Entrare
nel tunnel della dipendenza, smarrirsi nel buio dell’anima, allontanare
tutti coloro che posso aiutarti a riprendere fiducia in te stesso, a
combattere il male di vivere. Fare un passo avanti verso la
disintossicazione, e due indietro, e perdersi, ogni volta, in un loop
vizioso, che risucchia verso l’abisso, togliendo ogni speranza alla
resurrezione. In questa canzone, il cantante Aaron Lewis si sta
fustigando, in quello che è lamento misto a rabbia e autocommiserazione.
Il motivo è che ha perso l'unica donna che avrebbe potuto curare le sue
dipendenze, donargli la giusta serenità per rimettersi in piedi e
ripartire. E ha perso il supporto del padre, che ha fatto di tutto per
aiutarlo. Così, il ciclo autodistruttivo continua, mentre il tempo
passa inesorabilmente e il baratro è sempre lì pronto ad accoglierlo,
per un definitivo ed esiziale sprofondo.
And it’s been awhile
Since I can say that I wasn’t addicted
And it’s been awhile
Since I can say I love myself as well
And it’s been awhile
Since I’ve gone and f**ked things up
just like I always do
And it’s been awhile
But all that shit seems to disappear
when I’m with you
A
leggere le liriche della canzone, sembra quasi impossibile che, ai
tempi, Lewis vivesse una delle relazioni più sane e stabili della storia
del rock. Il cantante degli Staind, infatti, aveva iniziato a
frequentare la sua Vanessa nel 1997, prima che la band diventasse
famosa. La coppia si è poi sposata l’anno successivo, e quando gli
Staind hanno iniziato ad accumulare successi, Vanessa è stata una fonte
incrollabile di supporto per Lewis, gestendo, spesso da sola, anche la
crescita dei loro tre figli.
Perché,
allora, questa canzone è così cupa, così disperatamente arresa? Il
motivo risiede esclusivamente nella personalità del cantante e nella sua
visione pessimista e malinconica della vita: le parole di Lewis sono
sempre state espressione di un dolore e di una depressione profondamente
radicate nel suo animo. Così, a prescindere da ogni giudizio sulla
qualità artistica della loro musica, è stato quasi inevitabile che
queste rappresentazioni frontali dell'angoscia abbiano colpito nel segno
molti ascoltatori, creando un legame emotivo strettissimo fra la band e
il suo pubblico.
Senza
girarci troppo intorno, se Aaron Lewis non era un allegrone, i suoi fan
non erano da meno. Le parole del cantante avevano un peso, soprattutto
perché condivise con molte anime fragili che provavano il suo stesso
male di vivere. Così, quando nel 2001, un fan della band si suicidò
mentre ascoltava una registrazione della sua stessa voce che cantava la
canzone degli Staind Outside, Lewis cadde in un periodo di profonda prostrazione.
It's Been Awhile fu scelta come primo singolo da Break The Cycle,
il terzo album in studio della band, ed è di gran lunga il più grande
successo commerciale degli Staind, quello che diede loro visibilità
internazionale. Trainato dalla canzone, Break The Cycle arrivò
al primo posto in America e vendette oltre 5 milioni di copie (di cui
767.000 nella prima settimana). Il disco ebbe un discreto successo anche
in Italia, dove Break The Cycle si affacciò quasi alla top ten, raggiungendo la tredicesima piazza in classifica.
Provo
un piacere sottile a mettere nel lettore un nuovo cd di una delle band
amate durante gli anni della gioventù. Nel 2025, è già successo con gli
Skunk Anansie, tornati sulle scene dopo uno iato lunghissimo, e i
Garbage, che non hanno mai smesso di fare musica, nonostante siano
trascorsi tre decenni dagli esordi. Questo godimento è qualcosa che ha a
che fare con la nostalgia, non c’è dubbio (ah, che emozione sentirsi
ancora giovani), e probabilmente con l’insoddisfazione prodotta da tanti
ascolti coevi di band o artisti osannati, ma incapaci di stimolare un
orecchio “anziano” sia sotto il profilo della scrittura che
della qualità tecnica dell’esecuzione. Così stanno le cose, per quanto
mi riguarda. Sono orgogliosamente boomer, al punto che quando ho saputo
che i Pulp, una delle band più geniali del movimento brit pop, sarebbe
uscita con un nuovo disco dopo ben ventiquattro anni di silenzio, una
lacrimuccia (facciamo anche due) mi ha rigato la guancia. Pura emozione.
Correva l’anno 1995, quando il gruppo capitanato da Jarvis Cocker pubblicò il suo quinto album in studio, Different Class,
probabilmente la più grande affermazione artistica della band e
certamente il loro lavoro di maggior successo commerciale. Dopo dodici
anni trascorsi quasi esclusivamente ai margini di un riconoscimento
significativo, i Pulp erano finalmente arrivati alle orecchie del grande
pubblico, e si sarebbero rivelati difficili da dimenticare. Nonostante,
successivamente, abbiano pubblicato solo altri due album (il cupo e
disilluso This is Hardcore del 1998 e l'addio sontuoso We Love Life
del 2001) la popolarità dei Pulp persiste ancora oggi, tanto che il
tour della reunion del 2023 ha attirato grandi folle. Fu proprio durante
quei mesi che si presentò per la prima volta la possibilità di scrivere
nuova musica, con la band che provò il nuovo brano "Hymn of the North"
durante le prove audio, per poi suonarlo in pubblico durante il live
act.
Da
quel momento qualcosa si è smosso, e il 2024 è stato un anno decisivo,
dedicato, la prima metà, alla scrittura di nuovo materiale, e la seconda
metà, alla registrazione del disco vero e proprio. Supervisionato dal
produttore degli Arctic Monkeys, James Ford, e con la partecipazione del
batterista storico Nick Banks, del chitarrista Mark Webber e della
tastierista Candida Doyle, oltre ovviamente a Cocker, More è
stato il disco dei Pulp più veloce mai registrato. Eppure, la scaletta
che ne è il risultato non sembra assolutamente affrettata, tutt'altro.
Questo
è evidente fin dal singolo principale e brano d'apertura dell'album
"Spike Island", che suona immediatamente classico come qualsiasi
successo degli anni '90 della band. Ritmo di batteria coinvolgente e una
linea di basso vivace, la canzone si assesta su un profondo groove
disco quando Cocker, ironizzando sulla sua età (quest’anno sono
sessantadue) e sul ritorno sulle scene canta "Stavo lottando con la gruccia, indovina chi ha vinto?", poco prima che il ritornello da cantare in coro rievochi i giorni antemici del brit pop.
Anche
"Tina", la seconda traccia, perpetua la tradizione della band, con un
ritornello orecchiabile in mezzo a versi sommessi e ossessionanti.
"Tina" è un classico Pulp, un gioiello bizzarro e accattivante
attraverso cui Cocker racconta con sarcasmo di un amore che non decolla:
"stiamo davvero bene insieme, perché non ci incontriamo mai".
La
canzone successiva, "Grown Ups", è un po' azzardata, dura 5 minuti e 56
secondi, il che la rende il momento più lungo dell'album. Tuttavia, il
risultato è brillante: tastiere potenti sostenute da un riff incalzante
ammantano di energia i testi vividi di Cocker, che ci guidano attraverso
le sue esperienze con l’invecchiamento.
In
netto contrasto c'è la canzone successiva, "Slow Jam", che fa
esattamente ciò che promette, e rallenta di molto il ritmo, attraverso
una linea di basso rilassata e funky, e un cantato sommesso e
malinconico con cui il cantante documenta la fine di una storia d’amore.
Se
"Slow Jam" racconta il collasso di una relazione, "Farmers Market" ne
accoglie, invece, la luce nascente. Accarezzata da delicati archi, linee
di pianoforte sognanti e un tocco jazzy nel drumming la canzone
fotografa sotto una luce agrodolce un incontro tra due anime coi
trascorsi esistenziali della mezza età: "Hai sorriso e ho potuto vedere che la vita aveva preso anche te, ma non era niente di serio, solo una ferita superficiale".
Il
brano successivo, "My Sex", rappresenta un audace cambio di tono, con
il sussurro sensuale di Cocker che segna un ritorno alla sfacciata
spavalderia che ha alimentato una considerevole quantità di grandi
successi dei Pulp. Come nel resto di More, però, il passare del tempo è sempre in agguato e sulle note di un funky sinuoso Cocker canta “sbrigati perché il mio sesso sta per esaurirsi",
come se la vita potesse sfuggirgli di mano da un momento all'altro, una
preoccupazione, questa, senza dubbio acuita dalla morte del bassista di
lunga data Steve Mackey. Tuttavia, Cocker non si accontenta più di
prodezze puramente sessuali, non è più un giovane spavaldo con un
luminoso futuro davanti. A sessantun anni, il cantante è giunto alla
conclusione che l'amore è ciò a cui tutti dovrebbero aspirare. "Senza amore, ti stai solo masturbando dentro qualcun altro",
dichiara senza mezzi termini nel secondo singolo "Got To Have Love", un
brano disco-pop travolgente (vengono in mente i Santa Esmeralda) con
una costruzione e un rilascio magistrali, un numero che si rivelerà
sicuramente un momento culminante quando verrà eseguito dal vivo.
Da
qui in avanti il disco si avventura in un territorio dedicato alla
ballata, e sebbene non sia questo il motivo per cui i Pulp sono più
conosciuti, è probabilmente il punto di forza di questo ottimo More.
"Background Noise" racconta l’amara consapevolezza del vuoto lasciato dalla rottura di una storia: Cocker paragona l'amore al "ronzio di un frigorifero, che noti solo quando scompare",
dando vita a un ritornello melodico e drammatico che si distingue come
uno dei momenti migliori dell'album. "Partial Eclipse" è piacevole,
anche se un po' dimenticabile, mentre la penultima canzone, "Hymn of the
North", è una delle vette del disco. Note di piano sgocciolate, e voce
da crooner, il brano si sviluppa lentamente, prima che un bridge alla
Style Council interrompa per pochi secondi il flusso e apra a una
seconda metà composta di archi, ottoni e linee vocali ipnotiche, per poi
apparire nuovamente dal nulla.
Alla
fine, l'album ha in serbo un'altra chicca. "A Sunset" è un brano dal
dolce ondeggiare, avvolto da lussureggianti fioriture orchestrali. Un
modo appropriato per concludere l'album, con dolcezza e tanta ironica
sagacia, quando Cocker canta, quasi sorridendo, una tremenda verità: "La prima regola dell'economia? Le persone infelici spendono di più".
More segna
un grande ritorno, il ritorno di una delle band più influenti degli
anni ’90, a cui il tempo trascorso ha concesso una nuova possibilità,
magistralmente sfruttata. Undici canzoni che suonano come dovrebbe
suonare la musica dei Pulp oggi, che è il tempo dei capelli grigi e dei
rimpianti che aprono a una nuova consapevolezza, che spingono ad
adeguarsi a un nuovo sentire. More è il suono della vita che
scorre, del tempo che ci erode lentamente ma anche di tutta la bellezza
che abbiamo avuto la fortuna di vedere. La spavalderia di un tempo si è
attenuata, l’ironia è più sottile, le riflessioni più temperate e
agrodolci. Ciò che resta intatta, però, è la musica, bella e
coinvolgente esattamente come trent’anni fa.
Sembrerebbe
roba da vecchi nostalgici anni ’70, e forse in parte lo è. Eppure,
visto il successo del duo londinese, il gradimento risulta essere
trasversale, grazie a una proposta, rifinita in dieci anni di carriera,
che ha il merito di essere incredibilmente orecchiabile, buona per tutti
i palati, nonostante l’altissima qualità del songwriting e un cesello
strumentale formidabile.
I
Young Gun Silver Fox sono una coppia formata dal frontman dei Mamas
Gun, Andy Platts, e dall'artista/autore/produttore Shawn Lee. I due
hanno già pubblicato quattro album acclamati dalla critica e di grande
successo commerciale, e con questo nuovo Pleasure, è evidente
che la loro traiettoria ascendente è destinata a continuare, offrendo
ancora una volta il loro sound unico: un cocktail eclettico di yacht
rock, funky e blue-eyed soul, che ha mandato a memoria la lezione di
artisti quali Steely Dan, Christopher Cross, Earth Wind & Fire,
Stevie Wonder e Brian Wilson.
Un
suono classicissimo, eppure, ancora, incredibilmente necessario, una
via di fuga da un mondo roboante, in cui le vite delle persone sono
costrette in un frullatore troppo veloce e logorante. La musica dei
Young Gun Silver Fox, come recitava una vecchia pubblicità italiana,
sembra essere concepita apposta contro il logorio della vita moderna, è
una pausa dagli affanni, una sosta da un girovagare senza senso, che
restituisce un po’ di quella bellezza che andiamo progressivamente
dimenticando. Nulla di nuovo, nulla di sperimentale, sia bene inteso,
semplicemente il riappropriarsi del proprio tempo di qualità, attraverso
canzoni che creano un immaginario composto dalla dolcezza ventilata di
un’estate al mare, di gite in barca e tramonti da esplorare con gli
occhi persi all’orizzonte, di feste sulla spiaggia, mentre nel cuore
della notte la risacca accompagna l’eccitazione di groove eleganti,
stilosi nel loro completo di lino bianco.
Registrato
in parte separatamente, attraverso lo scambio di file, e in parte nello
studio di Platts, The Prairie, l’album si apre con il singolo
principale "Stevie e Sly", canzone che rende omaggio a due giganti della
musica, citandoli ma creando un approccio ritmico personalissimo.
Apparentemente funk da cocktail party, che invece risucchia l’effimero
dell’occasione in un groove irresistibile, tanto che ascoltata una
volta, sfido chiunque a resistere dal metterla in loop per altre dieci.
"Pleasure",
basta il titolo a farlo capire, è un cestino di ciliege, ne assaggi una
e non smetti di mangiarle. "Born To Dream" è allegra e confortevole al
contempo, ricorda i Doobie Brothers e Christopher Cross, ascolti di
cinquant’anni fa, che riprendono vita con un vigore che lascia a bocca
aperta.
Gli
arrangiamenti per fiati brillano grazie a un affiatato trio di
musicisti ospiti, ma a parte questo, sono Platts e Lee a gestire lo
spettacolo: producono, suonano e si occupano della parte tecnica con una
consapevolezza superiore e un'anima vintage nelle vene.
Ecco,
allora, che per i nostalgici degli Steely Dan gli intrecci vocali della
conclusiva "One Horse Race" o la malinconia soffusa di "Late Night Last
Train", che fluttua con un'intimità onirica, coronata da un solo di
chitarra che sembra sprigionato dall'etere, sarà come potersi abbeverare
nuovamente alla fonte della vita eterna, mentre "Burning Daylight"
consolerà i fan degli Earth, Wind & Fire (incredibile
l’arrangiamento di fiati), che ritroveranno un suono antico riletto con
sensibilità blue-eyed soul.
E
se chiudete gli occhi, si può anche immaginare di ballare su una
rotonda affacciata sul mare, mentre la brezza della notte porta con sé
funk sinuosi glitterati di polvere di stelle anni ’70 ("Holding Back The
Fire"), o stilosissimi midtempo, tutto gel e completo nero su giacca
bianca, come quando quegli anni erano rivisitati dalla coolness dandy di
Robert Palmer ("Just For Pleasure").
Il
risultato è un disco che sfida le tendenze del momento, riportando in
vita un mondo lontano, che, senza prendersi troppo sul serio, finisce
comunque per essere dolce lenimento per l’anima: Pleasure è
caldo, melodico e avvolgente. E’ pura evasione, e un promemoria che la
musica di qualità non passa mai di moda, ma continua a far stare
maledettamente bene chi l’ascolta.
Trent’anni di carriera e non sentirli. Se il precedente, ottimo, No Gods, No Masters
(2021) pubblicato nei giorni cupi della pandemia, era un disco
arrabbiato, fortemente politicizzato, quasi minaccioso nella sua cupa
mise en place, Let All That We Imagine Be The Light non perde
la carica d’urgenza che aveva caratterizzato il predecessore, riuscendo a essere egualmente rilevante e
musicalmente intrigante. Tuttavia l’approccio modifica, almeno in parte,
la prospettiva, e i toni risultano, in qualche modo, meno esasperati.
Questo
ottavo album in studio, conferma la presenza di tutti e quattro i
membri originali (Shirley Manson, Duke Erikson, Steve Marker e Butch
Vig) che insieme hanno messo mano al songwriting e alla produzione,
insieme al sodale di lunga data, Billy Bush. Registrato tra il Red Razor
Studio di Los Angeles, il Grunge Is Dead Studio di Vig e persino la
camera da letto della Manson, il disco, come dicevamo, vede la band
allontanarsi dal mood rabbioso e indignato di No Gods No Masters,
per abbracciare un suono pop rock più caldo e melodico, e guardare alla
follia di un mondo che ha imboccato la strada dell’autodistruzione,
attraverso occhi che cercano speranza e parole che veicolano positivi
messaggi d’amore.
Un
disco vitale ed emotivamente complesso, quindi, concepito per gran
parte durante il recupero fisico e psicologico della Manson, a seguito
di un intervento chirurgico all'anca e un prolungato blocco creativo. "L'album parla molto della ricerca dell'amore nel mondo come strumento per combattere l'odio che proviamo",
ha spiegato in più di un’occasione la cantante, e questa prospettiva
conferisce al disco un importante nucleo meditativo, in cui al dolore,
alla distruzione e alla mortalità, si contrappongono temi come speranza,
guarigione e accettazione di sé.
Non
è un caso che l’album si apra con il brano manifesto del nuovo corso,
"There's No Future in Optimism", in cui è immediatamente riconoscibile
il marchio di fabbrica Garbage (fuzz di chitarra distorta, bassi
pulsanti, synth analogici e la voce ustionante della Manson) e il cui
titolo cupo contrasta con le liriche, che contengono un invito ad
abbracciare l'amore anziché la disperazione. "Sei pronto per l'amore?" chiede la cantante, sfidando la rassegnazione con un impeto di resistenza e ottimismo.
Temi prevalentemente universali, quelli trattati in Let All That We Imagine Be The Light, che
lasciano talvolta spazio a riflessioni personali, come nella scorbutica
"Chinese Fire Horse", in cui la Manson incanala la rabbia in testi
taglienti rivolti a tutti coloro che l’hanno invitata a ritirarsi, a
causa dei problemi di salute e dell’età che avanza inesorabile (“You Say My Time Is Over…But The Truth Is On My Side, I’m Not Dead, I’m Not Done”)
o nella conclusiva e intensa "The Day That I Met God", in cui la Manson
racconta senza veli i suoi problemi di salute, la sua depressione, la
lenta guarigione grazie a un Dio chiamato Tramadol (analgesico della
famiglia degli oppioidi).
L’alchimia
messa in atto dai Garbage è quella dei giorni migliori, quella che
riesce a creare canzoni tanto spigolose quanto melodiche (l’incedere
disturbante di "Hold" è spazzato via da un ritornello che non fa
prigionieri), prodotte mirabilmente e immediatamente riconoscibili di un
sound identitario da ormai trent’anni. In tal senso, "Get Out of My
Face, AKA Bad Kitty" nasce da una matrice abusata ma non usurata, anzi
pervasa da rinnovata energia, che trasforma il brano in un fremente inno
alla sopravvivenza e alla fiducia in se stessi, un invito alla
ribellione, costi quel che costi: "Se non puoi unirti a loro, allora devi batterli".
La
scaletta funziona tutta, dalla prima all’ultima nota, sia nel mood
sinistro e teso della cinematografica "Have We Met (The Void)", sia
nelle trame sognanti di "Sisyphus" che nella tensione vagamente trip hop
della splendida "Radical", ennesimo struggente invito alla speranza: “Let All That We Imagine Be The Light, It’s Radical”).
Let All That We Imagine Be The Light
è un ottimo disco, un disco inconfondibilmente Garbage: chitarre
spigolose, beat angolari, paesaggi sonori cinematografici avvolgenti,
tante cose da dire e una produzione raffinata. E’ anche, però, un lavoro
più caldo del suo predecessore ed è emotivamente profondo. Un disco sul
dolore e la lotta per la sopravvivenza, che invita a continuare a
combattere e a cercare la risposta nell’amore. Perché nel marasma in cui
versa l’umanità, nella distruzione e nelle rovine, la bellezza è ancora
possibile. Basta cercare la luce, anche laddove tutto sembra oscurità.
Pubblicato nel settembre del 1980, Never For Ever,
terzo album in studio di Kate Bush, ha rappresentato per la musicista
britannica il disco della svolta commerciale, facendola diventare la
prima artista solista donna britannica con un album al primo posto nel
Regno Unito. Prodotto, e fu la prima volta, dalla stessa Bush (insieme
al suo ingegnere del suono Jon Kelly), il disco, il cui titolo riflette
la transitorietà di tutto ciò che accade nella vita, rispecchia
perfettamente il suono dell’epoca in cui fu concepito, facendo largo uso
di elettronica ed effetti ricercati, e inanella un filotto di canzoni
spettacolari, tra cui la celeberrima Babooshka, Army Dreamers e Breathing.
Quest’ultima
parla dell'olocausto nucleare visto dalla prospettiva di un feto. È
ancora nel grembo materno e sa che la bomba è esplosa e che morirà
perché non può fare a meno di respirare l'aria radioattiva attraverso
sua madre. Un brano drammatico, che l’ascoltatore ascolta impotente,
mentre il feto, la madre e il resto dell'umanità rimangono senza aria e
muoiono.
Abbiamo perso la nostra occasione
Siamo il primo e l'ultimo,
Dopo l'esplosione
Schegge di plutonio scintillano in ogni polmone
Nel
testo c’è anche un curioso riferimento al fumo e alla nicotina, che
sembra apparentemente fuori luogo, e che invece ha un significato ben
preciso: “Respirando, respirando la sua nicotina…”
Fu la stessa Bush, qualche anno dopo, a spiegarne il senso, durante un’intervista: “Breathing
riguarda gli esseri umani che si uccidono. Penso che la gente che fuma
sia una di quelle piccole cose che dicono molto sugli esseri umani.
Voglio dire, fumo e mi diverto, ma sappiamo che fumare è pericoloso.
Forse c'è una sorta di strano desiderio subconscio di danneggiare noi
stessi…”
La musicista britannica definì Breathing la sua “piccola sinfonia”,
e attribuì la riuscita della canzone alla bravura dei turnisti che la
suonarono in studio. All’inizio, i musicisti cercavano semplicemente di
tirar fuori un buon suono, di rendere il brano tecnicamente perfetto. La
Bush, però, non era soddisfatta, riteneva che mancasse emozione: “i
turnisti avevano le loro battute, capivano di cosa parlava la canzone,
ma all'inizio non c'era emozione, e quella traccia richiedeva tanta
emozione. È stato solo quando hanno suonato con sentimento che l'intera
cosa è decollata. Quando siamo andati a riascoltarla, volevo piangere…”
Mentre
la band stava eseguendo il brano, si presentò all’improvviso nello
studio di registrazione un manager della Emi, il quale arrivò
esattamente nel momento in cui la Bush cantava il verso: “Continua a respirare, Fuori, dentro, fuori, dentro, fuori, dentro”.
Apriti cielo! Il manager, inviperito, fece subito presente alla
musicista che non avrebbe mai pubblicato una canzone a sfondo così
esplicitamente pornografico, e solo dopo aver riascoltato il brano per
intero e ricevuto una lunga spiegazione, finì per acconsentire a
inserire la canzone nella scaletta del disco.