Si chiamano Teddy Chipouras, Manoa Bell e Sasha Landon, arrivano dalla Shenandoah Valley (Virginia) e prendono il nome da Palmira, in tempi antichi una delle città più importanti della Siria e, oggi, sito archeologico devastato dalla furia della guerra civile siriana e dai sistematici saccheggi e distruzioni perpetrati dall’Isis. Un luogo, patrimonio dell’umanità, la cui suggestiva bellezza, nonostante le ingiurie del tempo e la folle mano degli uomini, continua a emanare un fascino immortale.
Quelle
rovine, quel luogo devastato, eppure ancora vitale, attrattivo e
ammaliante, rispecchia le difficile esperienze di vita dei tre ex
compagni di scuola, gli sprofondi emotivi di chi ha dovuto combattere
solitudine, pulsioni suicide, difficoltà economiche, disordini bipolari e
crisi di identità sessuale (Sasha Landon ha seguito per lungo tempo un
programma ambulatoriale di salute mentale), e nonostante ciò, ce l’ha
fatta, e ne è uscito attraverso il potere lenitivo della musica. Restless è,
dunque, un titolo che rispecchia alla perfezione il contenuto di dieci
canzoni scritte da tre ragazzi che hanno affrontato il male di vivere e
lo raccontano con cruda onestà, senza filtri, mettendosi a nudo
attraverso una musica sincera, avvincente, bellissima. Che parla del
desiderio di trovare una nicchia, di perseguire uno scopo, di conoscere
la propria direzione, nonostante la bruciante frustrazione di sentirsi
persi.
Attraverso chitarre acustiche, banjo, violini, contrabbasso, un pizzico d’archi e qualche trama di fremente elettricità, i tre ragazzi della Virginia creano un impianto sonoro che miscela alla perfezione country, rock e bluegrass, dando vita a uno scenario che fonde mirabilmente il classicismo delle radici a moderne pulsioni indie. Vengono in mente i Bright Eyes di Conor Oberst, i newyorkesi Felice Brothers e, più spesso, gli Avett Brothers, depurati dagli eccessi di zucchero e dalle aperture mainstream, con cui i ragazzi della Virginia condividono la cristallina bellezza degli intrecci vocali e il gusto per melodie celestiali.
In
scaletta dieci canzoni solo all’apparenza scarne, edificate su
arrangiamenti minimal ma ricchi di pathos, in cui melodie immediate sono
rese ancor più interessanti da improvvisi scatti umorali, fiammate di
puro dramma e da una tensione che sfiora la disperazione, come nella
confessione a cuore aperto e nel crescendo doloroso di "Shape I’m In",
brano che affronta il disturbo bipolare di cui è affetto Landon con
commovente onestà.
La title track apre il disco con armonie vocali alla Everly Brothers, uno specchietto per le allodole che suggerisce dolcezza e invece introduce a un andamento sghembo ed improvvise esplosioni, in cui Landon, tra violini e chitarre elettriche canta: “La verità è che non sono mai stato più lontano dal bene”. Il battito incalzante di "Palms Readers" e la sua confezione così deliberatamente indie raccontano la solitudine di chi esce da un ospedale psichiatrico ("I'm so damn lonely tonight") e deve ritrovare la propria dimensione nel mondo. La tensione è palpabile, la sincerità sgretola il muro che separa musicista e ascoltatore in un lungo abbraccio tra chi conosce il pane duro della vita.
La tensione si scioglie nell’incedere dinoccolato e rilassato della splendida "Arizona", storia di un viaggio nel profondo sud degli States, che trasporta gli ascoltatori verso la sensazione di pace e rinnovamento che i lunghi viaggi in auto e i paesaggi mozzafiato possono regalare. Anche qui la melodia è seducente, così come nell’angelica "Can’t Slow Down", una canzone che ricorda i migliori Avett Brothers e conquista il cuore per le delicate armonie vocali.
E
se "Buffalo" e "Stones Throw" rileggono un suono classico attraverso un
consapevole aggiornamento indie, la conclusiva "Carolina Wren" veste
gli abiti bucolici di una morbida ballata da front porch, mentre una
dolce malinconia tocca il cuore quando il sole tramonta in lontananza
sugli affanni della vita.
Quella dei Palmyra è una storia ancora tutta da scrivere e questo brillante esordio apre loro la strada per un futuro in cui, se le premesse verranno mantenute, sarà impossibile non misurarsi con la loro (già) rilevante caratura artistica. Perché Restless, la cui funzione catartica è indispensabile e assolta, è uno dei dischi più sinceri ed emotivamente coinvolgenti ascoltati quest’anno. Le rovine sono alle spalle, è tempo di continuare a edificare.
Voto: 8
Genere: Indie Rock, Country, Folk
Blackswan, lunedì 12/05/2025