giovedì 23 gennaio 2025

Beardfish - Songs For Beating Hearts (InsideOut, 2024)

 


 

Songs For Beating Hearts è un disco che rimanda al prog degli anni d’oro, non solo nelle intenzioni o concettualmente, quanto semmai nel suono clamorosamente vintage e in un approccio che scarta ogni modernità in favore di una visione squisitamente settantiana. Spesso accostati ad alcuni gruppi prog metal che oggi vanno per la maggiore, gli svedesi Beardfish non hanno mai abbracciato sonorità estreme, preferendo rendere omaggio, e mai come in questo nuovo album, agli eroi musicali conosciuti attraverso i dischi di papà.

Dopo lo scioglimento nel 2016 e gli anni oscuri della pandemia globale, la band ha trovato nuovi stimoli per continuare a camminare sulla stessa strada, e così Rikard Sjöblom, David Zackrisson, Magnus Östgren e Robert Hansen hanno ricominciato la loro storia esattamente da dove l’avevano interrotta. Hanno iniziato così a lavorare su materiale che era rimasto nei cassetti, arricchendolo di nuove idee, fino al risultato finale rappresentato dalle sette canzoni in scaletta (per un’ora circa di minutaggio), tra le migliori del loro songbook.

"Ecotone", la canzone che apre il disco è pura magia, è uno di quei brani che hanno il merito di farsi ricordare fin dal primo ascolto e che girano in loop sul piatto dello stereo. La canzone inizia con un arpeggio acustico, la melodia è dolcissima, la voce di Amanda Ortenhag (che accompagna quella di Rikard Sjöblom) rende l’atmosfera sognante ed evocativa, mentre un’acidula chitarra innerva il brano sottotraccia di brevi scariche elettriche. Un numero di prog folk a dir poco perfetto, che può rimandare tanto ai leggendari Fairport Convention quanto ai più recenti Midlake.

Non appena "Ecotone" evapora, inizia il corpus centrale dell’opera, "Out In The Open", una complessa suite che coagula in poco più di venti minuti tutto il progressive dei giorni leggendari. Un canzone splendida e splendidamente suonata, che alterna accelerazioni e momenti di stasi, e che rappresenta una piccola sfida agli appassionati di prog per riconoscere le varie sonorità citate, che vanno dagli Yes di "Fragile" agli Emerson Lake & Palmer di "Tarkus".

Archi barocchi aprono "Beating Heart", ma dopo poco il brano si accende di elettricità (e qui vengono in mente i King Crimson), salvo poi svilupparsi tra continui sali scendi in un intreccio perfettamente riuscito fra folk, prog e hard rock che si sublima in una straniante coda orchestrale. "In the Autumn" inizia mostrando le indubbie capacità tecniche della band e si sviluppa poi attraverso sonorità più leggere dalle vaghe reminiscenze californiane.

Dopo un breve intermezzo strumentale ("Ecotone Reprise"), il disco si chiude con "Torrential Downpour", lunga ballata dai sentori autunnali a cavallo fra folk e prog, e "Ecotone Norrsken 1982", una sorta di sralunato esperimento elettronico, che sembra citare Alan Parson, in netta controtendenza con il resto della scaletta.

Songs For Beating Hearts è un disco totalmente anacronistico, legato a doppio filo a un mondo musicale che oggi vive, attraverso un diverso linguaggio, una seconda giovinezza. I Beardfish, però, preferiscono lo studio delle lettere antiche, si immergono nei grandi classici e cercano di restituirli alla luce. Un compito complesso ma decisamente riuscito, una manna dal cielo per schiere di progster nostalgici, la cui comfort zone è rimasta saldamente ancorata agli anni ’70. 

Voto: 7,5

Genere: Progressive




 

Blackswan, giovedì 23/01/2025

martedì 21 gennaio 2025

Leave a Light On - Tom Walker (Relentless Records, 2017)

 


C’è un dolore nel dolore, quando si tratta di dipendenza, e si chiama solitudine. Quella sensazione di sprofondare nel baratro senza una mano pronta ad afferrarti, la fatica di affrontare i fantasmi in una lotta impari senza una voce di conforto, e perdersi nel buio di un lunghissimo tunnel senza una luce che, là in fondo, indichi la strada della speranza, o un orizzonte di salvezza. Dipendere è far entrare in casa un nemico implacabile, che ci inganna con subdola astuzia, mentre teniamo lontano chi ci ama davvero. Per paura, per vergogna, per una stupida ed esiziale forma d’orgoglio.

Sono queste riflessioni che aveva in testa Tom Walker che scrisse Leave A Light On, una canzone che il songwriter compose per un caro amico che lottava contro la dipendenza dalla droga: un invito a cercare aiuto, un offerta di disponibilità attraverso l’immagine di una luce accesa, simbolo di conforto, di affetto, di fratellanza.  

 

Non lasciarti andare

Mantieni la presa

Se guardi in lontananza, c'è una casa sulla collina

Che ti guida come un faro

In un posto dove sarai sicuro di sentire la nostra grazia

Perché tutti abbiamo commesso degli errori

Se hai perso la strada

Lascerò la luce accesa

 

Successivamente alla pubblicazione della canzone, Walker spiegò che il suo amico stava attraversando un periodo davvero buio e di aver scritto la canzone per fargli sapere che non era solo. Sebbene ispirata a un fatto personale, la canzone ha un significato più ampio e si rivolge a chiunque si sia lasciato intrappolare da una dipendenza di qualsiasi tipo. Fu sempre Walker a spiegarlo con chiarezza: "Tutti quelli che conosco, me compreso, a un certo punto della loro vita hanno lottato con qualche forma di dipendenza, che si tratti di bere troppo o mangiare troppo…Volevo solo scrivere questa canzone per la mia famiglia e per tutti i miei amici, per far sapere loro che possiamo parlarne."

Tom Walker scrisse la canzone collaborando con Steve Mac, un abile produttore che aveva messo mano a numerosi singoli e album spacca classifiche per artisti come Westlife (Flying Without Wings), The Wanted (Glad You Came), Clean Bandit (Symphony) e Ed Sheeran (Shape Of You). La coppia era stata messa in contatto grazie all’etichetta di Walker, il quale, però, non conosceva la caratura di hitmaker di Mac, che scoprì solo in seguito, circostanza, questa, che gli procurò non poco imbarazzo, visto che lui era solo un musicista alle prime armi.

La canzone è stata originariamente pubblicata nel Regno Unito il 13 ottobre 2017 e all'inizio ha fatto fatica a sfondare. Nel frattempo, però, stava decollando oltre Manica, raggiungendo la vetta della classifica dei singoli francesi nel marzo 2018. Ha anche raggiunto la Top 10 in diversi altri paesi europei, tra cui Austria, Belgio, Germania, Svizzera, mentre l’album che la conteneva, What a Time to Be Alive, pubblicato a marzo del 2019, divenne disco d’oro anche in Italia.  Solo più tardi, Leave a Light On ha finalmente raggiunto la Top 40 del Regno Unito, nel maggio 2018.

 


 

 

Blackswan, martedì 21/01/2025

lunedì 20 gennaio 2025

Klone - The Unseen (Pelagic Records, 2024)

 


Francese di Poitiers, nata nel 1995 con il nome di Sowat, poi trasformato nell’attuale Klone nel 2003, la band transalpina veste abiti mutevoli, che l’hanno portata, disco dopo disco (siamo all’ottavo in studio) ad affinare il proprio suono. I Klone, infatti, hanno pubblicato il loro album di debutto, Duplicate, poco più di 20 anni fa, e di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. Quello, infatti, era un album dai riff vorticosi e dalle ritmiche complesse, che aveva molto in comune con la musica dei conterranei Goijra, al netto di qualche momento decisamente più melodico.

E’ da questi spunti melodici, poi, che ha preso forma la lunga trasformazione della band, che da Le Grand Voyage del 2019, ha mitigato frenesia e aggressione, dando più importanza alla dimensione progressive e rock della proposta, che è diventata preponderante nel penultimo, bellissimo, Meanwhile, e definitiva in questo nuovo The Unseen.

Il passaggio dalla Kscope, etichetta votata al prog, alla Pelagic Records non ha sviato la band dal percorso intrapreso, e questo nuovo disco ha relegato furia e potenza a momenti residuali, ponendo ulteriormente l’accento su eleganza formale e arrangiamenti sofisticati, e accorciando il minutaggio della scaletta, declinata, peraltro con la solita clamorosa perizia tecnica.

I sei, insomma, non hanno mai suonato sicuri ed eleganti come in questo album, aperto dalla magnifica Interlaced, un brano dal retrogusto alternative anni ’90, rotondo, quasi solare, se non fosse per quel sentore malinconico che si fa preponderante nella seconda parte di canzone, attraversata da svolazzi di sax che innalzano la tensione.

L’approccio sonoro della band alterna momenti intensi ad altri più intimi, e la voce del frontman Yann Ligner si adatta perfettamente a una musica che spesso, come nella title track, procede quasi istintiva, morbida e carezzevole, fino al momento catartico in cui prende vita un crescendo distorto, disturbato da riff post hard core e avvolto da inquietanti tastiere. Un brano, l’unico, che evoca vagamente il passato della band, soprattutto nel finale quando il suono si fa arcigno, seppur declinato con la consueta eleganza espressiva.

Come dicevamo, rispetto al predecessore, The Unseen è un disco più raccolto, dura poco più di quaranta minuti e le canzoni sono solo sette. Non serve di più per esprimere con consapevolezza un suono che ha trovato la sua definitiva dimensione, attraverso canzoni che funzionano tutte, sia nel rock sinistro di "Magnetic", sia nella tensione latente di "After The Sun", che si aggira per territori post rock, sia nella lunga, ondivaga e conclusiva "Spring", in cui le atmosferiche placide e il drumming leggermente in controtempo trovano accelerazione in un climax sferragliante in crescendo, che, poi, si dissolve nel liquido amniotico di una coda strumentale avvolta in un aura psichedelica.

The Unseen sancisce, dunque, la definitiva evoluzione della band francese, che ha quasi del tutto cancellato la parola metal dal proprio lessico, in favore di composizioni prog rock moderne, intelligenti, ricche di spontaneità e sentimento, in perfetto equilibrio fra adulta espressività e suggestiva immaginazione. Manca il singolo che può competere sul mercato, ma in fin dei conti, poco importa. Questo disco è bellissimo anche così.

Voto: 8

Genere: Prog Rock

 


 


Blackswan, lunedì 20/01/2025

venerdì 17 gennaio 2025

Lucinda Williams- Sings The Beatles From Abbey Road (Highway 20 Records, 2024)

 


Nato durante i giorni bui della pandemia, il progetto Lu’s Jukebox è composto da una serie di dischi con cui Lucinda Williams omaggia gli artisti che l’hanno maggiormente influenzata. Le pubblicazioni precedenti hanno visto la songwriter della Lousiana cimentarsi con la musica di Bob Dylan e dei Rolling Stones, con il Southern Soul, con una raccolta a sfondo natalizio e con una rivisitazione delle canzoni dell’amico Tom Petty.

Con questo nuovo episodio della serie, la Williams affronta quello che è decisamente il repertorio apparentemente più lontano dalla sua sensibilità. L'eclettico catalogo pop - rock dei Beatles potrebbe infatti non sembrare una scelta logica per la settantunenne cantante americana, che generalmente percorre strade secondarie più oscure e americanizzate. Eppure, a dispetto di tutto, la voce cupa, languida, paludosa e strascicata della Williams si collega sorprendentemente bene a queste composizioni firmate dalle divinità Lennon-McCartney (e Harrison). Registrare il disco, poi, ai mitici Abbey Road, ha aiutato a infondere nel progetto tutto il fascino degli anni '60, che ancora aleggia tra quelle iconiche mura.

E’ curioso come, tra l’altro, il disco sia stato registrato in soli due giorni, a causa dei ritmi serrati del tour della musicista e della disponibilità degli studi, e visto il risultato qualitativo finale si può affermare di essere di fronte a un mezzo miracolo.

Non tutte le ciambelle sono venute col buco: "Can’t Buy Me Love", brano tratto dal periodo più orientato al pop, sembra un po’ lontano dalle corde della Williams che si limita ad americanizzarla, senza grandi risultati, "Let It Be", una vera montagna da scalare, è riproposta in modo fedele, senza guizzi e, sempre a parere di chi scrive, l’iniziale "Don’t Let Me Down" suona un po’ debole rispetto all’originale.  

Il resto, però, funziona davvero bene, a partire da una "While My Guitar Gently Weeps" decisamente da brividi, e dalle ottime rivisitazioni, queste si, davvero nelle corde della songwiter, di "I’m So Tired" e "Yer Blues". Stupisce, poi, la scelta di "I'm Looking Through You" di McCartney, la canzone meno nota del lotto, che la Williams rallenta per enfatizzare la tensione di una storia d’amore al collasso.

In genere, gli arrangiamenti non si allontanano troppo da ciò che siamo stati abituati ad ascoltare negli ultimi cinquant’anni di rivisitazioni. Le ballate "Something", la citata "Let It Be" e la conclusiva "The Long and Winding Road" sono ridotte all'essenziale, lasciando che la voce espressiva della Williams coaguli tutte le emozioni che si provano a riascoltare canzoni baciate dal dono dell’eternità.

L’attitudine soul infusa nel meno noto brano dell'album Let It Be, "I've Got a Feeling", è messa in luce da vortici di organo che conducono a un assolo di chitarra bruciante, mentre la rilettura di "With a Little Help from My Friends" ricorda più l’interpretazione di Joe Cocker che quella contenuta in Sgt. Pepper.

Questo nuovo capitolo dei Lu’s Jukebox, così come dev’essere, non aggiunge e non toglie nulla alla storia dei Beatles e a canzoni che vestono già la perfezione nella loro dimensione originale. Tuttavia, la Williams riesce nella magia di conciliare due mondi apparentemente agli antipodi, restituendo all’ascolto nuove emozioni grazie alla sua fisicità e al timbro inconfondibile di una voce che, qualunque cosa canti, riesce sempre a toccare le corde del cuore.

Voto: 7,5

Genere: Rock

 


 

Blackswan, venerdì 17/01/2025

giovedì 16 gennaio 2025

Body Count - Merciless (Century Media, 2024)

 


Multimilionaria star del rap e acclamato attore, tanto cinematografico quanto televisivo, il sessantaseienne Ice-t potrebbe godersi una ricca pensione sotto il sole della sua Los Angeles. E invece, questo ragazzaccio che ha più polemiche alle spalle che capelli in testa, continua a tenere viva la propria carriera attraverso i Body Count, il suo progetto più ostico, militante, rabbioso e decisamente meno appetibile da un punto di vista commerciale.

Dai tempi di quella "Cop Killer" (1992), singolo che sollevò uno tsunami di critiche, coinvolgendo addirittura l’allora Presidente degli Stati Uniti, George Bush, il rapper californiano non ha smesso di stare sulle barricate, di polemizzare con il potere, di professare il suo credo antagonista senza mezze misure, a volte esagerando, ma sempre con invidiabile coerenza.

Non è da meno questo nuovo Merciless, uscito quasi in concomitanza con l’elezione di Trump e come di consueto focalizzato su temi che, purtroppo, non smettono di essere attuali, come il razzismo, la violenza della polizia nei confronti dei cittadini di colore, l’indiscriminata circolazione delle armi, foriera di violenza e dolore.

Ice-T non è certo un innovatore e la formula dei suoi dischi è immutabile: rabbia, ai limiti della ferocia, un mood cupo e pessimista, e un armamentario rap metal, insensibile alle mode, totalmente amelodico e pronto a saltare alla giugulare dell’ascoltatore con intenti esiziali e bellicosi.

Anche in questo caso, poi, non manca la pletora di ospiti illustri necessaria a innervare di ulteriore energia i brani in scaletta: Joe Bad dei Fit For An Autopsy, Max Cavalera dei Soulfly, Howard Jones, ex Killswitch Engage, George Fisher dei Cannibal Corpse e, udite udite, David Gilmour (ma su questa ospitata torneremo a breve).

Come detto, non ci sono novità in un suono ostico, violento, inossidabile, che declina una materia nota senza molta originalità, ma con un tiro che non ha perso un grammo di smalto nel corso dei decenni. La band è in palla, Ice-T rappa come un califfo, e l’approccio è gagliardo, possente, tirato a lucido dalla produzione di Will Putney (un’autorità in fatto di metal) e da una freschezza emotiva più consona a un ventenne che a un navigato musicista prossimo alla settantina.

Nemmeno un filler, in scaletta. A partire dalla devastante sassaiola death/trash di "The Purge", roba da fa saltare il padiglioni auricolari al più allenato metallaro, tutto funziona benissimo: la furia trash di "Psycopath", l’hip hop corazzato di "Fuck What You Heard" (violento j’accuse al sistema politico americano), l’incedere spietato di "Live Forever", appena ammorbidito dal ritornello pulito cantato da Howard Jones, il nu metal classicissimo di "Lying Motherfucka" o lo speed supersonico di "Drugs Lords".

Come consuetudine per i Body Count, e qui torniamo al citato David Gilmour, anche in Merciless non manca la cover. Nello specifico Ice-T ha scelto "Comfortably Numb" dei Pink Floyd, di cui ha riscritto interamente il testo, reinterpretandola in chiave rap. Questa rilettura, apriti cielo, ha scatenato parecchie polemiche fra i puristi, indignati come se si fosse bestemmiato in chiesa.  Ognuno la veda un po’ come vuole. Personalmente, trovo la cover ben fatta e concettualmente apprezzo di più chi, anche di fronte a un brano iconico, decide di reinterpretarlo alle sue condizioni, invece di arrendersi a un frusto copia incolla. Chi, sicuramente, ha gradito molto è lo stesso Gilmour, il quale non solo ha dato il benestare a Ice-T, ma ha fattivamente partecipato alla realizzazione del brano tessendolo attraverso le trame della sua inossidabile chitarra, con un lavoro di scintillanti precisione e potenza.

I Body Count continuano a picchiare duro senza compromessi, non cercano di forzare il proprio linguaggio a favore di un pubblico più ampio e si tengono lontani dai territori dell’originalità. Eppure, questi combattenti di lungo corso, dimostrano per l’ennesima volta di saper far convivere la forza bruta della loro musica con cuore e sentimento, tetragoni nel divulgare il proprio appassionato pensiero politico e la propria inesausta militanza. Lo facessero tutti, forse sarebbe un mondo migliore.

Voto: 8

Genere: Rap Metal

 


 


Blackswan, giovedì 16/01/2025