quindi, fidatevi del sottoscritto e non fatevi fuorviare dalla copertina: la migliore sorpresa di questa prima parte del 2016 arriva dalla Finlandia e si chiama Ina Forsman. Grande voce, grande disco.



15. BONNIE BISHOP – AIN’T WHO I WAS
Non c'è una virgola, in Ain't Who I Was, infatti, che suoni fuori posto, a partire da una scrittura ispirata e sincera, in grado di donarci emozioni dalla prima all'ultima delle dieci canzoni in scaletta. Cobb, da parte sua, ci mette un grandissimo lavoro di produzione, esaltando la grande anima soul del disco e delineando un suono caldo, avvolgente e decisamente vintage, che, grazie al cesello del missaggio, si coglie in tutte le sue sfumature. Ascoltare la voce della Bishop, una via di mezzo fra Susan Tedeschi e Bonnie Raitt, è come passare una mano sul velluto; il resto ce lo mettono un gruppo di sessionisti nashvilliani da paura, a partire dall'irsuto Leroy Powell alla chitarra elettrica e da Jimmy Wallace al pianoforte, Hammond e Mellotron. Basta ascoltare l'iniziale Mercy, un gospel tinteggiato di swamp rock, per capire il livello di queste composizioni: c'è passione, vulnerabilità, calore, un'anima che trabocca soul, una band in stato di grazia. Ed è solo l'inizio: impossibile non essere rapiti dai ritornelli irresistibili di Be With You (geniale il tappeto di Mellotron sottostante), di Broken e di Looking For You, dal midtempo in stile Motown anni '70 di Too Late, dall'arrembante spiritual della tradizionale Done Died e dalla rivisitazione soul blues della (già citata) Not Cause I Wanted You, forse anche migliore della celebrata versione di Bonnie Raitt.

14. MARGO PRICE – MIDWEST FARMER’S DAUGHTER
Dieci canzoni in scaletta, per un disco che si ascolta con infinita piacevolezza, tanto che arrivati alla breve chiosa acustica di World’s Greatest Loser, si torna immediatamente alla prima traccia con l’animo predisposto al meglio. Una musica che paga pegno a Emmylou Harris, Linda Ronstadt, Dolly Parton, ma che mantiene una propria originalità di fondo, come si coglie nell’iniziale Hands Of Time, ballata impreziosita da un delicato arrangiamento d’archi e percorsa da emozionanti vibrazioni soul, o in Tennesse Song e Four Years Of Chances, decisamente più virate verso sonorità blues (nella seconda, espresse con aspre trame elettriche e una curiosa ritmica dance). Particolare l’arrangiamento dei brani, con l’accento posto prevalentemente sulla sezione ritmica, e straordinaria la voce della Price (evito paragoni, perché a mio avviso possiede un timbro unico), tanto squillante che, sulle note alte quasi ci ferisce le orecchie.







13. STURGILL SIMPSON- A SAILOR’S GUIDE TO EARTH
Tutti, forse, tranne Simpson, che per il suo terzo full lenght decide di cambiare (quasi) tutto. A Sailor’S Guide To Earth, infatti, sposta prepotentemente l’accento dal country al soul e al r’n’b, e si arricchisce di una complessità di arrangiamenti e di inserti, decisamente preponderanti, di fiati e archi. Il vecchio Sturgill vive ancora in qualche episodio come Sea Stories, un country rock ruspante con la scintillante steel guitar di Dan Dugmore in bella evidenza, o in Oh Sarah, languidissima ballata old style ammantata dal suono di due violoncelli e due violini. E questo è tutto. Il resto del disco imbocca, decisamente, un’altra direzione. A partire dall’iniziale Welcome To Earth (Pollywog), scombussolante esempio di una scrittura che sa azzardare, lasciando l’ascoltatore a bocca aperta: i suoni che arrivano dall’oceano si sciolgono nell’abbraccio dolcissimo della chitarra acustica e del piano, mentre la voce baritonale di Sturgill inizia a declamare versi, appoggiato su un morbido arrangiamento d’archi. Se chiudi gli occhi, puoi immaginare che Elvis ti stringa la mano e stia cantando solo per te. E poi, quando meno te lo aspetti, improvvisamente, la canzone cambia, per trasformarsi in un ciondolante soul corroborato dai fiati incalzanti dei Dap Kings, la backing band di Sharon Jones.

12. ELISABETH COOK – EXODUS OF VENUS
E’ subito chiaro che le sonorità rock predominano, che il sound è irrorato da un’aspra malinconia e che durante l’ascolto sarà (prevalentemente) la notte a prendersi cura di noi. I testi sono chiaramente autobiografici, e la Cook mette a nudo le sofferenze di un amore che le ha causato un crollo fisico ed emotivo (Broke Down In London On The M25). Nel consueto gioco dei rimandi è soprattutto Lucinda Williams a venire in mente, come è palese nel solido groove di Dyin’, un altro brano innervato da un rancore a stento trattenuto. Ma il peso del dolore e i fantasmi del passato emergono prepotentemente soprattutto nel rock astioso di Evacuation e nel rallenti blues di Slow Pain, una lenta e lunga discesa nei più inaccessibili romiti del dolore, segnata dalle rasoiate di lap steel di Jesse Aycock e dalle distorsioni noise di Green. La Cook, infatti, mette a segno il suo personale capolavoro e uno dei dischi di americana più belli dell’anno: aspro, ruvido, depresso, ben poco accondiscendente e lontano dai consueti lidi contigui a sonorità country. Come spesso succede in ambito musicale, da un grande dolore nasce una grande arte: qui c’è rabbia, c’è rancore, c’è un grumo di fiele che rende amara la bocca. E’ sincerità, è sofferenza, è la vita, è musica vera.

11. PJ HARVEY – THE HOPE SIX DEMOLITION PROJECT
Canzoni che si nutrono di contrasti, in una tavolozza nella quale convivono colori brillanti, abbagli di luce, cromature scintillanti, ma anche violente pennellate di nero pece. Il fluire è ondivago e spiazzante, il mood mai allineato, gli arrangiamenti stranianti e imprevedibili. Community Of Hope che apre con passo gagliardo e una melodia corale che non lascia scampo, Ministry Of Defence con la cadenza marziale di un Leviatano in musica, lo stato e la politica che tutto fagocitano in stridenti note di sax, il folk alla Joan Baez in Near The Memorials To Vietnam and Lincoln, l’equilibrio instabile di River Anacostia, in bilico fra gospel, ritmo tribale e accorata invocazione, lo sprofondo malinconico di The Orange Monkey, la ruvidezza rock adornata di handclapping di The Wheel sono solo alcuni dei momenti più riusciti di un disco, il cui unico fille rouge è rappresentato dall’uso ossessivo dei cori e dal sapiente arrangiamento dei fiati (fra i crediti anche il nostro Enrico Gabrielli). La nuova PJ Harvey, dicevamo, si porta dietro tutto il suo passato e lo rielabora, pensando nuovamente al futuro. L’urgenza espressa a inizio carriera, quel broncio capace di trasformarsi in ringhio, oggi è diventata un’altra cosa, un modo maturo e più riflessivo di fare musica, rimescolando (ancora) le carte in tavola, per prepararsi a una nuova partenza e a un nuovo cammino. Di vertice in vertice, con la passione e l’incanto di chi riesce sempre a stupirci, raccontandoci nuove storie. La metamorfosi continua.






Blackswan, venerdì 30/12/2016