Craig Finn annuncia il suo nuovo e atteso
album I Need A New War in uscita il 26 aprile su Partisan Records. Si tratta del terzo album di una trilogia (segue
Faith In The Future del 2015 e
We All Want The Same Things
del 2017) e vede Finn raccontare in modo esperto l’epoca moderna in cui
viviamo, tra confusione e difficoltà. Creando dei personaggi dalle vite
regolari che cercano
di affrontare questi tempi straordinari, Finn mostra le difficoltà
nello stare al passo di un mondo che si muove più veloce di loro. Il
cantautore americano, in
I Need A New War, si focalizza su New York City, la sua casa negli ultimi 18 anni.
Sono
tanti i gufetti che continuano a dirci che il rock è morto e che le
chitarre elettriche sono ormai sparite dalla musica. Così, a recensire
questo nuovo disco dei Rival Sons, si prova doppia soddisfazione. In
primis, perché è un discone, e poi perché fa un po' più di chiarezza
sullo stato dell’arte, mettendo a tacere chi ormai da tempo celebra
esequie non richieste.
Se Feral Roots
fosse, infatti, un bollettino medico o l’esito del check up di un
moribondo dato per spacciato, molti si sorprenderebbero a scoprire che
il rock gode, non di buona, ma di ottima salute. Basta mettere sul
piatto il disco e farsi asfaltare dalla sequenza dei primi tre brani: la
ferocia anthemica di Do Your Worst, il tambureggiare spasmodico di Sugar On The Bone e lo schianto metallico di Back In The Woods,
selvaggia e arrembante come una carica di cavalleria, sono i classici
tre indizi che forniscono una prova grossa come una casa.
Un
inizio potente, rumoroso, martellante, roba che se non si sta attenti
al volume delle casse si rischiano denunce penali dai vicini di casa. Il
rock sta benissimo, allora, e proprio grazie a band come i Rival Sons,
che continuano a fare del loro meglio affinché il sacro fuoco non si
spenga mai. Giunti al sesto album in studio, dopo oltre dieci anni di
attività, la band di Long Beach è ormai una macchina da guerra
collaudatissima, con un proprio suono e una propria identità, tanto che
pigri paragoni con grandi band del passato, Led Zeppelin su tutte, sono
ormai solo meri esercizi di stile giornalistico che non hanno (quasi)
più ragione d’essere.
In cabina di regia torna nuovamente Dave “Re Mida”
Cobb, che anche fuori dagli steccati dell’americana, si trova
meravigliosamente a suo agio. Nello specifico, mette lo zampino anche in
alcune delle composizioni, e soprattutto, forgia un suono dal tiro
pazzesco, secco, pulito e letale come un colpo di mazza ferrata sullo
zigomo. Il resto ce lo mettono questi quattro ragazzi, che non solo non
hanno perso un briciolo dell’entusiasmo degli esordi, ma sono anche
cresciuti notevolmente a livello di songwriting.
Se
il filotto iniziale a cui abbiamo accennato suona come una fucilata che
mette le cose subito in chiaro, i brani successivi, pur avendo sempre
un impatto poderoso, vantano una struttura più complessa e una maggior
stratificazione dei suoni. Look Away si apre con umori psych
folk che sfociano nell’irruenza hard rock di un brano che non
sfigurerebbe in un disco dei Black Country Communion, Stood By Me parte in sgommata e derapa verso il funky, le chitarre acustiche della title track
ammiccano agli Zeppelin, in chiave Zep III, per poi evaporare in un
riff elettrico dalla presa immediata e appena levigato di psichedelia,
mentre Too Bad (magistrale la prova di Scott Holiday alla sei
corde), possiede passo pesante di sabbathiana memoria e una palpitante
anima blues.
Chiudono la scaletta End Of Forever, forse la meno riuscita del lotto, che in un breve passaggio cita, quasi per assonanza (casualità?), In The End dei Linkin Park, e Shooting Stars,
virile rock gospel conclusivo, che sfodera un coro da singalong a
oltranza, buono per fine concerto. Un disco gagliardo e perfettamente
centrato, che pone i Rival Sons nel novero dei migliori interpreti del
genere, e che farà la felicità di tanti appassionati. Qui decibel, air
guitar e headbagging sono garantiti per quarantacinque minuti di
sanguigno e voluttuoso rock. Con buona pace dei detrattori e del
vicinato tutto.
Quarant'anni
dopo lo scioglimento della band culto Rema-Rema (che includeva membri
di The Models e Siouxsie and The Banshees) la 4AD pubblica l’album di
debutto che non ci fu.
Il loro acclamato “Wheel in the Roses EP” (1980) è stato tra i primi
dischi pubblicati su 4AD e fu anche i il loro unico contributo alla
storia dell'etichetta perché si sciolsero prima della sua uscita per
formare o unirsi ad altre band come i Renegade Soundwave, The Wolfgang
Press, Mass, e Adam and the Ants. L'album di debutto che non c’è mai
stato, Fond Reflections, arriva quasi quarant'anni dopo il loro
EP di debutto ed è stato selezionato dal ricco archivio di
registrazioni su bobina e su cassetta della band dall’ex membro Gary
Asquith e mixato da Takatsuna Mukai.
Le
dieci tracce riflettono quasi tutto il live-set della band ed è quanto
di più vicino al modo in cui avrebbe potuto suonare il loro album di
debutto. Vale la pena notare che anche se tutte le tracce del loro EP
del 1980 sono presenti su questo album, le registrazioni sono
differenti.
L’edizione in CD è accompagnata da un secondo disco intitolato Extended Wheel in the Roses.
Come suggerisce il titolo, si tratta dell’EP di quattro tracce
dell’epoca più “Entry” (tratta della stessa studio session), “No
Applause” e “Murdermuzic”, altre due tracce registrate live all’Albany
Empire di Londra nel 1979.
Ad
ascoltare questo disco a scatola chiusa, senza sapere chi sia Steve
Gunn e l’anno di uscita, verrebbe da collocare le nove canzoni che ne
compongono la scaletta in un tempo molto lontano. Tutto, infatti,
risulta incredibilmente vintage, a partire dalla bella copertina, che
immortala il songwriter di Brooklyn nell’atto di aprire la custodia
della chitarra, trasmettendo subito un senso di musica artigiana,
costruita con semplicità, senza artifici, come si faceva una volta.
Se
è vero che Gunn, come molti colleghi a lui assimilabili (su tutti Ryley
Walker, Jonathan Wilson e Kurt Vile, ex compagno d’avventura nei
Violators) identifica il presente di una narrazione americana dagli
accenti psych-folk, è indubitabile che questa musica altro non sia che
la rielaborazione di quel linguaggio avuto in eredità da straordinari
artisti quali John Fahey e Robbie Basho.
Giunto
al quindicesimo album in carriera (non dimenticando anche svariate e
importanti collaborazioni con Michael Chapman, His Golden Messengers,
Mike Cooper, etc) Gunn, infatti, ripropone con coerenza un’idea di
musica ostinatamente derivativa, ma trova, però, in The Unseen In Between
il punto più alto della propria poetica, una maturità piena, quindi,
sia in termini compositivi che di suono. Non è un caso, sotto questo
aspetto, l’altissimo profilo della backing band che accompagna il
musicista di Brooklyn: il chitarrista e produttore James Elkington, il
bassista di Bob Dylan, Tony Garnier, la vocalist Meg Baird, il
tastierista Daniel Schlett e il batterista TJ Mainani.
Composizioni
di ampio respiro, in cui la band giostra con mestiere intorno alla
chitarra di Gunn, che cesella le melodie, prendendo spunto da semplici
riff, quasi fossero l’abbrivio per fluttuare leggeri nell’aria (Morning Is Mended), aggomitolarsi intorno a una suntuosa linea di basso (New Moon)
o irruvidirsi in una potente coda elettrica che cresce impetuosa dopo
essersi divincolata dal lisergico groviglio psichedelico (New Familiar).
Se
Gunn mette al servizio dell’album, oltre a riuscite composizioni, la
bella voce e la straordinaria tecnica chitarrista, una nota di merito
spetta anche alla produzione di James Elkington, la cui visione
alchemica bilancia alla perfezione strumenti elettrici e acustici,
contrappunto d’archi e voci evocative e spettrali. Un melange ipnotico
che trascina l’ascoltatore in un vortice sonoro di quarantacinque minuti
e che crea un’atmosfera quasi surreale che persiste ben oltre la fine
dell’ascolto.
La band ha recentemente pubblicato il video di “Salvation”,
primo estratto dall’album che ha già ottenuto più di 2 milioni di
stream ed è nella Top 30 di Alternative radio negli Stati Uniti.
Grazie al sound più leggero e al suo approccio più ottimistico, Rattlesnake
segna la svolta stilistica decisiva rispetto alle atmosfere
malinconiche e introspettive dei lavori precedenti. Prodotto da Tim
Pagnotta (Elle King, Walk The Moon) e co-prodotto da Brian Phillips,
l’album è stato registrato nel paese d’origine della band, tra il
leggendario Bathouse Recording Studio di Kingston e il Revolution
Recording di Toronto, in Ontario. Questo nuovo lavoro, composto da 9
tracce, è il successore di Hope, terzo album della band che si è
guadagnato un posto nella classifica di Billboard e da cui è stato
estratto il singolo #1 (3 volte platino in Italia) “Spirits”.
“Dopo
l’ultimo tour… Izzy ha avuto un figlio, io ho preso un bulldog inglese,
Darryl è andato a Bali, Jon si è costruito un cottage, Jer ha
attraversato il Canada con il suo camper, Dave si è fatto crescere i
baffi e tutti insieme abbiamo realizzato un album di cui siamo DAVVERO
fieri”, ha detto Simon Ward. “Siamo felicissimi di tornare in tour e di fare ascoltare a tutti la nuova musica”.
Dopo la pubblicazione di Rattlesnake, The Strumbellas
saranno impegnati in un lungo tour americano, che partirà da Boston l’1
maggio e si concluderà alla Newport Music Hall di Columbus il 14
giugno.
The Strumbellas sono: Simon Ward (voce, chitarra acustica), David Ritter (tastiere), Jeremy Drury (percussioni), Isabel Ritchie (archi), e Darryl James
(basso). Nel 2017 hanno vinto il premio Best New Alternative Rock
Artist of the Year di iHeart Radio Music e quello per Single of the Year
di JUNO, per cui erano in sfida contro Drake, The Weeknd e Shawn
Mendes. I loro lavori precedenti sono stati molto acclamati dalla
critica, The New York Times ha scritto “The Strumbellas hanno alle spalle una storia che viene perfettamente rappresentata dal titolo dell’album, Hope”, mentre Forbes ha affermato “The Strumbellas non stanno conquistando solo l’America, ma tutto il mondo”.
Gli ultimi sei anni di carriera per l’ex Beta Band,
Steve Mason, hanno alternato alti e bassi, iniziati nel 2013 con Monkey
Minds In The Devil’s Time, disco ricco, denso e barricadero, a cui è
seguito Meet The Humans (2016), al contrario, un episodio sciapo,
atrofizzato e totalmente privo di mordente. Un album, questo, che non aveva
lasciato certo una buona impressione, tanto da far insorgere il sospetto che
l’ispirazione di un tempo avesse lasciato il posto al mestiere di un
professionista della musica, pronto a tirare a campare in un abito grigio e
consunto.
Oggi, con questo nuovo About The Light, si può
dire che quel timore si era manifestato un po' troppo frettolosamente e che il
buon Mason abbia ritrovato la penna dei giorni migliori. Titolo e copertina
sembrano messi lì a proposito per celebrare una piccola rinascita: la luce è
stata riaccesa, tornano i colori e, soprattutto, quelle canzoni, ben
rappresentate dalla divertita sfrontatezza dei quattro ragazzi immortalati
sulla cover.
Strano a dirsi, per un artista che ha abbondantemente
superato la quarantina, ma questo, al netto del catalogo Beta Band, è di certo
il suo disco più adulto e maturo, e la consapevolezza di tutto quel bagaglio
artistico acquisito nel tempo, gli permette di spaziare tra generi, con ardito
giovanilismo, rimanendo comunque credibile ed efficacissimo.
Sono molti gli high lights in questa raccolta di
canzoni vibrante, a tratti persino muscolare, sempre divertita e divertente, in
cui si incrociano pop, rock, funky e un pizzico di elettronica, senza che la
scaletta perda, comunque, di omogeneità.
La botta arriva subito con America Is Your
Boyfriend, canzone stratificata, gonfia di ottoni e benedetta da poche ma
precise pennellate di slide, a simboleggiare un connubio indissolubile fra la
musica che si specchia da un capo all’altro dell’Oceano. Tira alla grande anche
il beat di No Clue, che si apre alla melodia sul tiro incrociato di
chitarre dal sapore smithsiano (e non è un caso che a produrre ci sia Stephen
Street), mentre la title track si propone sorniona attraverso un
ritornello icastico che fa presa in men che non si dica.
E’ la seconda parte del disco, però a racchiudere i
momenti migliori, grazie alle movenze sinuose di Fox On The Rooftop, che
disperde echi pinkfloydiani nel cuore di una notte stellata, al funky di Stars
Around My Heart, distillato melodico alla XTC, e al riff nervoso della
strabiliante Walking Away From Love, viaggio a ritroso nella California
di fine anni ’60, che stende con un ritornello pazzesco e spariglia le carte
con un breve ma succoso ponte verniciato di soul.
Chiude The End, bigiotteria brit pop tirata a
lucido per l’occasione, sugellando un disco che, anche nei pochissimi momenti
non eccelsi (il rock martellante e monocorde di Spanish Brigade), mette
in luce una grinta rinnovata e l’spirazione di chi, non solo ha ancora qualcosa
da dire, ma è tornato a dirla con eloquio fluente e, soprattutto, convincente.
Nilüfer Yanya,
ventitreenne di Londra, considerata da The Fader “affascinante nuova
star del soul” annuncia oggi il suo anticipato album di debutto
intitolato Miss Universe, in uscita il 22 marzo su ATO Records [PIAS].
L’incredibile video per “In Your Head”
è stato girato nel deserto di Las Vegas dal collettivo ENERGYFORCE e
rispecchia i ritornelli elettrizzanti e l’energia frenetica dell’album.
Riguardo a “In Your Head”, Nilüfer afferma, “A
volte la mia mente mi fa degli scherzi e mi trovo intrappolata. Ci sono
cose mascherate da cose che penso di volere, cose che penso di scegliere
volontariamente e non per necessità. Spesso questo processo diventa
chiaro solo a posteriori, o magari non lo diventa mai. Alcune persone la
considerano paranoia. Penso di aver scritto una canzone proprio su
questo concetto, ma ciò che mi interessa e ciò che penso di voler
esprimere, è l’illusione della libertà.”
Miss Universe
è stato registrato a Penzance, lo stesso studio dove jammava con lo zio
Joe – un ex musicista – sotto la supervisione del suo ex insegnante di
chitarra Dave Okumu dei The Invisible e i suoi colleghi di band Jazzi
Bobbi e Luke Bower e dei produttori John Congleton, Oli Barton-Wood,
Will Archer e M.T. Hadley.
Il 2019 è iniziato alla grande per Nilüfer con un tour statunitense in compagnia di Sharon Van Etten.
Ad aprile visiterà Europa, Turchia e Regno Unito come headliner. La
seconda parte del tour inizierà proprio a Instanbul, la città di origine
di suo padre, per poi spostarsi a Londra presso l’ Evolutionary Arts
Hackney. Il chitarrista e compositore londinese Westerman la seguirà
come supporto. Per maggiori informazioni sul tour, visita: http://niluferyanya.com/.
Recentemente
inclusa nel sondaggio del 2018 della BBC Sound Of, Nilüfer è l’ultima
cover star per Loud and Quiet ed è stata nominata come artista da tenere
d’occhio nel 2019 da The Guardian, The Independent, i, Q, Dork e The
405.
Nonostante
abbia iniziato a sei anni a scrivere canzoni nella sua testa, e a 12
con la chitarra, Nilüfer Yanya impiegò molto tempo prima di avere il
coraggio di condividere la sua musica con tutti. “Sapevo di voler cantare, ma l’idea di doverlo fare veramente era spaventosa,” afferma la ventitreenne. Quando finalmente un maestro di musica a West London la convinse , disse: “è stato orribile. Ma allo stesso tempo, mi è piaciuto molto.”
A
18 anni, Nilüfer – di origini turche, irlandesi e Bajan – caricò
qualche demo su Soundcloud. Nonostante sia straordinariamente timida, la
sua musica – che unisce elementi di soul e jazz in un pop intimo, con
richiami elettronici e l’utilizzo di una chitarra dal sound grunge – non
lo è. E non ci ha messo molto a catturare l’attenzione delle persone.
Firmò con l’etichetta indipendente newyorkese ATO dopo aver pubblicato
tre EP sull’etichetta indie londinese Blue Flowers, guadagnandosi un
posto nella lista BBC Sound 2018. Nilüfer ha supportato in tour artisti
del calibro di The xx, Interpol, Broken Social Scene e Mitski.
Ora Nilüfer è pronta a pubblicare il suo album di debutto Miss Universe.
Nonostante lo abbia registrato nello stesso studio in Cornovaglia dove
jammava quando era molto più giovane, è un album ambizioso, come non
mai. “Angeles” con i suoi riff armonici rappresenta l’idea di “pensieri
paranoici e ansia” – un tema che ricorre in tutto l’album, anche negli
intermezzi concettuali di spoken word di una società fittizia di salute e
benessere WWAY HEALTH TM. ““You sign up, and you pay a fee,” spiega
Nilüfer nei messaggi automatici cosparsi per tutto l’album e narrati da
Miss Universe . “They sort out all of your dietary requirements, and
then they move onto medication, and then maybe you can get a better
organ or something… and then suddenly it starts to get a bit weird.
You're giving them more of you and to what end?”
Il 3 maggio, la singer songwriter di
stanza a Nashville, Caroline Spence, pubblicherà il suo nuovo album Mint
Condition tramite Rounder Records. Questo album segue Spades and Roses,
gioiellino uscito nel 2017, e rappresenta la sua prima uscita con Rounder.
Per anticipare il disco, la Spence
ha condiviso due canzoni: Long Haul e la title track. La prima descrive la vita
di un artista in difficoltà, mentre Mint Condition è è una sorta di omaggio
indiretta a Emmylou Harris (“Ricordo di essermi seduta sul pavimento della mia
camera da letto nel 2013, in un momento in cui stavo scrivendo un sacco di
canzoni…e ho cercato di scrivere qualcosa di abbastanza buono da far cantare
Emmylou Harris”).
Mint Condition è stato prodotto da
Dan Knobler (Lake Street Drive, Erin Rae) e mixato dall'ingegnere vincitore del
Grammy, Gary Paczosa (Sarah Jarosz, Parker Millsap, Gillian Welch).