giovedì 25 aprile 2024

Ihsahn - Ihsahn (Candlelight, 2024)

 


Questo disco è un’avventura sonora ricca di fascino, un viaggio in un mondo musicale complesso, forse addirittura respingente per taluni (coloro che non sono abituati a sonorità estreme), eppure talmente emozionante e ricco di suggestioni, da meritare tutta l’attenzione possibile.

Negli ultimi sei anni, Ihsahn non è stato certo con le mani in mano, dal momento che dal 2020 ha pubblicato tre EP (Telemark, Pharos e Fascination Street Sessions), ma un lavoro solista sulla lunga distanza da parte del frontman degli Empereor mancava da Amr, pubblicato nel 2018. C’era quindi grande attesa per il nuovo album di un artista straordinariamente talentuoso e dal songwriting ricco e sfaccettato.

Questo nuovo disco omonimo rappresenta al meglio tutto ciò che ha reso distintivo e straordinario il suo intero catalogo solista, enfatizzando, però, maggiormente, gli arrangiamenti sinfonici e melodie più delicate e orecchiabili, tanto che potremmo definire questo nuovo corso come il più accessibile (si fa per dire), e un’esperienza di ascolto in grado di soddisfare gli amanti del metal (da sempre declinato nella sua accezione più progressive e atmosferica), e coloro che sono curiosi di addentrarsi in territori inesplorati.

L’intento di Ihsahn (al secolo Vegard Sverre Tveitan) è da sempre quello di sperimentare, di spingersi oltre gli seccati di genere, e con questo lavoro l’asticella viene alzata un po’ di più. Se l’ossatura del disco resta, e non potrebbe essere diversamente, legata al black metal, le undici canzoni del disco presentano anche scintillanti arrangiamenti orchestrali, ispirati alle colonne sonore classiche di artisti del calibro Jerry Goldsmith, John Williams, Bernard Herrmann e John Carpenter.

Il risultato è un disco che esplora suggestioni agli antipodi, da un lato, cupa violenza, dall’altro, digressioni melodiche e avvolgenti, in un connubio ricco di contrasti e di chiaroscuri. Una resa concettualmente complicata, che in mano ad altri avrebbe potuto suonare forzata come la tessera di un puzzle inserita testardamente nello spazio sbagliato, e che invece nello specifico si dipana in modo naturale, senza astruse manipolazione, come se oscurità ed elettricità trovassero un perfetto e indispensabile equilibrio nell’epos degli arrangiamenti, nelle digressioni cinematografiche e nell’immediatezza di centrate melodie.

Prendiamo ad esempio i tre brani strumentali presenti in scaletta (l'apertura "Cervus Venator", l'interludio "Anima Extraneae" e la chiusura "Sonata Profana"): durano circa novanta secondi ciascuno, la loro sublime semplicità e armonia aggiungono bellezza cinematografica e coesione all'intera esperienza, funzionano bene come splendidi passaggi indipendenti, ma il loro potere più grande deriva dal permettere a Ihsahn di far fluire la musica in un viaggio musicalmente e tematicamente connesso. A vari livelli, ogni altra traccia dell’album è arricchita da archi, fiati e partiture orchestrali, e alcuni brani (vale a dire, "The Promethean Spark", "Pilgrimage to Oblivion", "Blood Trails to Love" e "At the Heart of All Things Broken") si avventurano in armonie particolarmente coinvolgenti attraverso l’uso del cantato pulito, dimostrando la capacità di Ihsahn di muoversi in un’ampia gamma vocale che non sia solo il growl.

Ovviamente, quanto appena affermato, non significa che l’album non presenti momenti più brutali e passaggi ferocemente ostici, come in "Twice Born" o "A Taste of the Ambrosia", e ancor più nella straordinaria "Hubris and Blue Devils", in cui i frenetici cambi di ritmo conducono verso un giro da incubo su una giostra di un luna park uscito da un film horror. 

Oltre alla versione metal del disco, quella, cioè, di cui abbiamo parlato, Ihsahn ne ha pubblicata anche una orchestrale, in cui le canzoni vengono riarrangiate e, in qualche modo reinventate, creando una narrazione secondaria che si affianca e si sovrappone alla narrazione principale. Ovviamente, le tre composizioni strumentali, citate prima, rimangono identiche, mentre le restanti canzoni vengono rielaborate, producendo una vera e propria suggestione da colonna sonora.

Ihsahn è un disco magmatico, audace e ambivalente, al cui ascolto occorre dedicare tempo, pazienza e apertura mentale. Forse, i metallari più incalliti storceranno il naso di fronte ad archi e melodie, mentre altri troveranno indigeribili il cantato gutturale e le partiture più estreme. Il consiglio per tutti è di dare una possibilità all’album, approcciandosi senza preconcetti a queste undici, incredibili canzoni: chissà, magari per qualcuno si trasformerà in disco dell’anno.

Voto: 9

Genere: Atmospheric Black Metal, Progressive Metal 




Blackswan, giovedì 25/04/2024

martedì 23 aprile 2024

Unsatisfied - The Replacements (Twin/Tone Records, 1984)

 


Non è certo questa la sede per affrontare un capolavoro, per cui sono già stati spesi, e a ragione, fiumi di inchiostro. Basti sapere che Let It Be (1984), terzo album dei Replacements, band originaria di Minneapolis (Minnesota) è stato un album rivoluzionario, non solo perché ha segnato un cambiamento drastico nel modo di scrivere canzoni di Paul Westerberg, il talentuoso leader della band, e nel suo ruolo decisivo nel dare una direzione al suono del gruppo, ma anche perché è oggi considerato uno dei dischi più influenti degli anni ’80 e della storia intera, diventato nel tempo vero e proprio oggetto di culto di molti appassionati, oltre che riferimento di un’intera generazione. Tanto che, per quanto i Replacements non abbiamo mai scalato le classifiche e non abbiamo mai raggiunto il successo commerciale che avrebbero meritato, si può affermare, senza rischiare di esagerare, che la band sia stata una delle più importanti in assoluto per lo sviluppo di quello che definiamo indie rock.

Let It Be, insieme al successivo Tim (1985) può essere definito, sic e simpliciter, un capolavoro, un disco che, cito Piero Scaruffi, “meglio equilibra il fremito adolescente del punk con l'anelito proletario della giovinezza matura”, e che “trasformò i Replacements da semplici icone generazionali ad artisti universali”.

In un filotto di canzoni imperdibili, compare come settima traccia Unsatisfied, dichiarazione di perpetua insoddisfazione e, probabilmente il brano più bello mai scritto da Westerberg.

A voler giocare un po’ coi rimandi e gli accostamenti, si può considerare Unsatisfied un aggiornamento anni ’80 della frustrazione giovanile cantata negli anni ’60 in (I Can't Get No) Satisfaction dai Rolling Stones. Anzi, in un certo senso, è una versione più seria, forse più matura, del tema che condivide con il brano degli Stones, quell’essere incompreso, quell’essere incapace di inserirsi nel tessuto sociale, quel sentirsi fuori tempo massimo, quel dolore provocato dal misurarsi con le perpetue bugie dell’esistenza umana. Satisfaction degli Stones, come direbbero i giovani oggi, spacca, è una canzone che spinge l’ascoltatore a muoversi, ad alzarsi in piedi e saltare, a gridare a squarciagola, trasportato da innodiche vibrazioni. In un certo senso, è inclusiva e “soddisfacente”.  Unsatisfied, invece, invita alla stasi, a crogiolarsi nella riflessione malinconica. C’è un’immensa bellezza, ma non è la bellezza con cui si balla; è più voluptas dolendi, prendere atto del fallimento e disperarsi in esso.

Il cinismo nel cuore della canzone è, infatti, implacabile, senza alcun raggio di sole: Tutto quello che sogni È proprio di fronte a te, e tutto è una bugia”, canta Westerberg dopo una serie di domande retoriche. Non c’è un filo di speranza, nessuna possibilità, nessun futuro plausibile. Unsatisfied, in tal senso, è differente dalle altre canzoni dei Replacements, che anche nella loro forma più cupa erano divertenti in modo caotico e punk. Questa, invece, sembra più una riflessione rabbiosa di un uomo di mezza età, che ha perso ogni afflato vitale, che un brano scritto da un ragazzo di venticinque anni, che suona rock’n’roll e a cui si stanno aprendo le porte del successo.

Nel retroterra letterario di Unsatisfied, quindi, non è difficile individuare il disgusto totale per l’inautenticità dell’esistenza umana che si poteva trovare in Albert Camus (Lo straniero), in Jean – Paul Sartre (La Nausea) o, per restare in terra d’America, ne Il Giovane Holden, capolavoro transgenerazionale di J.D. Salinger.

Non solo. Nell'innocente e cruda confessione di Unsatisfied, vediamo una prefigurazione del grunge degli anni '90, un movimento imbevuto di esistenzialismo e di una dolorosa presa di coscienza del fallimento di un’intera generazione. Non sorprende, quindi, che Dyslexic Heart, brano di Paul Westerberg, datato 1992, compaia nella colonna sonora di Singles, uno dei film più importanti e rappresentativi della cultura di quel decennio. Non un caso, ma quasi una necessità: la depressione armonica e il malcontento di Westerberg unirono il punk degli anni '70 e il grunge degli anni '90 in un unico, doloroso e tormentato abbraccio di una gioventù senza speranze.

 


 

 

Blackswan, martedì 23/04/2024

lunedì 22 aprile 2024

Gary Clark Jr. - JPEG RAW (Warner, 2024)

 


"Il blues sarà sempre il mio fondamento. Ma questo è solo l’inizio. Sono anche un beat maker e un impressionista a cui piace interpretare voci diverse. Ho sempre amato il teatro e poter raccontare una storia. A casa quando suono la tromba, penso a Lee Morgan, o John Coltrane quando suono il sax. Ho anche delle cornamuse nel caso ne avessi bisogno”.

Con questa dichiarazione, Gary Clark Jr spiega con estrema chiarezza quale sia il suo approccio alla composizione. Se il blues resta il suo centro di gravità permanente, il chitarrista statunitense non si limita a una frusta riproposizione del genere, di cui supera i limiti e i confini, ma esplora e contamina, fondendo le sue radici musicali con il soul, il rock, il funky, il pop e l’hip hop.

Se dal vivo ha sempre dimostrato di essere un performer eccezionale, i suoi album in studio, non proprio centrati a inizio carriera, hanno progressivamente tracciato un percorso sempre più di qualità, sfociato nell’ottimo This Land, uscito cinque anni fa, e riconfermato in questo nuovo JPEG Raw (l’acronimo JPEG sta per Gelosia, Orgoglio, Invidia e Avidità).

Un disco che, da un punto di vista concettuale, affronta il tema dell’attuale condizione umana in modo onesto e sincero, e che sotto il profilo musicale si presenta come un riuscito connubio di più generi, declinato con grande consapevolezza e ottime idee.

L'album si apre con "Maktub", groove trascinante e riff di chitarra sgranato che evoca il blues del deserto di band come Tinariwen e Tamikrest, incipit che la dice lunga sulla volontà di Clark Jr di uscire dai soliti schemi. La title track sposta subito il baricentro della narrazione verso lidi hip hop, ritornello orecchiabile e suggestivi lick di chitarra dal sapore blues, così come la successiva "Don’t Start" (in duetto con Valerie June) che rimescola blues e garage sopra aggressive ritmiche moderne, mentre un’armonica slabbrata tira l’impetuoso groove.

Nonostante una riuscita coesione di suoni, l’album si muove in direzioni tra loro contrapposte: "This is Who We Are Now" è un grande brano hip hop, tracimante pathos e spinto nella seconda parte da un lungo, strepitoso solo di chitarra, "To The End Of The Eart/Alone Together" è una vellutata ballata soul jazz dal sapore antico, resa scintillante dalla tromba del grande Keyon Harrold, "What About The Children", in duetto con la leggenda Stevie Wonder, è un funkettone che suona Stevie Wonder più di Stevie Wonder stesso, e sempre funk è anche la successiva "Hearts In Retrograde", connotata da graffi decisamente rock.

Il disco scivola verso la fine senza perdere un solo colpo e regalando altre sorprese: "Hyperwave" mescola i generi in una perfetta fusione di soul, r’n’b e pop, "Funk Witch U" vede il contributo di George Clinton in un accattivante melange di funk, hip hop e soul e "Triumph" è un’intensa ballata costruita su saliscendi emotivi, attraverso la quale Clark Jr racconta di come sia possibile trasformare una tragedia in un trionfo.

Il capolavoro arriva proprio in chiusura con "Habits", nove minuti punteggiati da un meraviglioso suono di chitarra, che iniziano come malinconicissima ballata finchè un croccante riff rock e poi un sublime arpeggio acustico spingono verso un crescendo melodico irresistibile e struggente, scartavetrato da scariche di vibrante elettricità e da un assolo da califfo della sei corde.

JPEG Raw è tutto tranne che un tradizionale album di blues, è semmai il lavoro versatile ed eterogeneo di un artista che non si accontenta di essere considerato solo un grande chitarrista che vive in una, per quanto prestigiosa, comfort zone. Forse, gli amanti ortodossi del genere storceranno il naso, ma chi ama la black music nella sua accezione più ampia, troverà in questo disco un crogiolo di idee e una sensibilità compositiva che non può lasciare indifferenti.

Voto: 8

Genere: Rock, Blues, Funky, Soul, Hip Hop

 


 

 

Blackswan, lunedì 22/04/2024

giovedì 18 aprile 2024

I Won't Back Down - Tom Petty (MCA, 1989)

 


Nel 1988, prima dell’inizio delle sessioni di registrazione di Full Moon Fever, un piromane diede fuoco alla casa di Tom Petty mentre si trovava lì con la sua famiglia e la loro governante. Il musicista e la sua famiglia riuscirono a mettersi in salvo, ma Petty rimase talmente scosso dalla vicenda, da trascorrere gran parte dei mesi successivi tra camere d'albergo e una casa in affitto. Non più una dimora fissa, ma tanti diversi luoghi, molti dei quali abitati per periodi di tempo brevissimi, verso i quali il songwriter si spostava alla guida della sua macchina.

Fu proprio durante questi spostamenti che Petty ha composto molte delle canzoni per il suo primo album solista. Quell’incendio, il terrore che ne derivò, la sensazione di essere sotto attacco ebbero un'enorme influenza su ciò che stava scrivendo, e specialmente su questa canzone. Petty si sentiva grato di essere vivo, ma anche traumatizzato, cosa comprensibile considerando che qualcuno aveva tentato di ucciderlo. I Won't Back Down (Non mi tirerò indietro) rappresentò, in buona sostanza, un modo di rivendicare la sua vita e superare il tormento, perché quella canzone aveva su di lui uno stranissimo effetto calmante.  

Il piromane che attentò alla vita di Petty non fu mai catturato, il che rese lo stato d’animo del musicista ancora più irrequieto. Soprattutto, perché dei sospetti su chi fosse l’autore del gesto, o quanto meno chi fosse il mandante, esistevano ed era assolutamente plausibili. Undici giorni prima dell’incendio, infatti, Petty aveva vinto una causa contro la società di pneumatici B.F. Goodrich per un milione di dollari. La Goodrich voleva usare la canzone di Petty, Mary's New Car, in uno spot televisivo e, quando il musicista si rifiutò, l’agenzia pubblicitaria dell’azienda mandò in onda una canzone, commissionata per l’occasione, praticamente identica al brano di Petty. Il giudice investito della causa diede ragione al musicista e condannò l’azienda a un lauto risarcimento.

I Won’t Back Down fu il primo singolo tratto da Full Moon Fever, e fu scritto e prodotto da Petty insieme all’amico Jeff Lynne. Quando, però, il brano venne presentato, insieme ad altre canzoni, alla casa discografica del tempo, la MCA Records, i dirigenti dell’etichetta rimandarono il materiale al mittente, sostenendo che fosse pessimo. Dopo sei mesi, le stesse canzoni, più o meno nella stessa forma, vennero ripresentate alla MCA. Questa volta, però, ad ascoltare erano altri dirigenti, che, entusiasti, diedero l’ok a Petty per la pubblicazione dell’album. In realtà, lo stesso musicista, almeno all’inizio, pur apprezzandone gli effetti catartici, non era convintissimo di I Won’t Back Down, perché la riteneva una canzone troppo personale. Durante un’intervista alla rivista Harp, rilasciata nel 2006, Petty disse: ”Quella canzone mi ha spaventato quando l'ho scritta... pensavo che non fosse così bella perché era così nuda, diretta... ho avuto molti ripensamenti riguardo alla registrazione di I Wonìt Back Down, ma tutti intorno a me dicevano che era davvero bella e alla fine tutti avevano ragione: più persone si identificano in quella canzone più di qualsiasi cosa io abbia mai scritto. Sono ancora continuamente stupito dal potere che ha una piccola canzone di 3 minuti."

Com’era prevedibile, alcuni politici hanno utilizzato la canzone di Petty per le loro campagne elettorali. Quando George W. Bush lo usò durante la sua campagna presidenziale del 2000, Petty minacciò di fare causa, poiché trovava Bush odioso. Per uno scherzo del destino, Bush, che smise di usare la canzone, vinse però le elezioni, proprio grazie al voto della Florida, lo stato natale di Petty.  I Won’t Back Down fu usata anche da Donald Trump durante una manifestazione elettorale molto pubblicizzata a Tulsa, Oklahoma, il 20 giugno 2020. La vedova del musicista, Dana, l'ex moglie Jane e le figlie Adria e Anna Kim protestarono rilasciando un duro comunicato, in cui manifestarono senza mezzi termini il loro dissenso: "Sia il defunto Tom Petty che la sua famiglia si oppongono fermamente al razzismo e alla discriminazione di qualsiasi tipo", scrissero. "Tom Petty non vorrebbe mai che una sua canzone fosse usata per una campagna di odio. Gli piaceva unire le persone. Tom ha scritto questa canzone per i più deboli, per l'uomo comune e per TUTTI."

Niente di più vero. Petty, infatti, suonò il brano il 21 settembre 2001 durante una maratona Telethon a beneficio delle vittime degli attacchi terroristici contro l'America. E ancora. Tom Petty è morto il 2 ottobre 2017, il giorno dopo il massacro al festival Route 91 Harvest di Las Vegas, dove morirono ben cinquantotto persone. Il 7 ottobre, il musicista country Jason Aldean, che era sul palco durante la sparatoria, aprì il Saturday Night Live con una performance di questa canzone, sia come tributo a Petty che come invito a resistere alla violenza, a restare uniti. "Quando l'America è al suo meglio, il nostro legame e il nostro spirito sono indistruttibili", disse prima di suonarla. Infine, nel febbraio 2023, una versione di I Won't Back Down, eseguita da Blake Shelton, Joe Walsh, Timothy B. Schmit e Matt Sorum è stata pubblicata online a beneficio dell'organizzazione The Miraculous Love Kids, che sostiene ragazze e giovani donne in Afghanistan.

 


 

 

Blackswan, giovedì 18/04/2024

martedì 16 aprile 2024

Juan Gomez-Jurado - Cicatrice (Fazi, 2023)


 

Simon Sax si potrebbe considerare un ragazzo fortunato: programmatore informatico americano, genio della matematica, a soli trent’anni sta per diventare miliardario. È infatti a un passo dal concludere un affare che gli cambierà la vita: venderà la sua grande invenzione – un sofisticato software – a una multinazionale. Eppure non è felice. Si sente solo. Il suo successo fa a pugni con una totale assenza di abilità in ambito sociale: le ragazze, per lui, sono sempre state una meta irraggiungibile. Finché un giorno supera i suoi pregiudizi ed entra in un sito di incontri dove conosce l’ucraina Irina, e comincia a sognare un futuro con lei nonostante le migliaia di chilometri che li separano. Ma Irina, il cui volto è segnato da un’enigmatica cicatrice, porta con sé un oscuro segreto: dietro quella ferita si cela più di quanto Simon possa immaginare, e innamorarsi di lei è solo il primo di una lunga serie di errori...

Con Cicatrice Gomez-Jurado abbandona l’amata Madrid e sposta l’ambientazione negli Stati Uniti, per la precisione a Chicago. Non solo, perché l’intreccio, che si sviluppa tra presente e passato, trova i suoi snodi narrativi anche nei Carpazi, in Ucraina e in Afghanistan.

E’ questa la prima peculiarità di un thriller ad alta tensione, che mette a contatto il mondo della programmazione informatica con quello della spietata mafia russa, due universi apparentemente inconciliabili, a cui lo scrittore spagnolo ha dedicato un certosino lavoro di ricostruzione e approfondimento, prima di procedere alla stesura del romanzo. Non è un caso che alcuni dei personaggi e degli eventi narrati trovino ispirazione da fatti realmente accaduti, mentre le pagine dedicate alla realizzazione di un sofisticato software, che potrebbe cambiare per sempre la vita di Simon Sax e del suo fedele amico Tom, riescono a essere comprensibili anche a tutti coloro che non masticano la materia.

Questo preliminare lavoro di studio, indispensabile per rendere credibile lo sviluppo della storia, è il carburante nobile di un romanzo che, come sempre, non lesina adrenalina e colpi di scena, oltre a risultare estremamente attrattivo per chi ama il genere, soprattutto nella parte dedicata a Irina e al suo mentore Lazar Kosogovsky, chiamato l’afghano, che, a costo di grandi sacrifici, trasforma la gracile bambina in una vera macchina da guerra pronta alla vendetta.

Non c’è nulla di particolarmente originale in questa storia tutto sommato prevedibile, che però riesce ad appassionare grazie all’abilità di Gomez-Jurado di comporre un puzzle realistico e avvincente, e grazie anche alla consueta prosa coloratissima, rapida e al contempo profonda, e ricca di quelle sfumature ironiche (il protagonista è un nerd sovrappeso incapace di rapportarsi al mondo che lo circonda) che da sempre contraddistinguono le opere dello scrittore madrileno.

Rispetto ad altri romanzi, manca in Cicatrice l’efficace approfondimento psicologico dei personaggi che, a parte il protagonista Simon, restano tutti abbastanza sfumati e privi di autentico spessore. Poco importa: se il lettore cerca solo il puro intrattenimento, qui ne troverà a iosa, tanto che ad arrivare alla fine delle quattrocento pagine del romanzo ci si impiega un lampo.

Blackswan, martedì 16/04/2024