lunedì 12 maggio 2025

Palmyra - Restless (Ohboy Records, 2025)

 


Si chiamano Teddy Chipouras, Manoa Bell e Sasha Landon, arrivano dalla Shenandoah Valley (Virginia) e prendono il nome da Palmira, in tempi antichi una delle città più importanti della Siria e, oggi, sito archeologico devastato dalla furia della guerra civile siriana e dai sistematici saccheggi e distruzioni perpetrati dall’Isis. Un luogo, patrimonio dell’umanità, la cui suggestiva bellezza, nonostante le ingiurie del tempo e la folle mano degli uomini, continua a emanare un fascino immortale.

Quelle rovine, quel luogo devastato, eppure ancora vitale, attrattivo e ammaliante, rispecchia le difficile esperienze di vita dei tre ex compagni di scuola, gli sprofondi emotivi di chi ha dovuto combattere solitudine, pulsioni suicide, difficoltà economiche, disordini bipolari e crisi di identità sessuale (Sasha Landon ha seguito per lungo tempo un programma ambulatoriale di salute mentale), e nonostante ciò, ce l’ha fatta, e ne è uscito attraverso il potere lenitivo della musica. Restless è, dunque, un titolo che rispecchia alla perfezione il contenuto di dieci canzoni scritte da tre ragazzi che hanno affrontato il male di vivere e lo raccontano con cruda onestà, senza filtri, mettendosi a nudo attraverso una musica sincera, avvincente, bellissima. Che parla del desiderio di trovare una nicchia, di perseguire uno scopo, di conoscere la propria direzione, nonostante la bruciante frustrazione di sentirsi persi.

Attraverso chitarre acustiche, banjo, violini, contrabbasso, un pizzico d’archi e qualche trama di fremente elettricità, i tre ragazzi della Virginia creano un impianto sonoro che miscela alla perfezione country, rock e bluegrass, dando vita a uno scenario che fonde mirabilmente il classicismo delle radici a moderne pulsioni indie. Vengono in mente i Bright Eyes di Conor Oberst, i newyorkesi Felice Brothers e, più spesso, gli Avett Brothers, depurati dagli eccessi di zucchero e dalle aperture mainstream, con cui i ragazzi della Virginia condividono la cristallina bellezza degli intrecci vocali e il gusto per melodie celestiali.  

In scaletta dieci canzoni solo all’apparenza scarne, edificate su arrangiamenti minimal ma ricchi di pathos, in cui melodie immediate sono rese ancor più interessanti da improvvisi scatti umorali, fiammate di puro dramma e da una tensione che sfiora la disperazione, come nella confessione a cuore aperto e nel crescendo doloroso di "Shape I’m In", brano che affronta il disturbo bipolare di cui è affetto Landon con commovente onestà.

La title track apre il disco con armonie vocali alla Everly Brothers, uno specchietto per le allodole che suggerisce dolcezza e invece introduce a un andamento sghembo ed improvvise esplosioni, in cui Landon, tra violini e chitarre elettriche canta: “La verità è che non sono mai stato più lontano dal bene”. Il battito incalzante di "Palms Readers" e la sua confezione così deliberatamente indie raccontano la solitudine di chi esce da un ospedale psichiatrico ("I'm so damn lonely tonight") e deve ritrovare la propria dimensione nel mondo. La tensione è palpabile, la sincerità sgretola il muro che separa musicista e ascoltatore in un lungo abbraccio tra chi conosce il pane duro della vita.

La tensione si scioglie nell’incedere dinoccolato e rilassato della splendida "Arizona", storia di un viaggio nel profondo sud degli States, che trasporta gli ascoltatori verso la sensazione di pace e rinnovamento che i lunghi viaggi in auto e i paesaggi mozzafiato possono regalare. Anche qui la melodia è seducente, così come nell’angelica "Can’t Slow Down", una canzone che ricorda i migliori Avett Brothers e conquista il cuore per le delicate armonie vocali.

E se "Buffalo" e "Stones Throw" rileggono un suono classico attraverso un consapevole aggiornamento indie, la conclusiva "Carolina Wren" veste gli abiti bucolici di una morbida ballata da front porch, mentre una dolce malinconia tocca il cuore quando il sole tramonta in lontananza sugli affanni della vita.

Quella dei Palmyra è una storia ancora tutta da scrivere e questo brillante esordio apre loro la strada per un futuro in cui, se le premesse verranno mantenute, sarà impossibile non misurarsi con la loro (già) rilevante caratura artistica. Perché Restless, la cui funzione catartica è indispensabile e assolta, è uno dei dischi più sinceri ed emotivamente coinvolgenti ascoltati quest’anno. Le rovine sono alle spalle, è tempo di continuare a edificare.

Voto: 8

Genere: Indie Rock, Country, Folk

 


 


Blackswan, lunedì 12/05/2025

venerdì 9 maggio 2025

The Darkness - Dreams On Toast (Cooking Vinyl, 2025)

 


Una delle frecce più acuminate dell’arco Darkness è sempre stata quella, pur in un alveo ben consolidato di fonti di ispirazione, di provare di mischiare le carte, cercando con sfrontatezza di diversificare la proposta. Da tempo, però, mai era venuto fuori un album così eclettico e ispirato come quest’ultimo Dreams Of Toast, un vero e proprio zibaldone musicale in cui ogni singola canzone possiede una propria identità, che la diversifica dalla altre. Tanto che questo nuovo lavoro è probabilmente il migliore da quei due gioielli pubblicati ormai da una ventina d’anni che erano il fulminante esordio Permission To Land (2003) e l’ottimo seguito One Way Ticket To Hell…And Back (2005).

Poi, qualcosa si è inceppato. Justin Hawkins può permettersi, allora, di dire che la sua band "non ha mai smesso di sfornare album di successo, solo che nessuno li compra più", ma così facendo sta solo mettendo le mani avanti. Perché i dischi dei Darkness, almeno in Inghilterra, hanno sempre venduto bene, a discapito, però, di un’ispirazione sempre meno accesa e lavori non all’altezza dei due nobili predecessori. Quindi, ben venga questo nuovo Dreams Of Toast, un disco solo apparentemente confusionario, figlio semmai del desiderio della band britannica di tornare a essere rilevante, dimostrando di saper maneggiare con consapevolezza diversi generi.  

I Darkness hanno messo in piedi la consueta scaletta di una decina di pezzi, restringendo ancor di più il minutaggio (trentatre minuti circa), e strapazzando lo shaker del rock and roll con l’aggiunta di pop, country, hard rock e diverse erbe aromatiche. Non manca, ovviamente, la consueta dose di sfacciataggine e ironia, Justin Hawkins è riuscito, poi, nell’impresa di rendere residuale il suo falsetto (per alcuni da sempre considerato il punto debole della proposta) e tutti sono riusciti a mettere in evidenza i rispettivi punti di forza, tarandoli alla perfezione. Forse è per questo che si sono sentiti abbastanza coraggiosi da pubblicare, fino a oggi, ben sei singoli tratti dall’album.

Dreams On Toast è un ottimo disco, ma talmente eterogeneo da poter soddisfare i gusti più disparati.

"Rock and Roll Party Cowboy" apre il disco con una fucilata rock blues che potrebbe ricordare gli ZZ Top, se non fosse per la consueta dose di ironia nel cantato. Chitarra scatenata e ritornello grezzo quanto basta per far breccia nel cuore dei rocker di lungo corso. "I Hate Myself" è un altro missile sparato ad alzo zero, un rock’n’roll vecchia scuola, roba Cheap Trick, adrenalinico e innervato dalla tensione di un lussurioso sax. "Hot On My Tail" vira in acustico, tra folk, pop e una puntina di Queen, è un brano melodico e acchiappone, così come lo è il riff all’AC/DC di "Mortal Dread", un numero da far saltare come matti sotto il palco, mentre le chitarre sfrigolano di sudore, fino almeno all’improvvisa e straniante svolta gotica verso la fine del brano, che si trasforma, poi, nuovamente in un boogie infuocato.

"Don’t Need Sunshine" è la canzone che vale il prezzo del biglietto, una splendida ballata che richiama alla mente gli ELO, mentre la successiva "The Longest Kiss" porta l’ascoltatore a Liverpool alla corte dei Fab Four. E se "The Battle for Gadget Land" spinge di nuovo il piede sull’acceleratore derapando in territori punk/stoner, la band britannica dimostra una rinvigorita e straordinaria versatilità, misurandosi anche con il country di "Cold Hearted Woman", accattivante, piacevole, e vagamente malinconica.

Chiudono la breve scaletta l’irresistibile "Walking Through The Fire", rock da FM intriso di nostalgia anni ’80, e "Weekend In Rome", che omaggia il nostro paese, attraverso una melodia pop dolce e carezzevole, che si gonfia grazie all’arrangiamento orchestrale e alla sfacciataggine di Hawkins, che gigioneggia con un timbro operistico alla Freddie Mercury.

Dreams On Toast è un disco eterogeneo, al cui interno non c’è solo tutto ciò di cui ha bisogno un album dei Darkness, ma molto di più. Quel retrogusto ironico, quel senso da “non ci prendiamo troppo sul serio” è il collante che tiene in piedi una scaletta variopinta, in cui un rock’n’roll sfacciato e un po’ pomposo torna a scalciare come nei giorni della miglior gloria, mentre l’innata capacità melodica della band assume diverse sfaccettature, trasformando questo nuovo lavoro in un disco un po’ matto, ma divertente come pochi.

Voto: 7,5

Genere: Rock 




Blackswan, venerdì 09/05/2025

giovedì 8 maggio 2025

Yuta Takahashi - La Locanda Dei Gatti e Dei Ricordi (Feltrinelli, 2024)

 


Prima un viaggio in treno da Tokyo, fino a una cittadina di mare nella penisola di Boso. Poi una passeggiata lungo la spiaggia, fino a un vialetto di conchiglie. È lì che si trova “Da Chibi”, una delle poche locande dove, secondo alcuni, viene ancora servito il kagezen: il vassoio d’ombra, il pasto tradizionale giapponese che si cucina per chi non c’è. Le voci narrano che, dopo che il piatto viene messo in tavola, accadano cose strane, che sia possibile mettersi in contatto con la persona di cui più si sente la mancanza. Così, scossa dalla morte improvvisa del fratello, in una mattina luminosa la diciannovenne Kotoko Niki varca la soglia del ristorante, sotto lo sguardo attento di un gatto. Il fratello di Kotoko ha perso la vita in un incidente stradale cercando di proteggerla e lei, piena di rimorsi, spera in un miracolo…

 

Kotoko è distrutta dal dolore, non mangia, non dorme, è attanagliata dai sensi di colpa: in un incidente stradale, ha perso l’amato fratello Yuito, che si è sacrificato, parando il proprio corpo di fronte a un’auto impazzita, salvandole così la vita. Quando, tempo dopo, la ragazza scopre che a un’ora e mezza di treno da Tokio esiste una piccola locanda affacciata sul mare chiamata Da Chibi, decide di partire alla volta del ristorante. Perché lì, dicono, si serve il kagezen, un pasto che si cucina per i defunti, i quali, fino a quando la pietanza è fumante e calda, potrebbero apparire ai propri cari per un ultimo saluto.

Yuta Takahashi, di cui questo è il primo romanzo tradotto in Italia, affronta il tema della morte per celebrare la vita, affonda la penna nel dolore della perdita per vincere le tenebre e aprire il cuore alla luce e alla speranza. Tutto sembra semplice e semplicistico, a partire da una prosa scarna e misuratissima, che non spreca una parola più del necessario, per tenere a distanza il rischio di cadere nella retorica e di sfruttare il pungolo della lacrima per indurre alla facile commozione. Questa scrittura lineare, priva di malizia e disadorna riesce a essere accessibile a chiunque, ma al contempo si veste di una poetica leggiadra e cristallina, che racconta sentimenti profondi tenendosi lontana dal ricatto emotivo, che descrive luoghi ameni e suggestivi cogliendone la pura essenza, che tratteggia in modo vivido personaggi dalle esistenze ordinarie, gente comune con il quale il lettore non farà fatica a identificarsi.

Nonostante il flusso elementare della narrazione, La Locanda Dei Gatti e Dei Ricordi, però, trabocca di spunti di riflessione, alcuni agili da cogliere, altri maggiormente sottesi.

Il romanzo, come dicevamo, parla di morte per cercare di spiegare la complessa bellezza della vita, e pertanto, sprona a inseguire i propri sogni, costi quel che costi, e a non lasciare che il non detto, che l’afasia emotiva, renda irrisolti i rapporti fra esseri umani, li sospenda in un limbo del taciuto a cui, poi, è impossibile rimediare. Takahashi, però, va ancora più a fondo: se vivere è inseguire i propri sogni, ancora più importante è non lasciare che i sogni delle persone a noi care muoiano con loro. Kotoko diviene attrice per onorare il sogno del fratello, Kai tiene aperta la locanda per tenere vivi i desideri della madre: nulla sconfigge la morte come perpetrare, in tutti i modi possibili, ciò che era l’elemento distintivo dei nostri affetti perduti. Onorare i desiderata di chi non c’è più è una forma d’amore altissima, che si nutre di coraggio e che, non solo corrobora il ricordo dei defunti, ma allontana le tenebre dell’oblio, generando uno spirituale abbrivio verso l’eterno.

Che ci siano Proust e la sua iconica madeleine dietro i piatti serviti dalla locanda Da Chibi è del tutto evidente: le pietanze cucinate da Kai innescano lo stesso meccanismo della ricordanza del pasticcino inzuppato nel tè, e il sapore di quei cibi, amati dai nostri defunti e spesso condivisi a tavola, rappresentano l’energia vitale, hic et nunc, con cui il gusto, l’olfatto e il tatto, così carnali, così immediati, rievocano, anche fisicamente, i nostri cari estinti.

Ognuno di noi ha un’assenza nel cuore, un lutto da rielaborare, e in tal senso, La Locanda Dei Gatti e Dei Ricordi è un romanzo dal potere lenitivo, la cui avvolgente dolcezza genera una soave catarsi che riempie il cuore di un’ingenua quanto necessaria speranza. Perché il senso ultimo di questo piccolo ma avvincente libro è che a tutte le persone di buon cuore è fatto dono di una seconda possibilità. Per dare un senso alla propria vita, per rimettere le cose a posto, per provare a essere ancora felici.

PS: cosa cela la misteriosa e simpaticissima figura del gatto Chibi? Al lettore, l’ardua risposta. E’ un traghettatore di anime? E’ la fede? E’ la speranza? E’ Dio? Difficile a dirsi: quando c’è di mezzo un gatto, tutto è possibile.

 

Blackswan, giovedì 08/05/2025

martedì 6 maggio 2025

He Ain’t Heavy, He's My Brother - The Hollies (Parlophone, 1969)

 


Una canzone leggendaria, oggetto di numerose cover, il cui strano titolo deriva dal motto di Boys Town, una comunità formata nel 1917 da un prete cattolico di nome Padre Edward Flanagan.

Situato a Omaha, nel Nebraska, Boys Town era un luogo dove i ragazzi in difficoltà o senza casa potevano richiedere aiuto. Nel 1941, padre Flanagan stava guardando una rivista chiamata The Messenger, quando si imbatté in un disegno di un ragazzo che portava un ragazzo più giovane sulla schiena, con la didascalia: "Non è pesante, signore, è mio fratello".

Padre Flanagan pensava che l'immagine e la frase catturassero lo spirito di Boys Town, quindi ottenne il permesso di utilizzarla e commissionò una statua del disegno con l'iscrizione: "Non è pesante, padre, è mio fratello". La statua e la frase sono diventate, poi, il simbolo identificativo di Boys Town. Nel 1979, quando anche le ragazze furono ammesse all’interno della comunità, il nome fu cambiato in Girls And Boys Town, mentre il logo è stato aggiornato con l'aggiunta del disegno di una ragazza che trasporta una ragazza più giovane.

La storia dei due fratelli, però, non era solo simbolica, ma si riferiva a un fatto realmente accaduto proprio nella comunità di padre Flanegan. Nel 1921, a Boys Town, era residente un ragazzo che aveva difficoltà a camminare. Indossava tutori per le gambe, ma faceva una gran fatica a deambulare, così gli altri ragazzi spesso facevano a turno portandolo in giro sulla schiena.

La vicenda della casa di accoglienza di Boys Town era una di quelle storie edificanti che tanto piacevano all’opinione pubblica americana, cosìcche, nel 1938, uscì nelle sale un film intitolato Boys Town, interpretato da Spencer Tracy, nel ruolo di padre Flanagan, e da Mickey Rooney. Nel 1941, venne addirittura realizzato un sequel intitolato Men Of Boys Town, in cui venne usata per la prima volta la frase "Non è pesante, padre, è mio fratello", parole che successivamente ispirarono una canzone.

"He Ain’t Heavy, He's My Brother" nacque dalla collaborazione fra due grandi compositori del tempo, e cioè Bobby Scott (pianista che aveva collaborato per artisti come Aretha Franklin, Marvin Gaye e Bobby Darin) e Bob Russell (paroliere alla corte di Duke Ellington e Carl Sigman), che morì poco dopo a causa di una grave malattia.

Questa fu pubblicata originariamente come singolo da Kelly Gordon, cantante, songwriter e produttore, noto per aver messo mano a "Ode To Billie Joe" di Bobbie Gentry, brano che nel 1968 vinse ben tre Grammy Awards.

Il brano, però, raggiunse un considerevole successo quando, sempre nello stesso anno, fu pubblicata come singolo dagli Hollies (che nel frattempo avevano perso Graham Nash, che era andato a formare i CS&N). Questi erano alla ricerca di canzoni da interpretare, quando nelle mani del chitarrista Tony Hicks finì la demo di "He Ain’t Heavy, he's My Brother", che precedentemente era stata offerta a Joe Cocker, il quale l’aveva sdegnosamente rifiutata. Hicks si innamorò subito del brano, ma lo riteneva troppo lento e troppo sdolcinato, come se fosse un 45 giri suonato alla velocità di un 33.

Quando lo propose alla band, gli Hollies si misero al lavoro, lo accelerarono e unirono l’orchestra, lasciando invariati solo i testi di Russell, che di lì a poco, come accennato, sarebbe morto, ragion per cui la band rinunciò alle royalties derivanti dalla pubblicazione. In quelle sessioni di registrazione, al pianoforte compare un imberbe Elton John, che hai tempi lavorava come turnista e che fu pagato, per il suo contributo, “la bellezza” di 12 sterline.

La canzone, che nella versione degli Hollies raggiunse la terza piazza delle classifiche inglesi e la settima di quelle statunitensi, è stata nel tempo coverizzata da moltissimi artisti, tra cui Neil Diamond, Gotthard e dagli Housemartins sul loro disco d’esordio, London 0 Hall 4, in una suggestiva versione a cappella.

 


 

 

Blackswan, martedì 06/05/2025

lunedì 5 maggio 2025

Streetlight - Night Vision (Frontiers, 2025)

 


Gli svedesi Streetlight hanno fatto il loro esordio un paio di anni fa con Ignition, un disco così immerso nel passato, da superare di slancio il concetto di nostalgia: a scatola chiusa, infatti, si sarebbe detto un album concepito decenni fa, e non il recupero moderno di un suono antico. Quello del quintetto nordico, però, non è certo un caso isolato.

E’ davvero stupefacente, basta dare un’occhiata alle numerose pubblicazioni degli ultimi anni, come, soprattutto in Europa del Nord, un genere che ha raggiunto l'apice commerciale negli Stati Uniti circa 40 anni fa, continui a suscitare un’attrazione fatale. AOR, rock melodico, rock radiofonico, qualunque sia il nome che gli si voglia dare, non si può negare che sia vivo e vegeto, e continui a sedurre schiere di fan. Merito anche della nostra Frontiers, un’etichetta che si è spesa, e non poco, per rilanciare un genere, che vede negli Streetlight degli interpreti di livello altissimo.

Se il precedente Ignition era un gran bel disco, questo nuovo Night Vision è addirittura superbo. Un viaggio a ritroso nel tempo, fino al cuore degli anni ’80, dove negli Stati Uniti facevano sfracelli band come Toto, Journey, Foreigner e Survivor, solo per citare alcune della band di riferimento del quintetto svedesi.

Non siamo al copia incolla, però: la musica degli Streetlight possiede una rara consapevolezza filologica e conosce la sublime arte di costruire un ritornello uncinante. La canzoni, tutte e dieci decisamente belle, sono costruite sul perfetto bilanciamento fra chitarre suonate dall’ottimo Filip Stenlund (un suono abbastanza duro per il pubblico rock, ma non troppo da spaventare ascoltatori generalisti) e le tastiere nostalgiche e vintage di John Svensson. La produzione, poi, è impeccabile, ogni strumento è adeguatamente illuminato, la voce morbida di Johannes Häger cattura fin dal primo momento, così come l’abilità di creare di interplay vocali di rara suggestione e la propensione a sbirciare con eleganza e gusto nel contiguo mondo del progressive.  

Il taglio Aor old school è evidente fin dall’iniziale "Long Distance Runner", suono rotondo, groove trascinante, melodia uncinante che si dipana fra synth sognanti, un riff di chitarre graffiante e un incredibile gioco di specchi delle voci, tra controcanti e coretti efficacissimi. Il suono si fa più pompato in "Captured In The Night" (che cita, involontariamente, "Gloria" del nostro Tozzi) e nella partenza a razzo di "Sleep Walk" che fa venire in mente i migliori Survivor e che offre nuovamente, tra un assolo di chitarra e uno di synth, autentica maestria nel creare intrecci vocali che lasciano sbalorditi.

Gli Streetlight centrano il bersaglio anche quando rallentano il passo: "Leanna", che cita smaccatamente i Toto anche nel vezzo di intitolare una canzone con un nome di donna, è uno dei brani più emozionanti ascoltati quest’anno (la meraviglia del ritornello, l’eleganza squisita delle strofe), così come "Fly With Angels", ballata millesimata anni ’80, in cui il crescendo armonico è innervato di tensione melodrammatica.

E se in "Straight To Video" la band schizza via adrenalinica sul calibrato equilibrio fra chitarra (che assolo!) e synth, la conclusiva "End Game" allunga il passo in territori prog, dando vita a sette minuti in cui la semplice linea melodica trova spazio in una struttura sonora più articolata (il tempo dispari, le trame delle tastiere, le accelerazioni e le frenate) in cui si possono incontrare echi che rimandano ai Saga e, perché no, anche agli Asia.

Con i suoi quarantadue minuti di durata e nessun filler, Night Vision rappresenta un ascolto imprescindibile per chiunque apprezzi l’Aor e il Melodic Rock di alta qualità, e consolida la posizione degli Streetlight come una delle migliori band di genere in circolazione. Discone.

Voto: 8

Genere: Aor, Rock

 


 


Blackswan, lunedì 05/05/2025