lunedì 23 dicembre 2024

Jack White - No Name (Third Man Records, 2024)

 


Jack White è un musicista di successo, eppure, nonostante ciò, se ne fotte bellamente dell’industria discografica e dei tempi e delle modalità che ne regolano gli ingranaggi. Lui continua a essere un artista che fa le cose alle sue condizioni, quando ne ha voglia e in base all’ispirazione del momento. Non ha freni né pastoie, e galoppa libero negli sconfinati territori del rock, sperimentando a suo esclusivo piacere.

La storia di questo No Name è ormai nota. Il 19 luglio, nei negozi della Third Man Records, la piccola casa discografica indipendente di sua proprietà, ad alcuni clienti che acquistavano un album in vinile, venne regalato un album gratuito, non contrassegnato, con una copertina bianca su cui era semplicemente stampata la parola “No Name”: nessun credito e nemmeno il titolo dei brani. Poi, finalmente, dopo lo streaming, la versione fisica del disco, a beneficio di coloro che ancora ascoltano musica tramite supporto.

Sarò un boomer, anzi lo sono, ma questo album sparato a mille dalle casse dello stereo ha tutto un altro sapore, lo stesso che provai, tempo fa, ad ascoltare i dischi dei White Stripes. Un suono simile, e lo stesso approccio furente, spigoloso, slabbrato, sanguigno: un rock blues grezzo, declinato in modo schietto e diretto, attraverso una selvaggia inclinazione garage, che riporta alle radici di quel suono nato negli anni ’60. I White Stripes, dunque, ma con una maggiore consapevolezza compositiva: riff di chitarra come se piovesse, e un drumming primitivo che ricalca quello di Meg.

Per i fan della band e del Jack White più elettrico e aggressivo questo è un disco che sembra troppo bello per essere vero, e che riconnette il chitarrista alla sua originaria natura, grazie a tredici canzoni implacabili e furenti, ma al contempo orecchiabili e divertenti. Tutto semplice, diretto, figlio di una filosofia lo-fi, per cui altro non serve se non un riff spacca ossa, una ritmica ossessiva, una voce grintosa e pochi e spartani abbellimenti (qualche assolo, qualche cambio di tonalità, estemporanee armonie vocali). Tutto impastato da un mixaggio basico, quasi amatoriale, che mette in risalto sporcizia e distorsione, favorendo l’impeto a discapito della pulizia del suono e dell’appeal commerciale. Insomma, Jack è davvero tornato alle origini e sembra che non sia passato un solo giorno dal 1999, anno domini dell’esordio del fenomeno White Stripes.

Basta la prima traccia, "Old Scratch Blues" e tutto è subito chiaro: blues a tutto volume, riff garage annichilente, voce viziosa, e un assalto sonoro che morde alla giugulare senza che la tensione venga mai meno per tutta la durata della scaletta. Un’attitudine che diventa ancora più pesante nella successiva "Bless Yourself" (ironica presa di posizione nei confronti della religione e della polizia), brano che scortica la pelle, nonostante non manchi, nel deliro sonoro, anche un discreto piglio melodico.

Ogni canzone è spigolosa, sporca, figlia di una garage rock senza compromessi ("That's How I'm Feeling"), di urticante punk lo-fi ("Bombing Out"), di espliciti echi del passato White Stripes ("What’s The Rumpus?"), di furia iconoclasta e sarcastica ("Archbishop Harold Holmes") e slide blues audaci e, tutto sommato, orecchiabili ("Underground").

No Name possiede un’anima sfacciatamente aggressiva, non ci sono trucchi o alchimie, e tutto è dannatamente diretto, immediato, quasi purificatorio nella sua urgenza di riappropriarsi delle radici, dell’essenza di quel sacro fuoco che, sempre, dovrebbe animare il rock. Eppure, questi tredici brani, sono molto di più di un furente sfogo, ma sono figlie della visione di chi, nel corso del tempo, non è mai stato alle regole del gioco, ha plasmato una materia nota con intelligenza, idee e passione, e ha saputo rendere fruibili suoni antichi a un pubblico giovane. Qui, soprattutto, ci sono grandi canzoni, che riaccendono un fuoco che, con dischi come No Name, mai si spegnerà. 

Voto: 8

Genere: rock, garage, blues




Blackswan, lunedì 23/12/2024

giovedì 19 dicembre 2024

Michael Kiwanuka - Small Changes (Polydor, 2024)

 


Piccoli cambiamenti, nessuna rivoluzione. Il nuovo album di Michael Kiwanuka, londinese di origini ugandesi, è meno avventuroso del suo predecessore (Kiwanuka, 2019) e meno originale del celebrato Love & Hate (2016), più vicino, semmai, per certe delicatezze sonore, al suo esordio Home Again (2012). Small Changes, però, è un gran disco, che dimostra, semmai ce ne fosse ulteriormente bisogno, la capacità del songwriter britannico di creare musica tanto emotivamente coinvolgente quanto tecnicamente sofisticata.

Non manca il mestiere, ovvio, la capacità di cesellare e rifinire ogni singola nota, di azzeccare melodie avvincenti, fruibili anche da coloro che si accostano per la prima volta alla sua musica; ma continua a stupire, tuttavia, la capacità di creare un legame intimo con l’ascoltatore, innervando le canzoni di autentico pathos, di condivisa malinconia. La miscela miele e liquerizia di soul, folk e rock, che l’ha reso celebre, accompagna così gli ascoltatori in un viaggio riflessivo che parte dall’intimo, ma diventa, ascolto dopo ascolto, universalmente riconoscibile. Un viaggio attraverso territori avvolti in un'ambientazione lussureggiante, quasi cinematografica, ma che non perde mai quel calore tracimante di sentimento e quella profondità introspettiva che sono diventati i tratti distintivi della sua musica.

Un suono caratterizzato da un'atmosfera retro-soul screziata da influenze blues e folk, in cui emerge un’abilità unica nel catturare emozioni veraci, stratificate, però, attraverso una strumentazione complessa, una ricerca melodica mai banale e testi colloquiali ma potenti, che, in questo specifico caso, parlano di crescita interiore e amore (la paternità di Michael ha influito non poco). 

Non c’è una traccia debole in Small Changes, ma una scaletta coerente e coesa nel suono, nella quale spiccano per bellezza e intensità alcune delle canzoni migliori scritte dal musicista londinese. La title track si muove lenta su una ritmica trattenuta, quasi sussurrata, gli archi avvolgono, le tastiere accarezzano, l’assolo di chitarra si concede un tocco di morbida psichedelia, il ritornello è sublime melodia.  La voce di Kiwanuka, densa di velluto soul, riflette sui cambiamenti graduali che definiscono le nostre vite, esortandoci a riconoscere come piccoli aggiustamenti possano portare a una profonda trasformazione. È una testimonianza dell'abilità di Kiwanuka nel scrivere canzoni: si concentra spesso su temi universali, ma la sua interpretazione è così personale che sembra una conversazione diretta con l'ascoltatore. Un riff di chitarra e una splendida linea di basso guidano il groove di "One and Only", ballata il cui morbido srotolarsi fra percussioni, archi e sgocciolanti note di pianoforte parla di amore e lealtà, sprigionando un calore e una sincerità che offre un messaggio di speranza sull’importanza dei rapporti affettivi.

"Rebel Soul", a parere di chi scrive uno dei vertici del songbook di Kiwanuka, segna il momento più sperimentale nell’album, con un ritmo trascinante, un avvolgente drive di pianoforte, circolare e discendente, e pochi, misurati tocchi di chitarra che evocano trame soul dal sapore settantiano. La canzone possiede un'energia innegabile che contrasta con le tracce più morbide e introspettive dell'album, dandole un tocco più avventuroso che si riconnette al precedente disco del 2019.

"Lowdown (Part I)" presenta una miscela armoniosa di blues e soul, e la voce di Kiwanuka porta con sé una sincerità che sembra quasi catartica. C'è un tono riflessivo qui, quasi sognante, esaltato poi da "Lowdown (Part II)", le cui tessiture psichedeliche rimandano immediatamente ai Pink Floyd e all’iconico suono di chitarra di Gilmour. 

Come dicevamo, pur senza concedersi particolari azzardi e navigando in acque sicure, Kiwanuka non sbaglia un colpo, e la scrittura è sempre ispiratissima, sia nel midtempo di "Follow Your Dreams" (brano più vicino a certe cose di Love & Hate), che invita a non temere alcuna paura inseguendo i propri sogni, sia quando si cimenta in un’altra ballata stellare come "Live For Your Love", canzone che cattura perfettamente la vulnerabilità che si prova ad amare qualcuno profondamente, e che si muove lentamente, fra la stratificazione d’archi orchestrali e qualche accenno jazzy, creando un paesaggio sonoro lussureggiante, che sembra al contempo moderno e senza tempo.

"Stay By My Side" è l’ennesima canzone che fa breccia nel cuore, grazie a una melodia che persiste a lungo anche dopo la fine di tre minuti e mezzo che rendono omaggio alla forza di un amore duraturo, e se "The Rest Of Me" racchiude la profondità e le sfumature che definiscono il talento artistico di Kiwanuka, grazie a un arrangiamento ricco e stratificato e una linea di basso spaziale che spinge un groove tanto morbido quanto seducente, "Four Long Years" chiude la scaletta con un tocco elegiaco e appassionato, che porta indietro nel tempo, agli anni sessanta e a certe meraviglie targate Motown.

Piccoli cambiamenti, nessuna rivoluzione. E forse di rivoluzioni nemmeno sentivamo il bisogno, ma di certezze, quelle, si. Small Changes non innova un songbook senza cedimenti, ma ne conferma l’assoluto valore, e testimonia della crescita artistica di un musicista che sa creare canzoni che risuonano a un livello profondo ed emotivo, che sa plasmare con intelligenza le influenze di svariati generi, pur mantenendo un suono distintivo, e non perde di vista uno degli obbiettivi principali che la musica si prefigge: toccare il cuore della gente ed emozionare.

Voto: 8

Genere: Soul, Folk, Rock

 


 


Blackswan, giovedì 19/12/2024

martedì 17 dicembre 2024

Vola - Friend Of a Phantom (Mascot Records, 2024)

 


Giunti al loro quarto album in studio, i danesi Vola hanno completato un percorso di trasformazione, ampliando ancora di più i confini sonori del loro fascinoso prog metal. Già Witness (2021), uscito in piena pandemia, segnava un allontanamento sostanziale dal loro suono originario intriso di djent, ampliando la gamma espressiva con ganci pop, svolazzi elettronici e occasionali tocchi hip-hop. Con Friend Of a Phantom, il gruppo danese opera un ulteriore passo avanti in termini di complessità espositiva, cementando ulteriormente l’approccio progressive, e diluendo, invece, l’aggressività metal della proposta.

Il risultato è un disco non proprio immediato, che va ascoltato e riascoltato, per comprenderne tutte le sfumature e afferrare un quadro d’insieme fantasioso, avvolgente ed estremamente variegato.

L’opener "Cannibal" è la chiave di lettura per comprendere cosa aspettarsi dalle successive otto tracce: un riff djent aggressivo trova contrappunto in una melodia uncinante e avvincente, mentre il contrasto tra la voce pulita del cantante/chitarrista Asger Mygind e quella più aspra di Anders Friden degli In Flames, qui presente come ospite, eleva il brano a livelli stellari.

"Break My Lying Tongue", uno dei singoli pubblicati, è un’altra canzone killer, in cui è il pop a farla da padrona, grazie alla melodia sognante che si muove fra estrose partiture di tastiera e il ringhio delle chitarre. Un uno due iniziale che testimonia la capacità della band di riuscire a contemperare con equilibrio due diverse istanze, dando così vita a una scaletta quanto mai imprevedibile e suggestiva.

"We Will Not Disband" è l’ennesimo esempio di come chitarre ribassate e uncinanti hook melodici possano convivere in perfetta sintonia, mentre l’eterea "Glass Mannequin", un numero per sola voce e tastiere, supera abbondantemente gli steccati del genere prog metal, avvolgendo l’ascoltatore in vellutate atmosfere malinconiche.

E se "Bleed Out" percorre in punta di piedi la linea sottile tra riff djent, pop malinconico ed elettronica lunatica, "Paper Wolf" è una canzone incredibilmente orecchiabile, in cui riprende quota la componente prog della band, sempre abile ad alternare hook irresistibili ad alcuni break più feroci.

La scaletta avanza ed è sempre un piacere misurarsi con il raffinato equilibrismo dei Vola e la magnificenza di melodie che lentamente, ma inesorabilmente, s’insinuano sotto pelle: in tal senso, "I Don't Know How We Got Here" è un gioiello prog caratterizzato da strati vocali inquietanti, riff stravaganti e un delizioso lavoro di batteria di Adam Janzi, "Hollow Kid" mostra un connubio perfetto fra lussureggianti trame synth e riff ribassati, mentre "Tray" attraversa acque quiete e dolcemente malinconiche, chiudendo l’album con una nota più morbida.

Friend Of A Phantom è un disco dalle diverse facce, in apparenza semplice, visti i numerosi momenti melodici che lo punteggiano, ma in realtà assai complesso nella sua struttura non immediatamente assimilabile. Concedetegli, quindi, numerosi ascolti e vi ritroverete per le maini un gioiellino che sarà arduo togliere dal lettore.

Voto: 8

Genere: Prog Metal

 


 

 

Blackswan, martedì 17/12/2024

lunedì 16 dicembre 2024

Stop Draggin' My Heart Around - Stevie Nicks (Atco, 1981)

 


E’ l’estate del 1979. Tom Petty è chiuso nei Cherokee Studios di Hollywood per registrare uno dei suoi album più iconici, Damn The Torpedoes. Durante una pausa, Petty esce dalla sala di registrazione e incontra casualmente Stevie Nicks. I due si conoscono e si stimano, chiacchierano a lungo, fin quando, quasi scherzando, la Nicks chiede al musicista di regalarle una canzone da inserire al disco solista a cui sta lavorando.

All'inizio Petty non prende sul serio la proposta, ma, l’anno dopo, la bionda cantante torna alla carica, mentre Petty sta lavorando al materiale che confluirà in Hard Promises. C’è una ballata in particolare, intitolata Insider, che Petty adora e che fa impazzire la Nicks: i due la registrano insieme agli Heartbreakers, e a lavoro finito Petty la offre all’amica. La Nicks ci pensa un attimo e poi rifiuta, perché capisce che il songwriter quella canzone la ama profondamente.

Petty, però, vuol tener fede alla promessa fatta, trova in un cassetto lo spartito di Stop Draggin' My Heart Around, una vecchia canzone scritta da lui e dal chitarrista Mike Campbell, qualche anno prima. I due registrano una demo e la mandano al produttore di Stevie Nicks, Jimmy Iovine, che ha messo mano anche a Damn The Torpedoes e Hard Promises.

Colpo di fulmine: la Nicks è entusiasta e decide di registrala in duetto con l’amico. Però, all’inizio non vuole inserirla nella scaletta di Bella Donna, preferirebbe tenerla da parte per il futuro, per non privarsi di canzoni scritte da lei, su cui aveva già lavorato per parecchio tempo.

A convincerla è Jimmy Iovine (con cui la Nicks al momento era fidanzata), il quale è consapevole di avere per le mani un singolo bomba. E, ovviamente, ha ragione, perchè la canzone balza al terzo posto delle charts statunitensi, ponendo le basi per altri successi: il singolo successivo, Leather And Lace, in duetto con Don Henley, raggiunge il sesto posto, e il terzo singolo, Edge Of Seventeen, l'undicesimo.

Stop Draggin' My Heart Around parla di una coppia che vive una relazione complicata, prossima al collasso. Lei è stufa e vuole lasciare il compagno, ma lui non molla la presa, e nonostante mille difficoltà, continua a tenere in piedi una storia d’amore che non ha più senso. E quando lei gli chiede di smetterla di trascinarsi dietro quel suo cuore ormai afflitto, l’amante risponde: "hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te". Un amore complicato, dunque, e dai contorni torbidi e inquietanti.

Molte delle canzoni che Nicks ha cantato nel corso degli anni, d’altra parte, coinvolgono cuori in pezzi, storie destinate a finire e lutti amorosi da rielaborare, e quasi tutte, particolare non da poco, erano di natura autobiografica (vedasi la relazione tormentata con Lindsey Buckingham e quella non meno burrascosa con Jimmy Iovine). Stop Draggin' My Heart Around, però, è uno dei pochi brani che la Nicks poteva cantare senza dover affrontare il peso emotivo che l’accompagnava, poiché il testo fu scritto da Petty non aveva nulla a che fare con lei personalmente.

C’è un’altra canzone che lega in qualche modo Petty alla Nicks. La cantante dei Fleetwwood Mac, infatti, stava cercando il titolo da dare a un brano che confluirà in Bella Donna, la citata Edge Of Seventeen. Mentre rimuginava sul da farsi, Petty le presentò sua moglie Jane. Quest’ultima disse alla Nicks che aveva "17 anni" (at the age of 17) quando incontrò per la prima volta Tom. Come suo marito, Jane era di Gainesville, una cittadina della Florida, e aveva un accento sudista così pronunciato che Stevie capì "edge of 17". Illuminazione e titolo della canzone trovato.

 


 

 

Blackswan, lunedì 16/12/2024

venerdì 13 dicembre 2024

Beth Hart - You Still Got Me (Provogue, 2024)

 


Quella voce lì, una voce che riconosceresti fra mille e in una frazione di secondo. Una voce capace di scrostare l’intonaco dei muri, di far tremare i lampadari, di togliere le ragnatele dal soffitto: dolcemente sensibile ma al contempo potente, fumosa ma tracimante di soul, focosa ma anche gelidamente inesorabile, appassionata ma incredibilmente vulnerabile. Questa è Beth Hart, iconica singer del mondo blues rock che, al netto di oziosi paragoni con Janis Joplin, possiede la maturità, l’estensione e la tecnica di approcciarsi senza timori reverenziali al songbook dei Led Zeppelin, come nella sua ultima fatica (A Tribute To Led Zeppelin) risalente a due anni fa.

You Still Got Me è il nuovo album di brani originali della cantante losangelina, pubblicato a distanza di cinque anni da War In My Mind, lavoro risalente al 2019, che palesava, a dire il vero, un certo calo di ispirazione. Tutt’altra storia, invece, questo splendido disco che spazia a trecentosessanta gradi nel suono americano, affrontando generi diversi con consapevolezza e passione, aprendo il proprio cuore, mai come oggi, per affrontare tematiche politiche e, soprattutto, i tormenti di un’anima bella, che ha vissuto una vita difficile, spesso lontano dal sole dei baciati dalla fortuna, e che si è costruita una carriera con le unghie e col sangue. Una sensibilità che ha creato un ponte emotivo con i propri fan, e che oggi viene espressa attraverso l’ennesima prova vocale da urlo, di un’artista, però, che mai come prima, ha definitivamente trovato misura ed equilibrio espressivo.

In scaletta, undici canzoni, una più bella dell’altra, attraverso le quali la Hart esce dalla comfort zone del rock blues e del soul, dando vita a un disco decisamente più vario. Non uno stravolgimento, sia chiaro, ma un tentativo, riuscitissimo, di cimentarsi con sonorità, non certo lontanissime dal suo background, ma tali da rendere You Still Got Me una sorta di abbecedario su come declinare il suono americano.

Il rock blues, grande amore della songwriter californiana, è presente nello sferzante uno due iniziale: la sinistra "Savior With A Razor", con Slash come ospite alla chitarra, e la ruspante "Suga N My Bowl", che vanta la presenza di un altro pezzo da novanta della sei corde, quale Eric Gales.

Poi, il disco prende strade diverse, e che vedono la Hart cimentarsi con l’ironico cabaret di "Never Underestimate a Gal" e con le vellutatissime atmosfere jazzy di "Drunk On Valentine", prova vocale maiuscola accarezzata dal suono avvolgente della tromba di Andrew Carney. Una volta diradatesi le coltri fumose da jazz club, parte "Wanna Be Big Bad Johnny Cash", divertentissimo omaggio country rock a the man in black (il boom chica boom della ritmica è uno spasso) in cui la cantante azzecca un ritornello uncinante e dichiara amore eterno uno dei padri della tradizione musicale a stelle e strisce ("Elvis is alive or so they say, Marilyn Monroe, she's just okay, I don't know enough about James Dean, But Johnny is the man that I wanna be").

"Wonderfull World", dedicata alla nipote, è una dolce ballata per pianoforte che trabocca ottimismo, mentre "Little Heartbrake Girl" gira dalle parti dell’americana più classica, abbacinando con un singalong tanto immediato quanto irresistibile.

Da questo momento in avanti, inizia un filotto di ballate da urlo: la title track, avvolta da un vaporoso arrangiamento d’archi e da un retrogusto sixties, dedicata a suo marito e alla famiglia ("PS: I love my husband, the best ever"), il piano blues di "Pimp Like That", e soprattutto "Don’t Call The Police", probabilmente il miglior brano mai scritto in carriera dalla Hart. Una ballata, questa, struggente e traboccante di pathos, un j’accuse nei confronti della polizia americana e delle violenze perpetrate nei confronti dei cittadini di colore ("Don't call the police, If you wanna live another day, Another day, Another day, Black bodies in the street, Black bodies in the street, America, Beauty, Empathy, Prosperity, Consciousness, Decadence, Poverty, Apathy!"). Un grido di dolore, pervaso da una tensione che attanaglia i visceri, di fronte alla quale è impossibile non sciogliersi in un pianto rabbioso.

Chiude il rock scorbutico e oscuro di "Machine Gun Vibrato", in cui la cantante dà ennesimo sfoggio di una tecnica e di una versatilità di livello superiore.

You Still Got Me è l’apice della carriera della cantante losangelina, il suo più bello dai tempi lontanissimi di Immortal (1996). Un disco che forse allontana la Hart dalla sua fanbase votata esclusivamente al blues, ma che testimonia, in modo definitivo, il talento di una musicista che può fare quello che vuole, facendolo benissimo. Un disco eterogeneo anche dal punto di vista emotivo, capace di diversi registri (ironia, ottimismo, rabbia, dolore, passione), tutti declinati con una consapevolezza che solo i grandi. Chapeau!

Voto: 9

Genere: Rock, Blues, Soul, Americana

 


 

 

Blackswan, venerdì 13/12/2024