giovedì 23 ottobre 2025

Someone Saved My Life Tonight - Elton John (DJM Records, 1975)

 


Quinta traccia del bestseller Captain Fantastic And The Brown Dirt Cowboy, Someone Saved My Life Tonight, perfettamente in linea con il concept autobiografico dell’album (dedicato agli anni in cui John e Taupin stavano cercando di affermarsi in campo musicale) racconta di un periodo della vita di Elton in cui, musicista alle prime armi, stava per sposare una donna ricca e affascinante di nome Linda Woodrow. Il che sarebbe stato un sesquipedale errore come raccontato dallo stesso John qualche tempo dopo: “Quando ero più giovane, stavo per sposarmi. Una sera sono uscito e mi sono ubriacato insieme a Long John Baldry e Bernie, e John mi ha detto che non avrei dovuto sposarmi. Sapevo che aveva ragione, ma non sapevo come uscirne, quindi mi sono ubriacato, sono tornato a casa e ho detto a Linda che non mi sarei sposato".

"Sugar Bear", come viene identificato nella canzone, è, dunque, Long John Baldry, colui che ha salvato la vita al musicista, impedendogli di contrarre un matrimonio solo di facciata, un matrimonio che lo avrebbe reso infinitamente infelice.

Il nocciolo del significato della canzone è in qualche modo circondato da elementi visivi che servono a preparare la scena per l'evento principale, ovvero Elton che dice addio a questa donna che lo stava spingendo a un matrimonio che, nel profondo del suo cuore, sapeva sarebbe stato una bugia a più livelli. A proposito delle liriche del brano, fu lo stesso Taupin a precisare: “È pieno di immagini, come la maggior parte delle canzoni di quell'album. Stavo sicuramente cercando di evocare un'atmosfera e di proiettare un momento in cui eravamo alle prese con le questioni banali della vita, le lotte quotidiane per arrivare a fine mese. Quindi, quando ascolto quella canzone ora, mi fa davvero pensare a cieli grigi e strade bagnate, pub fumosi; in definitiva, a quella sensazione di fragilità che ti prende dentro quando non sei sicuro del futuro”.

Secondo Linda Woodrow, era l'estate del 1970 quando Elton ruppe improvvisamente il fidanzamento, lasciandola devastata. All'epoca, lei, Elton e Bernie Taupin condividevano un appartamento a Londra, ma dopo la rottura del fidanzamento lei si trasferì negli Stati Uniti. Linda, nonostante il dolore per il lutto sentimentale, non ha mai nutrito alcun rancore nei confronti di John, ma si arrabbiò molto con Taupin, i cui versi “Mi avevi quasi legato e bloccato, legato all'altare, ipnotizzato” unitamente ai successivi “E mi sarei tuffato con la testa nel profondo letto di un fiume, aggrappandomi alle tue azioni e obbligazioni, pagando per sempre le tue richieste di acquisti a rate” (una sorta di metafora per un uomo gay sposato che si trova fisicamente e mentalmente limitato in un matrimonio di convenienza) la prostrarono profondamente.  

Che il rapporto fra il musicista e la Woodrow rimase, invece, ottimo, lo si comprese ben cinquant’anni dopo. Linda Woodrow era la direttrice di uno studio medico a Dallas, con il nome di Linda Hannon. Le sue ore di lavoro erano state ridotte a causa dell'epidemia di COVID-19 e aveva bisogno di una protesi al ginocchio, ma non poteva permettersi di prendersi cinque settimane di ferie per operarsi e guarire. Quando Elton venne a conoscenza della difficile situazione di Linda, si offrì immediatamente di aiutare la sua ex fidanzata nel momento del bisogno.

Nonostante l'epifania contenuta in questa canzone, la prima volta che Elton si sposò fu con una donna, Renate Blauel. Si sposarono nel 1984 e divorziarono nel 1988. Le successive relazioni stabili di Elton, invece, furono solo con uomini: nel 2005 lui e David Furnish si unirono civilmente, e poi, si sposarono nel 2014, l'anno in cui il matrimonio gay divenne legale in Inghilterra.

Elton scrisse la musica di "Someone Saved My Life Tonight" nel 1975, mentre era in crociera su una nave chiamata SS France, dove usò il pianoforte di bordo per scrivere molte delle canzoni che poi usò per l'album. Dovette, tuttavia, comporre a spizzichi e bocconi, perché a bordo c'era anche una cantante lirica che aveva prenotato il pianoforte per la maggior parte del tempo.

Un’ultima curiosità. Quando Tommy Mottola, il celebre produttore musicale e talent scout, comprese che il suo matrimonio con Mariah Carey stava andando a rotoli, accelerò la loro separazione lasciandole sul tavolo della cucina un biglietto con uno dei versi più emozionanti della canzone: "Le farfalle sono libere di volare, di volare via".

 


 

 

Blackswan, giovedì 23/10/2025

mercoledì 22 ottobre 2025

Chameleons - Arctic Moon (Metropolis Records, 2025)

 


Quella dei Chameleons potrebbe essere definita come una venerata band di culto, figlia del movimento post punk, genere riletto, però, con un surplus di romantica malinconia, grazie a due album spettacolari, Script Of The Bridge (1983) e What Does Anything Mean? Basically (1985). Poi, dopo un terzo disco (Strange Times del 1986) e la morte del manager Tony Fletcher, lo scioglimento, un lungo iato, un paio di rielaborazioni di vecchio materiale a inizio millennio e, finalmente, il ritorno.

Ventiquattro anni senza pubblicare un disco sono tantissimi, ed è quasi naturale che, con tutta l’acqua passata sotto i ponti, la band sia diventata qualcos’altro. Il suono, infatti, si è evoluto: non siamo più nel regno del potente e risonante post-punk degli anni '80. L'atmosfera generale di questo nuovo Artic Moon assume, semmai, una dolcezza soffusa, intrecciando sfumature soft rock, sottili digressioni psichedeliche e un raffinato tocco glam. Il tutto declinato attraverso il consueto mood malinconico e l’utilizzo di quelle chitarre riverberate che rappresentano, seppur in un contesto diverso, l’elemento più distintivo della band.

Le fonti di ispirazione per questo nuovo album dichiarate dal cantante e bassista, Mark Burgess, includono David Bowie, Beatles, T-Rex, così non è un caso se uno dei migliori brani in scaletta s’intitoli "David Bowie Takes My Hand", chiaro omaggio al duca bianco, che dopo un inizio acustico che rimanda a "Space Oddity", si sviluppa per otto minuti in cui si intrecciano malinconia e psichedelia, intimismo meditabondo e un lento librarsi nell’immensità del cielo, in un fluttuare di bellezza cosmica. Una canzone da capogiro, diversa da tutto quello che i Chameleons hanno fatto prima, ma probabilmente uno dei brani più intensi della loro storia.  

Una versione ri-registrata di "Where Are You?" (già presente nell’omonimo EP), è il brano più potente in scaletta, un’affermazione di rinascita spinta dal ringhio delle chitarre, uno scarto deciso rispetto al passato, che apre il disco indicando la strada per il futuro. Arctic Moon è composto da solo sette canzoni (nonostante la durata sia di quarantacinque minuti), a testimonianza che la band ha scelto con cura la musica da offrire, evitando ridondanze e riempitivi, e puntando solo al meglio. La qualità, quindi non manca.

"Lady Strange" dondola sulle chitarre ed esercita un fascino irresistibile nell’alternarsi di chiaro scuri, di rallenti e accelerazioni, la sensuale "Magnolia" avvolge l’ascoltatore nelle sue spire psichedeliche e quando accelera è da urlo, mentre "Free Me" riscrive le regole per comporre la perfetta canzone dream pop.

In scaletta, poi, ci sono altri due gioiellini: "Feels Like The End Of The World" è illuminata da superbi arrangiamenti d’archi, e scivola lentamente verso un finale ipnotico e struggente, da batticuore, mentre "Saviours Are A Dangerous Thing", singolo e brano che sigilla il disco, si sviluppa incalzante su cristalline tessiture di chitarra, che esaltano il cantato cupo e malinconico di Burgess e la consueta melodia avvincente.

Arctic Moon è un disco vibrante ed emotivamente intenso, trainato dal superbo lavoro alle chitarre di Stephen Rice e Reg Smithies, perfettamente supportati dal drumming essenziale di Todd Demma, dal tappeto cangiante delle tastiere di Danny Ashberry e dal contributo della Real Strings in Manchester di Pete Whitfield, che infonde agli arrangiamenti un autentico calore orchestrale.

Chi si aspettava dai Chameleons una replica del suono glorioso degli anni’80, però, resterà deluso. Questo nuovo esordio non riscrive il passato, ma lo lascia ai libri di storia, creando, invece, una diversa, ma non meno affabulante narrazione, che guarda a una seconda vita artistica.

Voto: 8

Genere: Rock

 


 

 

Blackswan, mercoledì 22/10/2025

lunedì 20 ottobre 2025

Amanda Shires - Nobody's Girl (Ato Records, 2025)

 


Da sempre musicista inquieta, incapace per indole di adattarsi ai rigidi confini della musica country, verso la quale ha da sempre avuto un approccio improntato al crossover, Amanda Shires continua a scrivere canzoni come veicolo per raccontarsi, per mettersi a nudo, per esprimere, senza artifici, le emozioni che si celano nel profondo del suo animo.

Se il precedente, bellissimo Take It Like a Man (2022) affrontava con il cuore in mano le diverse sfaccettature del suo essere donna, decisa, fascinosa e sensuale, ma anche fragile, vulnerabile e contraddittoria, questo Nobody’s Girl racconta con altrettanta sincerità la separazione dal marito Jason Isbell (tema esplicitato fin dal titolo).  

Finora, è stato lui a gestire la narrazione, nelle interviste e indirettamente nel disco uscito quest’anno, Fooxes In The Snow, in un modo che ha minimizzato il contributo di Shires alla sua carriera e ha lasciato intendere che lei (proprio lei che lo strappò al tunnel infernale dell’alcolismo) stesse logorando il suo impegno per la sobrietà. Con Nobody's Girl, la Shires, dopo aver taciuto per lungo tempo, prende finalmente la parola, e lo fa attraverso tredici brani laceranti, in cui la songwriter originaria di Lubbock cerca di dare un senso alla fine del suo matrimonio durato undici anni.

A volte è arrabbiata, certo, ma la rabbia è solo una parte di un complicato mix di emozioni che tendono più al dolore, allo smarrimento e persino al desiderio di rivalsa. Sebbene la Shires dica la sua in Nobody’s Girl, non sta, però, regolando i conti con Isbell. Il quale, per quanto sia il fulcro della narrazione, resta tutto sommato, marginale: questo è soprattutto il disco di una donna ferita, che scandaglia la disperazione che ha provato, la stanchezza e l'insicurezza, e in definitiva la forza e la determinazione che saranno necessarie per ricostruire la sua vita alle sue condizioni. Un cammino faticoso, irto di ostacoli emotivi e di ferite da lenire, ma necessario per riaccendere la fiamma della speranza.

Queste canzoni riflettono, quindi, l'arduo processo di "riprendere la strada", come canta in "A Way It Goes", una canzone che sembra perennemente sull'orlo delle lacrime mentre fluttua su nuvole d’archi, un drive di pianoforte in tonalità minore e una ritmica leggera (“quando ho sentito nel mio cuore spuntare piume, mi sono sorpresa a sognare di nuovo”). Perdersi e ritrovarsi, dannazione e redenzione.

La Shires ha collaborato nuovamente con Lawrence Rothman, che ha prodotto il suo album del 2022 Take It Like a Man: insieme hanno creato un approccio musicale coeso perfettamente funzionale alle liriche amare: un pianoforte crepuscolare è il fulcro su cui si poggiano molti di questi brani, arricchiti anche da chitarra acustica, morbidi sintetizzatori, steel guitar e violini. Persino gli arrangiamenti musicali più anomali (le chitarre rumorose e ringhianti di "Piece of Mind" o il ritmo incalzante che guida "Strange Dreams") sono al servizio della sua voce, che, al netto di canzoni bellissime, è il punto focale dell’album.

Ed è così che deve essere: Shires è sempre stata una cantante incredibilmente espressiva, ma non è mai stata più efficace di quanto lo è in Nobody's Girl. In "Maybe I" la sua voce suona triste ed esausta, con un tono sommesso, che poi si fa più forte e sicuro, appoggiandosi a un semplice riff di pianoforte ripetuto e sul crescendo della steel guitar. Al contrario, c'è una vena di rabbia nel modo in cui canta "Piece of Mind": la Shires oscilla tra il risentimento e il dolore per essere stata lasciata sola a frugare tra le macerie del suo matrimonio, e per il fatto di accettare lentamente che la relazione fosse finita, cancellandone però le tracce che poteva (“Finalmente ho smesso di contare le notti e le mezzanotte, arrivando alla stessa conclusione, era davvero finita, Ci è voluto un po' per interiorizzarlo, Ho un nuovo tavolo da pranzo, Ho ridipinto le pareti, mi sono sbarazzato di ogni prova che tu fossi mai stato qui”).

In "The Details", il brano più tagliente dell'album, chiarisce che non lascerà che il passato venga cancellato, dimenticato. C’è tanta tristezza quanto rabbia nel riassunto che la Shires fa del suo matrimonio e della successiva rottura, mentre sgocciolano malinconici accordi di pianoforte: “Cancelli i dettagli, E io sono storia, Non importa quanto nitidi, conservi i ricordi, Li riscrivi, così puoi dormire”. Non cerca l’attacco frontale, la battuta di grana grossa o la cattiveria fine a se stessa: attraverso la nebbia del dolore e la complicata rielaborazione del lutto, la Shires usa il fioretto e colpisce nel segno, usando poche parole per ricordare a Isbell che dignità e rispetto sono importanti tanto quanto l’amore.

Ammaccata, addolorata, forse più fragile, ma di nuovo padrona della propria vita e dei propri sogni. Un piccolo conforto, che disvela la possibilità di un nuovo inizio.

Voto: 8

Genere: Americana

 


 

 Blackswan, lunedì 20/10/2025

giovedì 16 ottobre 2025

Alex Michaelides - La Furia (Einaudi, 2025)

 


Sull’isola privata dell’ex star del cinema Lana Farrar, nelle Cicladi, la situazione è fuori controllo. Come ogni anno l’idea dell’attrice era di trascorrere le vacanze di Pasqua con gli amici più stretti, lontano dai riflettori e dal freddo di Londra. Ma Lana ha sottovalutato il carico di rancori, tensioni e veleni che i suoi ospiti si sono portati dietro. Ben presto, con l’arrivo di una tempesta di pioggia, gli screzi degenerano in scenate, poi in liti durissime e alla fine in un omicidio. A raccontarci questa storia di vendette e desideri inconfessabili è lo sceneggiatore Elliott Chase, il miglior amico di Lana, o almeno così sembra. Uno che con le parole ci sa fare, anche troppo.

 

Alex Michaelides è uno scrittore che sa costruire storie avvincenti, tenendosi lontano da stereotipi e canovacci consunti. Nato a Cipro, il romanziere greco vanta un curriculum di tutto rispetto, avendo studiato letteratura inglese a Oxford e cinema all’American Film Institute di Los Angeles. Un background, questo, che emerge chiaramente nella sua terza opera, La Furia, un thriller che si legge d’un fiato, avvincente e ricco di colpi di scena, ma che offre al lettore molto di più di una semplice trama noir.

Questo romanzo, infatti, è un frullatore in cui Michaelides mixa, con intelligenza, i suoi studi classici, gli archetipi della lettura gialla, dinamiche teatrali mutuate da Shakespeare e dalla tragedia greca e uno sguardo incantato sul cinema hollywoodiano degli anni ’40.

Impossibile, ad esempio, non identificare il personaggio di Lana Farrar con le grande icone di fascino e bellezza che contribuirono a definire lo stile di un epoca, quel “divismo” che divenne uno strumento per gli studi cinematografici hollywodiani al fine di creare celebrità e modelli per il pubblico di massa, influenzando moda e cultura. L’ambiguo Elliott Chase, protagonista principale del romanzo, narratore e voce fuori campo, si rivolge, poi, al lettore come il grande drammaturgo inglese, spesso e volentieri, si rivolgeva direttamente ai fruitori della sua opera, fossero questi i lettori o il pubblico che assisteva alla messa in scena delle sue piece teatrali.

E se le dinamiche e la location del noir sembra essere presa in prestito da un romanzo di Agatha Christie (un assassinio, un luogo circoscritto, così come circoscritto è il numero dei possibili colpevoli), l’isoletta, gli accenni alla cultura ellenica e il momento del redde rationem finale sono evidenti riferimenti alla grande tragedia greca. C’è tanto, quindi, da piluccare in un romanzo che riesce a mantenere la giusta tensione fino alle ultime pagine, grazie alla voce narrante di Elliott, che tiene in pugno il lettore, lo blandisce, lo conduce a spasso per un trama di cui, lentamente, scopre tutte le carte, non prima di averle mischiate a dovere.

Una prosa di ottima fattura e l’approfondimento psicologico dei personaggi principali fanno de La Furia un thriller sui generis, culturalmente forbito e avvincente, anche se il finale scricchiola leggermente rispetto alla solida impalcatura costruita nelle pagine precedenti.

 

Blackswan, giovedì 16/10/2025

mercoledì 15 ottobre 2025

Ros Gos - In This Noise (Beautiful Losers, 2025)

 


Con No Place uscito lo scorso anno, sempre per l’etichetta Beautiful Losers, Ros Gos completava la sua personale trilogia dedicata al viaggio. Un cammino iniziato nella desolazione del deserto (Lost In The Desert), proseguito negli abissi dell’Inferno dantesco (Circles) e arrivato a destinazione in un luogo - non luogo (il citato No Place), approdo finale di una profonda riflessione sul senso dell’esistenza.

Il viaggio come ricerca di se stessi, un percorso accidentato e faticoso fra luci e ombre, dolore e speranza, perdizione e redenzione, tra le macerie di un’umanità fragile, ferita, zoppicante, persa nell’autodifesa del nichilismo, spesso incapace di tenere dritta la barra dell’etica, ma, in qualche modo, ancora capace di estemporanei slanci vitali alla ricerca di una pace tanto interiore quanto universale.

In tal senso, quel disco si concludeva con "I Still Need You", un barbaglio di sole che penetrava la bruma malinconica della scaletta, un ancora di salvezza dal male circostante, un pungolo di ottimismo per invitare le coscienze a guardare al futuro, tenendosi stretta una piccola, ma necessaria speranza.

Che dopo un anno, un solo anno, è svanita completamente. Se nei precedenti lavori, nonostante il mood inquieto e depresso, la trama della narrazione talvolta si sfilacciava per consentire a brevi fremiti di positività di penetrare nel diffuso senso d’angoscia, con In This Noise la luce si spegne. Quella forza multiforme e potente, fonte di verità, conoscenza e salvezza, è stata risucchiata definitivamente, inghiottita dalle tenebre, simbolo di ignoranza, malvagità e morte.

Questo è, dunque, il disco nero di Ros Gos, un disco nero come la pece del mondo che ci circonda. Come può la speranza trovare romito nelle nostre anime, se tutto quello che siamo costretti a vedere è distruzione, morte, carestia, se alle urla di dolore e al pianto disperato si contrappone solo il becero latrato dei mastini della guerra?

Se il suo predecessore si sviluppava in modo vario e fascinoso attraverso melodie, per quanto non di facile presa, ma decisamente accattivanti, e optava per un suono più stratificato e rotondo, In This Noise imbocca una strada che va nella direzione opposta, che si pone in netta contrapposizione con il passato. Le nove canzoni in scaletta sono scarnificate, vestono abiti francescani, scelgono una frammentazione in cui il silenzio, in contrapposizione con il rumore di fondo che circonda le nostre esistenze, riveste la stessa importanza dei pochi strumenti della mise en place.

Il mood, questa volta, non è solo umbratile e malinconico, ma addirittura spettrale, il dolore è palpabile, il senso di tragedia incombente toglie il fiato, gli arrangiamenti di Andrea Liuzza sono minimal ma decisivi e calibrati, e le distorsioni di chitarra affidate a Massimo Valcarenghi spingono il rumore esterno nelle trame delle canzoni, slabbrando il doloroso impianto melodico.

Unica consolazione in questo mare nero di perdizione, è la bella voce di Ros Gos, arresa eppure calda, sofferente ma traboccante di sincera umanità, velluto che avvolge lo scheletro tremante di una musica che raschia la gola come la sabbia del deserto.

Se le consuete fonti di ispirazioni (Mark Lanegan e Steve Von Till su tutti) sono ancora evidenti, giunto a questo nuovo capitolo della sua carriera, Ros Gos ha definitivamente rifinito uno stile distintivo, messo in luce da canzoni dolorosamente belle come "Before The Sunset", "In The Dark", "Regrets" e "Migraine B" (il testo struggente è di Barbara Vecchio), solo per citarne alcune.

In This Noise non è un disco di facile ascolto, addirittura respingente di primo acchito, eppure, in queste nove canzoni si racchiude una bellezza ispida e ossuta, che nasce dallo sguardo lucido, consapevole ed empatico di un musicista che osserva il mondo e ce lo racconta, senza alcun filtro se non quello della propria compassionevole sensibilità.

Voto: 9

Genere: Avant Folk, Songwriter

 


 

 

Blackswan, mercoledì 15/10/2025