giovedì 17 ottobre 2024

Eclipse - Megalomanium II (Frontiers, 2024)

 


E’ quasi inevitabile ripeterlo ogni volta come se fosse un mantra: gli svedesi Eclipse non sbagliano un colpo, sono certezza di qualità immutabile nel tempo. Allora poco importa se questo Megalomanium II, fratello minore di Megalomanium, uscito l’anno scorso, sia le seconda parte di un album doppio, venduto separatamente per ovvi motivi commerciali. Ci sarebbe da incazzarsi, ma poi, una volta messo il disco sul piatto, le cose cambiano, e si può essere soddisfatti dell’acquisto, poco importa se abbiamo speso di più.

Dal momento che le undici canzoni in scaletta rappresentano la seconda parte di quello che, come detto, sarebbe dovuto essere un doppio, è ovvio che il sound si avvicina molto al suo predecessore, spingendo con enfasi sulle consuete melodie uncinanti, ritornelli orecchiabili, bordate chitarristiche graffianti e voci potenti. Ciò significa che anche questi ulteriori undici brani mantengono la medesima qualità, sono accattivanti e altamente innodici, e portatori sani di un mood prevalentemente festaiolo.

In tal senso, il singolo "Apocalypse Blues" è un ottimo esempio delle qualità della band, in quanto è un numero carico di hook irresistibili, che trasmette una carica decisamente energizzante, nonostante il titolo possa far presagire altro.

Ciò che rende questo album così piacevole al pari dei suoi predecessori è l’innata capacità con cui gli Eclipse sanno dar vita a un suono riconoscibile, ma non monolitico, e spaziano fra umori, atmosfere e diversi stati d’animo, canzone dopo canzone. Così, se la citata "Apocalypse Blues" è un numero trainato da spavalda allegria, ecco allora che la successiva "The Spark" è più energica e pesante, sfoggia un riff di chitarra killer, un ritornello irresistibile con voci meravigliosamente armonizzate e stratificate, e un taglio un po’ tamarro, che rende l’ascolto ruffiano ma godibilissimo. La trascinante "Falling to My Knees" possiede una sottile atmosfera retrò anni ’80 capace di far scatenare i più nostalgici degli ascoltatori, mentre "All I Want" cavalca un groove massiccio trascinato da una sezione ritmica che non fa prigionieri.

Non solo bordate adrenaliniche, però. La malinconica "Still My Hero", pur tenendo il piede sull’acceleratore, riporta calde vibrazioni degli anni ’80 e adombra leggermente il mood festaiolo dell’album, mentre la power ballad "Dive into You" è il momento più intenso del disco, in cui la prova vocale di Erik Mårtensson tocca il cuore e trasmette brividi veri. L’assolo di Magnus Henriksson, poi, è di per sé uno spettacolo, ben realizzato e incredibilmente funzionale all’atmosfera delicata e malinconica della canzone.

L'atmosfera cambia di nuovo con l'intro di ispirazione western di "Until the War is Over", un grande esempio di come scrivere il perfetto rock melodico, a cui seguono "Divide & Conquer", sciabolata esiziale segnata da cromosomi NWOBHM e "Pieces", ennesimo brano innodico, perfetto per scatenarsi sotto il palco.  E se "To Say Goodbye" è avvolta in sfumate atmosfere folk, a chiudere la scaletta c'è "One in a Million", vera e propria aggressione ai padiglioni auricolari, in cui la bella melodia è stritolata dal potenza sbuffante delle chitarre, che spingono verso atmosfere umbratili.

Con questo nuovo lavoro, gli Eclipse si confermano compagine di prim’ordine nel panorama hard rock melodico mondiale, hanno definitivamente affinato il proprio suono, e dato ulteriore profondità emotiva a un songwriting che non palesa punti deboli. Pertanto, anche se il disco poteva essere allegato alla precedente fatica, facendoci risparmiare qualche euro, il risultato finale è tale che queste canzoni, rapide (tre/quattro minuti massimo di durata), innodiche e orecchiabili, ci fanno bramare, a fine ascolto, l’uscita di Megalomanium III. Con buona pace del nostro portafogli.

Voto: 8

Genere: Hard Rock

 


 


Blackswan, giovedì 17/10/2024

martedì 15 ottobre 2024

Rain King - Counting Crows (Geffen, 1993)


 

Nel 1959, il grande scrittore americano Saul Bellow pubblica quello che è considerato il suo romanzo più famoso, Henderson the Rain King (in Italia, meglio conosciuto come Il Re Della Pioggia). Il libro racconta le vicende di Eugene Henderson, un americano di mezza età, miscelando con inventiva la riflessione filosofica con una serie di avventure comiche. Nel pieno della maturità, ricco e con molti figli e donne a carico, Henderson fugge nel cuore dell'Africa alla ricerca di verità elementari sul mondo e su sè stesso. Ne emerge un ritratto a tratti spassoso e divertente, ma al contempo un'inedita e corrosiva critica alla figura dell’americano medio.

E come talvolta accade, musica e letteratura vengono a contatto, in un processo di osmosi che può produrre risultati inaspettati a fascinosi. E’ il caso di Rain King, settima traccia da August And Everything After (1993), l’acclamato esordio dei californiani Counting Crows, un disco che, ai tempi, vendette più di sette milioni di copie.

Rain King prende il titolo proprio dal romanzo di Saul Bellow, un libro che il cantante Adam Durizt lesse quando frequentava l’università, seguendo il corso di letteratura inglese. Duritz s’innamoro perdutamente del romanzo e delle avventure di Henderson, tanto che qualche anno dopo, quando scrisse la canzone, aveva ancora ben presente quello stravagante personaggio, che immortalò nel verso “Henderson is waiting for the sun”.

La canzone, però, non riguarda specificamente il libro, ma si riferisce a ciò che Duritz sentiva riguardo alla sua arte. Quel libro, infatti, era diventato un vademecum per tutto ciò che riguardava la creatività e la scrittura, e rappresentava l’idea che l’anima di un artista, tutto ciò che sente nel profondo del cuore, debba necessariamente confluire nella sua opera. Fu lo stesso Duritz a spiegarlo durante un’intervista: “tutti i sentimenti, tutto ciò che ti fa venire voglia di scrivere, ti spinge a prendere in mano una chitarra ed esprimere te stesso. Quella canzone è piena di tutti i dubbi e le paure su come mi sentivo riguardo alla mia vita in quel momento.” La creatività, certo, ma anche un senso di spaesamento, la paura di affrontare la pagina bianca, il timore della solitudine che essere un artista comporta. Ansie che divorano nel profondo e che il cantante affronta nei versi:

E io sono il re della pioggia

E io ho detto: "Mamma, mamma, mamma, perché sono così solo

Perché non posso uscire, ho paura di non tornare a casa

Beh, sono vivo, sono vivo, ma sto sprofondando

Se c'è qualcuno a casa tua, tesoro

Perché non mi inviti ad entrare?”

 

Fedele all’assunto di cui prima, Duritz ha sempre detto che le sue canzoni sono molto personali, ed è evidente che, in questo specifico brano, sia proprio lui il Re della Pioggia, colui che crea bellezza attraverso la musica e la scrittura, ma che al contempo si sente anche prigioniero di questo suo bisogno primario, insopprimibile. Rain King, in tal senso, è una canzone molto spirituale, che parla delle forze che stimolano la creatività e che danno energia all'arte.

Negli Stati uniti (a differenza che in Europa), i Counting Crows non pubblicarono nessuna canzone di August And Everything After come singolo, un approccio anomalo, ma che funzionò molto bene, visto che, come detto, l'album vendette oltre sette milioni di copie. Duritz, tra l’altro, era affezionatissimo al brano, e avrebbe voluto che fosse la punta di diamante del disco, quella che, nelle sue intenzioni, sarebbe dovuta essere la canzone più famosa della band, e che, invece, venne surclassata, in termini di popolarità, da Mr. Jones, autentico tormentone, che le radio dell’epoca passavano con disarmante regolarità.

I Counting Crows sono noti per andare fuori copione durante i concerti, suonando le loro canzoni in versioni molto diverse da quelle che si ascoltano negli album. Una pratica, questa, che si è consolidata di concerto in concerto (chi ha avuto modo di ascoltarli dal vivo, si ricorderà, ad esempio, di una Round Here stravolta e torrenziale), e che prese piede proprio da Rain King, la prima canzone con cui la band ha sperimentato questo approccio live completamente fuori dagli schemi. Tanto che, quando i Counting Crows eseguono il brano dal vivo, spesso vi integrano parte di Thunder Road di Bruce Springsteen, dando vita a un mash up di struggente bellezza.

 


 

 

Blackswan, martedì 15/10/2024

lunedì 14 ottobre 2024

Skid Row - Live In London (earMusic, 2024)

 


Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, gli Skid Row pubblicarono due album (l’omonimo esordio del 1989 e Slave To The Grind del 1991) che consegnarono alla storia la band originaria del New Jersey come una delle realtà più influenti di quel movimento chiamato, un po’ superficialmente, hair metal. Nonostante il successo conseguito con questi due album (un successo di beve durata, cancellato dall’onda impetuosa del grunge) gli Skid Row, durante quel periodo glorioso, non avevano ancora pubblicato un disco dal vivo, che, invece, a sorpresa, esce oggi.

L’album riproduce un’esibizione tenutasi allo 02 Forum Kentish Town tenutasi il 24 ottobre del 2022, per promuovere The Gang’s All Here, ultima fatica in studio del gruppo, pubblicata dieci giorni prima, con il nuovo cantante, Erik Gronwall. Si tratta, dunque, di un concerto recente, e non pescato dagli archivi, senza, quindi, l’iconico frontman Sebastian Bach, da tempo dimissionario, e con una line up che non fa comunque rimpiangere il passato.

Perché Gronwall è attualmente una delle migliori ugole metal in circolazione, anche se, e dispiace tantissimo, ha di recente lasciato la band per curarsi, dopo che gli è stato diagnosticato, nel 2021, un brutto male. Un circostanza dolorosa che, tuttavia, non ha impattato sulla qualità di questo infuocato live, in cui il cantante svedese è protagonista assoluto, grazie a una performance da brividi. Carismatico e istrionico, Gronwall si è impadronito di un songbook di canzoni leggendarie, senza far rimpiangere il suo mitico predecessore, interpretandole con un surplus di ferocia, salvo dimostrare, poi, incredibile eclettismo nell’affrontare le poche, ma scintillanti ballate in scaletta.

Live In London è una vera e propria fucilata esplosa a tre centimetri dai padiglioni auricolari, una performance che non fa prigionieri, e che spinge sull’acceleratore di un suono grezzo e senza compromessi. La scelta delle nuove canzoni ("The Gang’s All Here", "Tear It Down" e quell’aggressione alle coronarie intitolata "Time Bomb") non delude e si innesta alla perfezione in una scaletta che riprende tutti i grandi classici della band, dall’iniziale "Slave To The Grind", alla leggendaria "Monkey Business" (la "Welcome To The Jungle" degli Skid Row) fino alle indimenticate "18 And Life" e "I Remember You".

Chiude un’indemoniata "Youth Gone Wild", a sigillare un concerto travolgente, che vede una band di sessantenni suonare come se avessero vent’anni e fosse l’ultimo live act della loro vita. La pubblicazione prevede l’accoppiata Cd/Dvd, garantendo così un’esperienza completa ai numerosi fan della band e a tutti coloro che amano il rock più sanguigno e senza fronzoli.

Voto: 8

Genere: hard rock

 


 

 

Blackswan, lunedì 14/10/2024

giovedì 10 ottobre 2024

Kingcrow - Hopium (Season Of Mist, 2024)

 


Abbiamo dovuto aspettare ben sei anni, ma ne è valsa decisamente la pena: dopo l’ottimo The Persistence, uscito nel 2018, i romani Kingcrow tornano con un nuovo disco, che si potrebbe definire, a ragion veduta, il migliore di una discografia fin qui inappuntabile.

Passati alla Season Of Mist, etichetta nota in ambito metal, la band originaria di Anguillara Sabazia continua con coerenza a proporre una musica che, pur essendo immediatamente riconoscibile, non è mai uguale a se stessa, cerca nuovi orizzonti, non accontentandosi di replicare tropi che, per quanto vincenti, toglierebbero vitalità al progetto.

In tal senso, l’etichetta di prog metal, spesso affibbiata aprioristicamente, sta davvero stretta a un disco che contiene in sé diverse, quanto seducenti sfaccettature. L’approccio prog non manca, e lo si può cogliere nella struttura complessa dei brani o nelle belle digressioni strumentali, così come, qui e là, i brani sono scossi da bordate elettriche che spingono verso sonorità decisamente hard. Ma complessivamente lo spettro è ben più ampio, e se ci sono alcuni punti di contatto con band come Leprous, Riverside e Pineapple Thief, per fare qualche esempio, lo stile resta personalissimo.

Dieci canzoni in scaletta che rifulgono di luce propria e un disco in cui tutto, ma proprio tutto, funziona benissimo: gli arrangiamenti complessi, senza mai essere ridondanti, il suono nitido e pulito, quasi scintillante, l’utilizzo centratissimo di un’elettronica calda e avvolgente, la capacità di costruire un impianto melodico limpido e orecchiabile, che acquisisce profondità grazie a un mood prevalentemente malinconico e riflessivo.

Il singolo "Kintsugi" apre il disco in accelerazione su un trascinante groove funky, e mette in evidenza un incisivo riff di chitarra, un ottimo lavoro della sezione ritmica, e un ritornello immediatamente uncinante. E’ la cartina di tornasole dell’abilità della band romana di essere diretta e accessibile, pur mantenendo standard espressivi elevati, per ricchezza e complessità espositiva. Una cosa che appare ovvia anche nell’andamento claudicante della successiva "Glitch", che combina magistralmente archi e sintetizzatori, su cui si muovono le belle linee vocali di Diego Marchesi, tra accelerazioni improvvise e momenti più sospesi e malinconici.

Un uno due micidiale, che è solo l’antipasto di un disco che non ha cedimenti. Il caos controllato di "Parallel Lines" è l’espressione più marcatamente prog del retroterra musicale dei Kingcrow, una canzone che mette in mostra le indubbie capacità tecniche del gruppo, abile nel giocare fra aggressività e stasi melodica, fremente elettricità e misurati elementi elettronici, mentre la struggente "New Moon Harvest" evidenzia il lato più oscuro e malinconico della band.

Il cuore pulsante del disco è rappresentato da "Losing Game", un brano che si gonfia lentamente in un crescendo di emotività che lascia senza fiato, e da "White Rabbit’s Hole", un’altra canzone atmosferica, avvolta da una coltre caldissima di tastiere che si dileguano di fronte all’ennesima incisiva accelerazione, in cui l’intreccio fra voce solista e cori produce nuovamente risultati strabilianti.

E se "Night Drive" parte morbidissima e cinematografica, per poi gonfiarsi di tensione trascinata da un riff ansiogeno, la conclusiva "Come Through", che si lascia alle spalle le due ottime "Vicious Circle" e "Hopium", sigilla il disco con una carezza, tra vellutati languori e dolci presagi.

Hopium è un disco splendido, che cresce ascolto dopo ascolto, e che conferma la caratura internazionale di una band che, con questo nuovo lavoro, tocca il punto più alto della carriera. Elegante, malinconica, audace ed emotivamente trascinante, quella dei Kingcrow, resta grande musica, qualunque etichetta vogliate darle. Tanto ciò che conta davvero è che quando metterete il cd nel lettore finirete risucchiati in un caleidoscopio sonoro che, per quasi un’ora, vi farà dimenticare il mondo circostante e le afflizioni della vita.

Voto: 9

Genere: Prog Metal

 


 


Blackswan, giovedì 10/10/2024

martedì 8 ottobre 2024

Cult Of Personality - Living Colour (Epic, 1988)


 

Il "culto della personalità" è una forma di idolatria sociale che si configura nell’assoluta e cieca devozione a un leader, solitamente politico o religioso, a cui vengono attribuite doti di infallibilità. Un fenomeno che potremmo definire anche come l’anticamera della dittatura: la storia è zeppa di esempi di culto della personalità (Benito Mussolini, Adolf Hitler e Stalin, per citarne alcuni), spesso negativi, e a ben vedere, anche oggi, si corre il rischio di esaltare personaggi fortemente carismatici, ma spesso privi di un abito etico e culturale, consentendo loro di fare quello che vogliono, magari governando un paese, con indiscussa autorità. Sono soggetti, questi, intrinsecamente pericolosi, perché il consenso popolare, permette loro di fare qualunque cosa, di dire alla gente che uno più uno fa tre, ed essere creduti.

E’ questo il tema affrontato in Cult Of Personality, la canzone più famosa dei newyorkesi Living Colour, prima traccia del loro album d’esordio Vivid, datato 1988.

Il destinatario delle liriche era l’allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, che quando il brano fu pubblicato, era quasi a fine mandato.

Cult of Personality, essendo un brano dal contenuto essenzialmente politico, si apre e si chiude con alcune citazioni famose:

E nei pochi momenti che ci restano, vogliamo parlare con i piedi per terra in una lingua che tutti qui possano facilmente capire”.

La canzone inizia, quindi, con queste parole di Malcolm X, tratte dal suo discorso "Message To The Grass Roots" del 1963, in cui caldeggiava l’unificazione di tutti gli afroamericani.

A fine canzone, inoltre compare anche parte di una famosa frase di John F. Kennedy pronunciata nel suo discorso di insediamento del 1961:

Non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, ma cosa puoi fare tu per il tuo Paese”.

E poi, ancora:

L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa

Questa, invece, è una citazione da un discorso di Franklin D. Roosevelt, tenuto il 4 marzo 1933. Roosevelt usò quelle parole per annunciare il suo programma "New Deal" e incoraggiare i cittadini degli Stati Uniti, appena usciti dalla grande deperessione, a superare i loro problemi economici.

La maggior parte della canzone prende di mira l'idolatria, ma il testo è anche ambiguo, perché la band non sembra distinguere fra personaggi positivi e negativi, fra bene e male, finendo per accomunare Mussolini e Kennedy, Stalin e Ghandi. In fin dei conti, visto anche il grande successo del brano, lo scopo venne comunque raggiunto: mettere alla berlina il culto della personalità e attaccare, in questo modo, Ronald Reagan, un presidente che, a parere dei quattro ragazzi di colore, ne aveva combinate di cotte e di crude, senza avere uno straccio di visione politica.

Il grande successo di Cult Of Personality arrivò grazie a MTV, che in quel momento storico era all’apice della sua potenza. Inizialmente, la rete non voleva mandare in onda il video di un brano tanto controverso, e a quel punto la Epic, che annoverava tra i propri musicisti anche Michael Jackson, si rifiutò di concedere il video di Smooth Criminal, se MTV non avesse passato anche la videoclip dei Living Colour. I responsabili della rete televisiva sostenevano che il brano non avrebbe mai avuto successo e che non potevano scommettere tempo e denaro su una band di egregi sconosciuti. Dan Beck, responsabile del marketing della Epic, ebbe l’intuizione di mostrare loro i rapporti di vendita del singolo in Colorado, stato dove la canzone stava facendo sfracelli, e alla fine l’ebbe vinta sui titubanti responsabili di MTV.

Il video musicale è stato diretto da Drew Carolan, un fotografo amico della band. Il filmato della band che esegue la canzone è stato girato all'Hammerstein Ballroom di New York City due giorni dopo la fine del tour europeo e un giorno prima che partissero per il tour americano. Un elemento chiave (e inquietante) del video è la bambina paralizzata come un Poltergeist davanti a un televisore. Corey Glover, in un’intervista dell’epoca, cercò di spiegare il concetto: "La bambina che guardava la televisione era come una prefigurazione del mondo in cui vivevamo, in cui le persone ottenevano le loro informazioni dalla televisione... Eravamo tutti" figli dell’era della televisione. Le nostre informazioni sono arrivate di prima mano in questo modo, ed è di questo che il video cercava di parlare: i momenti cruciali della tua vita, per la maggior parte, li hai visti in televisione."

E’ interessante notare, poi, che mentre il video si avvia alla conclusione, le immagini diventano sempre più veloci, sovraccaricando la comprensione della bambina. Lei scuote la testa incredula di ciò che vede, allunga la mano e spegne la tv, lanciando un messaggio chiarissimo sulle disfunzioni dell’informazione.

Una clip tanto azzeccata, che agli MTV Video Music Awards, Cult of Personality ha vinto il premio per la migliore performance sul palco, per il miglior artista esordiente e per il miglior video.

L’incredibile appeal della canzone è dovuto essenzialmente a due fattori, dovuti entrambi allo straordinario talento di Vernon Reid, fantasioso e tecnico chitarrista prestato dal jazz al metal: il riff di apertura, che negli Stati Uniti e in Australia è stato utilizzato come sigla di diversi programmi sportivi e pubblicità, e il pirotecnico assolo, che la rivista Guitar’s World ha inserito alla posizione 86 della classifica degli assolo più belli di tutti i tempi.

 


 

 

Blackswan, martedì 08/10/2024