I Tindersticks guidati dal
cantante Stuart A. Staples esordiscono nel 1993 dando alle stampe un album con
22 brani della durata complessiva di ben 80 minuti, un’opera coraggiosa del
tutto in controtendenza con le abitudini dell’epoca dominata dall’immediatezza
del Grunge e del Britpop. La band, quasi la risposta inglese ai Morphine di
Mark Sandman (Cure For Pain esce
quello stesso anno), intercetta subito l’attenzione generale facendo spendere
paragoni altisonanti con Leonard Cohen, Tom Waits e Nick Cave. Alcuni dei brani
in scaletta, Whiskey & Water, City Sickness, Patchwork, Marbles,
riascoltati oggi seducono quanto e più di allora rimanendo insuperati nella
successiva produzione del combo di Nottingham così come la soffusa, ammaliante,
indimenticabile Nectar.
Richard Thompson – Sneaky Boy
Sneaky
Boy
è un brano insolito nella lunghissima discografia dell’ex Fairport Convention
Richard Thompson. Tratta da Sweet Warrior
del 2007 è quanto di più lontano dal Brit/Folk che ci si aspetterebbe dal
menestrello di Notting Hill. Decisamente più in linea con le storture ritmiche
di gente come Fall o Pere Ubu la canzoncina già dopo un paio di ascolti crea
autentica dipendenza: Sneaky Boy, Sneaky
Boy / Your teeth and your t-shirt / Were always too clean / Sneaky Boy, Sneaky
Boy / They're writing your name / Down in the latrine, boy / Sneaky Boy, Sneaky
Boy ...
Motorpsycho – Neverland
L’anno scorso, preso
dall’entusiasmo per il terzo episodio dell’avventura Spidergawd, l’imperdibile progetto
parallelo dei Motorpsycho, azzardai paragoni tra questi ultimi e Kubrick. Una esagerazione!
Tuttavia è innegabile che la band norvegese abbia attraversato i generi del
Rock (Hard, Alternative, Fusion, Psichedelia, Prog, etc) così come il geniale
regista americano ha fatto in campo cinematografico. Nel 2002 fu la volta del
Garage/Psych con It’s A Love Cult, riuscitissimo
tributo ai grandi dei sixties, Beatles, Kinks, 13th Floor Elevator. Esercizio
di stile tra i più riusciti di Bent
Sæther e compagni, il disco si eleva sulle produzioni di altre band
superspecializzate sul tema che, anche dopo carriere decennali, non riusciranno
mai a scrivere gioiellini come questa Neverland
Non sono in molti quelli
che si ricordano dei Cat Mother & The All Night Newsboys, classico esempio
di band a cui il tempo non ha restituito un briciolo di quella gloria che
avrebbero meritato ben oltre il periodo in cui furono attivi. Formatesi a New
York sul finire del 1967 e successivamente attivi a Mendocino, in California, i
Cat Mother furono un progetto nato dall’incontro fra Roy Michaels (voce e
basso), appena uscito dall’esperienza degli Au Go Go Singers (con lui c’erano
Stephen Stills e Richie Furay), e Bob Smith (voce e tastiere). Ai due si
aggiunsero quasi subito William David "Charlie" Chin (voce e
chitarra), Larry Packer (chitarra e violino) e Michael Equine (batteria e
chitarra). La band inizia a suonare in vari locali di New York, tra cui il
mitico Cafè Wha?, e diventa ben presto la house band dell’altrettanto mitico
Electric Circus, night club da cui partì la carriera dei Velvet Underground. Il
successo vero arriva però solo nel 1969, quando la band inizia a suonare dal
vivo un medley di vecchi classici del rock ‘n’ roll dal titolo Good Old Rock’n’Roll.
Il brano, in cui i Cat Mother coverizzano, fondendoli fra loro in modo
travolgente, Sweet Little Sixteen di Chuck Berry, Long Tall Sally di Little
Richards, Chantily Lace di Big Bopper, Whole Lotta Shakin’ Goin’ On di jerry
Lee Lewis, Blue Suede Shoes di Carl Perkins e Party Doll di Buddy Knox, diventa
un tormentone radiofonico e scala le classifiche di Billboard, piazzandosi al ventunesimo
posto. E da qui che inizia la breve carriera dei Cat Mother, che sarà
circoscritta a quattro full lenght, il primo dei quali, The Street Giveth and the Street Taketh Away
(1969), viene prodotto da un ragazzo di colore che sta facendo la storia
della chitarra elettrica: Jimi Hendrix. La collaborazione con Hendrix nasce per
volontà del manager della band, Michael Jeffery, che aveva collaborato con Chas
Chandler al lancio degli Experience (due anni dopo, Jeffery fu anche accusato
della morte di Hendrix da James Tappy Wright, ma questa è un’altra storia). In
virtù degli stretti rapporti di collaborazione tra l’uomo d’affari e il
chitarrista (rapporti mai idilliaci, peraltro), Jeffery fece aprire i concerti degli
Experience dai Cat Mother e la cosa funzionò molto bene, tanto che Hendrix si
convinse a mettere mano all’esordio della band newyorkese. Nel disco, tuttavia,
la mano del musicista di colore si sente pochissimo, anche perché la proposta
musicale della band si muove in territori diversi, più contigui ad un art-rock
a volte un po' pretenzioso, in altre decisamente più efficace, come
sottolineato anche dalle parole di Lester Bangs: “this is one of those rare albums which knocks you out the very first time
you hear it, but sustains itself as well, by virtue of its honest exuberance,
lucid musical sensibility and propulsive drive”. Il disco inizia con l’energia
travolgente di Old Good Rock’n’Roll, tre minuti basici e dal mood festaiolo,
che sembrano aver mandato a memoria la lezione Revival dei Creedence. Favor è
un up-tempo psichedelico, con chitarre in acido (i Doors sono dietro l’angolo),
un ritornello giocato sull’interplay fra le voci e un lungo assolo in coda. How
I Spent My Summer trova asilo in un punto a caso della costa californiana, fra la
Los Angeles dei CS&N e la San Francisco dei Jefferson Airplane, Marie è un
irresistibile pop song che deraglia nel divertimento puro di un pianoforte da
saloon, gli effluvi psichedelici di Can You Dance To It? suonano come la
versione americana della coeva Come Togheter (Beatles), mentre la conclusiva e ambiziosa
Track In A (Nebraska Night) imbocca la strada obliqua della sperimentazione,
fondendo umori psichedelici, groove doorsiani (con Bob Smith a citare Manzarek)
e intuizioni art rock. The Street
Giveth and the Street Taketh Away è, in definitiva, un disco che, nonostante
alcuni difetti (certe leziosità strumentali, poca coerenza nell’amalgama
complessiva), merita di essere riscoperto e non solo per il gancio della
produzione di Hendrix. Indubbiamente figli del loro tempo, abili a interpretare
con gusto personale i fermenti psichedelici dell’epoca e poi, nei dischi
successivi a questo, a imbastire un country rock più convenzionale ma
egualmente efficace, i Cat Mother all’esordio si fanno notare per il linguaggio
ricercato con cui cercano di affermarsi in un panorama musicale dominato da
mostri sacri. Ci sono riusciti solo in parte, con qualche intuizione coraggiosa
e con una canzone, Old Good Rock’n’Roll, che li porterà in cima alle
classifiche ma che non rappresenta, nemmeno alla lontana, il suono che avevano
in testa. Una band ambiziosa, che però non riuscì mai a emergere e che, a poco
a poco, spense le proprie velleità sperimentali in un anonimato che dura tutt’oggi.
Il disco è stato ristampato e rimasterizzato nel 2013 dalla Universal Record.
L’Alive Naturalsound è la prestigiosa etichetta
discografica di Los Angeles che dal 1993 in poi promuove e distribuisce il
meglio del Rock/Blues internazionale declinato volta per volta in modalità Garage,
Punk, Psych e Soul. Un piccolo paradiso in terra, quindi, per tutti gli
appassionati delle sonorità più viscerali e genuine come si evince facilmente scorrendo
i nomi delle band del loro catalogo: Black Keys, Left Lane Cruiser, Datura4,
Radio Moscow, giusto per citarne qualcuna. Tra i tanti meriti anche quello di credere
in nuovi progetti e in nuovi artisti che altrimenti faticherebbero, e non poco,
a farsi conoscere ed apprezzare. Solo nel 2016 l’Alive ha rilanciato la
carriera degli irlandesi Bonnevilles e curato gli esordi dei King Mud e dei
Sulfur City della inarrivabile lead singer Lori Paradis, tre dischi da urlo che
ancora non ci stanchiamo di ascoltare. Adesso è la volta degli Heath Green and
The Makeshifters e del loro primo ed omonimo album per il quale sono già stati
spesi solo commenti entusiastici. Il quartetto, capitanato dal
cantante/chitarrista Heath Green, veterano della scena musicale di Birmingham
(Alabama), si completa con l’amico di lunga data Jason Lucia alla batteria,
Jody Nelson (seconda chitarra e armonica), Greg Slamen (basso e piano), per
questi ultimi due una manciata di album all’attivo nel gruppo Throght The
Sparks.
Inoltrandoci tra i solchi del disco tornano in mente 50
anni di grande Rock, Leon Russell e gli Humble Pie sono, per loro stessa
ammissione, le influenze più marcate se aggiungiamo i Black Crowes di Amorica e band di più recente formazione
come i Rival Sons e i Moreland & Arbuckle il quadro si completa: un mix
fatto di polverose scorribande elettriche, spigolosità Garage e melodie Bluesy
dove i quattro mettono a frutto l’esperienza accumulata durante la lunga
gavetta. E’ comunque la voce di Heath Green, somigliantissima a quella di Joe
Cocker, fulcro ed arma vincente della band, sia che aggredisca i brani più
tirati, sia che si cimenti nelle splendide ballate presenti nel disco. Le dieci
canzoni scorrono via con gusto e misura, senza inutili fronzoli stilistici,
affrancandosi del tutto dal dovere di ingentilire i toni in nome di un presunto
imprinting commerciale, colpendo nel segno più e più volte. L’incalzante
opening track Out To The City, con un
assolo d’armonica in coda da far saltare sulla sedia, Secret Sisters, quasi una rilettura in chiave Garage/Soul di un
classico di Howlin’ Wolf, l’emozionante ballata Ain’t It A Shame, l’intensa e rigorosa Living On The Good Side. Tra i continui cambi di registro il divertimento
è assicurato con gli stop and go di Hold
On Me, il Punk/Blues scarnificato alla maniera di Tom Waits di Took Of My Head e il frenetico Boogie Ain’t Ever Be My Baby. In sintesi, grande
band e straordinario debutto, uno dei dischi più eccitanti incrociati di
recente che, in mondo perfetto, stazionerebbe per mesi in cima alle
classifiche.