martedì 19 agosto 2025

Bush - Razorblade Suitcase (Trauma Records/Interscope, 1996)

 


Nemo propheta in patria, recita un antico brocardo ispirato al Vangelo di Luca. Una frase, questa, che si adatta perfettamente alla parabola artistica dei Bush. Formatasi a Londra nel 1992, la band capitanata dal vocalist Gavin Rossdale, infatti, non è mai riuscita a sfondare nei confini della nativa Inghilterra, mentre negli Stati Uniti il loro album d’esordio, Sixteen Stone, nel giro di qualche mese, grazie al singolo Everything Zen, che impazzava su MTV e nella programmazione di tutte le radio rock, vendette un botto, tanto da trasformare la band da gruppo di nicchia a fenomeno delle arene.

In Gran Bretagna, invece, l’esordio dei Bush non supera la quarantaduesima posizione in classifica e, oltretutto, è massacrato impietosamente dalla critica. I motivi del fiasco inglese sono gli stessi che spingono Sixteen Stone a un clamoroso successo negli States: il suono è troppo americano per le orecchie degli ascoltatori albionici, a cui del post grunge, che invece furoreggia in America, non può fregare di meno. La band, inoltre, sembra un clone dei Nirvana, il cui suono è rielaborato, però, in chiave più pop e radiofonica, mentre Gavin Rossdale, frontman tanto bello e quanto sensuale, è poco credibile nei panni del nuovo martire della musica alternativa, quantunque ce la metta tutta a esibire le stigmate di un disperato nichilismo.

Necessita, dunque, un cambio di rotta, un quid che dia credibilità al progetto della band e possa conquistare anche il gusto degli ascoltatori inglesi. La band, allora, arruola Steve Albini, che qualche anno prima aveva prodotto anche In Utero dei Nirvana: se l’idea è quella di clonare il sound che ha reso leggendari Kurt Cobain e soci, meglio attingere alla fonte, e servirsi di chi, quel suono, ha contribuito a forgiare.

Nel corso della sua carriera musicale, poi, Albini si era guadagnato la nomea di puritano sarcastico, il più accanito sostenitore dell'etica fai-da-te e anti-corporativa del punk. Ovviamente, il fatto che abbia scelto di lavorare con una band così palesemente derivativa fece storcere il naso a molti, sebbene il produttore aveva sempre sostenuto che avrebbe registrato "qualsiasi cazzone che entrasse dalla porta". In buona sostanza, i Bush cercarono di comprarsi credibilità rimestando nel torbido di una produzione che si sapeva sarebbe stata sporca e cattiva.

Nasce così Razorblade Suitcase, un disco che, al netto delle belle canzoni (e di belle canzoni ne contiene qualcuna) suona cupo e drammatico, esattamente come sarebbe suonato un nuovo disco dei Nirvana, band che resta la maggior fonte d’ispirazione dei Bush.

La scommessa, in un certo qual modo, è vinta: negli Stati Uniti il disco balza al primo posto delle classifiche, ma vende meno del suo predecessore, mentre in Inghilterra raggiunge addirittura la quarta posizione, risultato mai più replicato dal gruppo londinese.

Nel caso in cui ci fossero dubbi sulle intenzioni della band, Razorblade Suitcase si apre con il suono di un cane ringhiante all'inizio di "Personal Holloway". Tuttavia, nonostante tutta la sua crudezza esposta (sembra di essere seduti nella sala prove insieme ai Bush) l'album è molto meno duro di quello che si sarebbe potuto pensare. Mentre Sixteen Stone contiene brani aggressivi e dal ritmo più sostenuto come "Everything Zen" e "Machinehead", Razorblade Suitcase predilige un suono più lento e malinconico. In scaletta, ci sono solo tre veri e propri pezzi rock, "Personal Holloway", "Swallowed" (l'unica grande hit dell'album) e "History".

I restanti brani (ad eccezione di "Straight No Chaser", una ballata pop gemella della hit "Glycerine") tendono a crogiolarsi in inizi lenti e ariosi, voce e chitarre sommesse, ritmica altrettanto contenuta.

Se il pubblico apprezza, la critica non prede occasione per picchiare duro: Rolling Stone definì i Bush "i Bon Jovi del grunge" e Razorblade Suitcase il peggior album del 1996, mentre il celebre critico DeRogatis apostrofò le tredici canzoni in scaletta come “completamente insipide e senza vita”.

Poco importa. La band continuò a fare concerti senza sosta, rimanendo in tour per 14 mesi per promuovere l'album (incluse alcune date con i Jesus Lizard come spalla). Uno sforzo immane che, però, diede i suoi frutti: Razorblade Suitcase vendette 6 milioni di copie solo negli Stati Uniti, e rese i Bush una delle rock band di maggior successo dell'epoca.

 


 

 

Blackswan, martedì 19/08/2025

lunedì 18 agosto 2025

Southern Avenue - Family (Alligator, 2025)

 


Sono passati otto anni dall’omonimo album d’esordio dei Southern Avenue, un tempo in cui la band ha affinato il proprio suono e reso sempre più coeso l’affiatamento che lega i quattro membri della line up. Allora, non è un caso intitolare il quarto album Family, con evidente richiamo alla hit del 1979 a firma Sister Sledge. D’altra parte, il quartetto originario di Memphis è composto dalle tre sorelle Jackson (Tierinii alla voce solista, Tikyra alla voce/batteria e Ava alla voce/violino) e dal marito di Tierinii, uno straordinario chitarrista di origini israeliane, che non ha nulla da inviare ai migliori specialisti del settore (Ori Naftaly).

Come accennato, la band ha perfezionato nel tempo la sua proposta, che ibrida soul, blues, funk, gospel e rock, attraverso album costantemente di altissimo livello e da un lavoro ininterrotto in tournée, che ha conquistato il pubblico con un filotto di concerti al cardiopalma.

Family è inoltre il primo disco pubblicato su una nuova etichetta (i primi album sono usciti per la Stax), l’iconica Alligator, nota per il suo portafoglio di artisti blues e blues-rock, e per un approccio meno convenzionale alla pubblicazione, che consente l’imparentamento fra sonorità classiche e un tocco musicale più contemporaneo e audace.

Bastano pochi secondi dell’iniziale "Long Is The Road" per comprendere la caratura della band: r’n’b sanguigno, interplay fra le voci perfettamente sincronizzato, ritornello scalciante e il lavoro alla sei corde di Naftaly, uno che mastica il blues con un tocco acidulato di rock.

Le canzoni di Family sono all’insegna del groove e del ritornello trascinante e sono immerse nei sentori untuosi del R&B di Memphis, anche quando giocano con il funky in mid tempo, come nella vibrante "Upside" (con un assolo finale di Naftaly scarno e pungente) o nella più carezzevole "Gotta Keep The Love" (qui il tocco della chitarra strizza l’occhio al jazz).

In "Sisters", le tre sorelle armonizzano le tre voci come solo tre sorelle potrebbero fare, e la slide sotterranea e sinuosa di Naftali si connette mentre il trio canta "And together we'll take the world", come se fosse la cosa più ovvia e realizzabile del mondo.

Quando, poi, parte "Flying" e la Tierinii urla "If I die, at least I'll die flying" si apre lo scenario di un blues paludoso e tirato, con la chitarra e l’organo a scavare sedimenti roots. Blues che ritorna, in chiave rock, nel riff cattivo, crudo e ossessivo nelle torbide atmosfere bayou di "Late Night Get Down".

E se "Rum Boogie" arde e fiammeggia, trascinando con un groove scalciante, la batteria militaresca che sostiene la chiusura di "We Are" sembra rubata a "50 Ways to Leave Your Lover" di Paul Simon, prima che il brano si innalzi in un turbinio funky rock, in cui il trio di voci si fonde cantando "We are the music of the soul", per poi concludere a cappella con un esplosivo "We are healing". La musica come guarigione al male di vivere.

Funziona tutto in Family, un disco dalla scrittura classica, ma dall’approccio contaminato, e suonato con una maestria che lascia a bocca aperta. Le armonie vocali delle sorelle, infatti, sono spontanee, organiche e evidentemente influenzate dalla loro educazione religiosa, i comprimari (tra cui Luther Dickinson dei North Mississippi Allstars) interpretano alla perfezione il mood scalpitante del disco e Naftaly è un chitarrista coi fiocchi che, senza strafare, si mette al servizio delle canzoni per metterne in luce la vera anima. Pochi tocchi, ma tutti decisivi.

E’, però, la cantante solista Tierinii il punto focale dei Southern Avenue: la sua voce, grintosa e sicura, sostiene e insuffla di energia la musica, sprigionando scintille, che spesso divampano in incendi emotivi impossibili da spegnere.

Voto: 8

Genere: Blues, Rock, R&B, Funky

 


 

 

Blackswan, lunedì 18/8/2025

mercoledì 13 agosto 2025

Blind - Korn (Epic/Immortal, 1994)

 


L’omonimo album d’esordio dei Korn (1994) è un’opera seminale, una sorta di Bibbia del nascente movimento nu metal, un disco per molti versi sperimentale (i riff atonali, l’uso dello scat, il suono delle cornamuse, etc.) eppure feroce come pochi. Un disco che si distingue per la furia incontaminata (e di portata intergenerazionale, visto che è uno dei dischi metal più amati dai Millennial) e per la cruda espressività vocale del suo leader, Jonathan Davis, un ragazzo irrequieto e tormentato, capace di mettere a nudo, senza filtri, la sua depressione cronica, il dolore per i reiterati soprusi e maltrattamenti subiti durante l’infanzia, e il suo rapporto pericoloso con droghe e alcool.

"Blind", la traccia che apre il disco, tratta proprio dei problemi di Davis con la dipendenza da sostanze psicotrope (soprattutto anfetamine) e di come si sentisse spaesato quando era sotto l'effetto di queste sostanze. Una canzone che Davis dice essere stata facile da scrivere perché aveva tutta la sua esperienza di vita da cui attingere (e fa sorridere che la sua esperienza di vita si limitasse ai 22 anni). Un testo contraddittorio, in cui il giovane singer comprende benissimo i danni della droga, sente la paura di poter morire, e vede l’abisso che si apre d’innanzi ai suoi piedi. Se da un lato, però, si percepisce la volontà del cantante di reagire, dall’altro, si respira l’odore acre di una rassegnazione senza speranza.

 

"Quanto in profondità posso andare nel terreno in cui giaccio

Se non trovo un modo per setacciare il grigio che annebbia la mia mente

Questa volta guardo per vedere cosa c'è tra le righe

Vedo, vedo, sto diventando cieco

Sono cieco!"

 

Passerà del tempo, poi, prima che Davis riuscirà a uscire dall’incubo della dipendenza (andrà anche in riabilitazione per abuso di Xanax), e questo avverrà solo nel 1998, quando il figlio primogenito Nathan si spaventerà a morte dopo averlo visto barcollare a causa dell’alcool.

"Blind", nel tempo, è diventata una delle canzoni più amate dai fan dei Korn, e quando uscì, essendo stata pubblicata come primo singolo, contribuì al successo dell’album, che vendette oltre due milioni di copie solo negli Stati Uniti.

La canzone fu concepita qualche anno prima, quando Jonathan Davis militava in una band chiamata SexArt. Successivamente, durante le registrazioni dell’esordio dei Korn, l’ha recuperata, ne ha modificate alcune parti, ma ha mantenuto invariati molti degli elementi, tra cui il celebre incipit "Are you ready?", uno dei più iconici della storia del metal. Dopo che i Korn hanno pubblicato il loro album, due dei compagni di band di Davis nei SexArt, Ryan Shuck e Dennis Shinn, hanno intentato un'azione legale nei confronti della band, sostenendo di aver contribuito a scrivere buona parte di "Blind". Di conseguenza, vennero aggiunti alla traccia come autori insieme ai cinque membri dei Korn. I rapporti tra i due musicisti e Davis rimasero, comunque, buoni, tanto che, nel 1997, la band di Shuck, gli Orgy, è diventata la prima in assoluto a firmare per la casa discografica fondata dai Korn, la Elementree Records, ottenendo un buon successo con la loro cover di "Blue Monday" dei New Order.

 

 


Blackswan, mercoledì 13/08/2025

martedì 12 agosto 2025

Turin Brakes - Spacehopper (Cooking Vynil, 2025)

 


Ammesso che la definizione possa avere un senso, all’alba del nuovo millennio, molte band vennero raggruppate sotto l’egida New Acoustic Movement, una catalogazione un po’ forzata, in cui si fecero rientrare gruppi che tornavano a mettere al centro del villaggio la strumentazione acustica. Tra questi, alcuni notissimi come Coldplay, Starsialor e Kings Of Convenience, altri destinati a imperitura nicchia come I Am Kloot e i bravissimi Turin Brakes.

Il loro album di debutto, The Optimist LP (2001) oltre a essere il manifesto di questa presunta corrente musicale, ricevette ottime recensioni e fu candidato al Mercury Music Prize. Da allora, questo quartetto britannico dal nome curioso (i freni di Torino) ha dato vita a una produzione costante, anche se non ha mai raggiunto i vertici delle classifiche, a parte aver conquistato la top five con il singolo "Painkiller" nel 2003. Ciò nonostante, nel tempo i Turin Brakes hanno comunque venduto oltre un milione di album fisici, a dimostrazione della qualità costante del loro songwriting, mantenuta alta nel corso degli anni.

Spacehopper, che è il loro primo nuovo disco dopo oltre tre anni e il decimo album in studio in totale, vede la band tornare ai Konk Studios, laddove avevano registrato il citato album di debutto. Un scelta non banale, quella di un gruppo che, arrivato alla tappa importante dei venticinque anni di carriera, vuole mettere un punto fermo, ritrovare una connessione con le proprie origini, fare un bilancio di gioie e rimpianti, di cosa ha lascito in eredità e cosa, invece, è ancora possibile in prospettiva futura.

Se da un lato la proposta gruppo non si discosta molto da quello che i fan di lunga data possono aspettarsi, quel connubio riuscito fra delicatezze acustiche, brit pop, languori west coast e rock radiofonico continua a suonare con una freschezza invidiabile, fuori dal tempo, forse, ma sempre avvincente. E come sempre, i punti di forza sono le melodie di immediata fruibilità e la voce, carezzevole e subito riconoscibile, del leader Olly Knight.

L’iniziale "The Message" rappresenta la quintessenza dei Turin Brakes, vademecum su come costruire una perfetta canzone pop, resa scintillante da quelle chitarre che sanno creare un magico equilibrio fra tensione e solare leggerezza. Non è da meno la successiva "Pays To Be Paranoid", un brano in cui la matrice brit, pop e rock, emerge prepotentemente, richiamando alla memoria Verve e Oasis, grazie anche al lavoro eccellente di Gale Paridjanian alla chitarra.

La band sembra non aver perso un briciolo dell’ispirazione dei giorni belli e dimostra di essere ancora capace di scrivere canzoni di presa facilissima, senza mai scadere nel banale. La title track è scalpitante e nostalgica al contempo, le chitarre che graffiano sono contemperate dal più morbido abbraccio degli archi, "Almost" torna a un sound più introspettivo, tra suggestioni americane e accenni di morbido gospel (splendido il suono di chitarra di Paridjanian), "Lullaby" viene lambita da polvere blues, mentre "Today" è la classica ballata Turin Brakes, voce, melodia e archi a far battere forte il cuore.

Il disco fila via che è un piacere, anche quando accelera il passo con il pop luminoso di "Horizon", una macchina del tempo che porta indietro fino all’esordio di venticinque anni fa, così come "Old Habits", evidentemente ispirata a certo folk anni ’60.

Gli ultimi tre brani in scaletta mantengono alto il livello d’ispirazione: "Silence And Sirens" mostra evidenti stigmate brit pop (Starsailor), "Lazy Bones" è un breve acquarello acustico a cui è bello abbandonarsi chiudendo gli occhi, mentre la conclusiva "What’s Undermeath", oltre a essere il brano più lungo dell’album coi suoi sei minuti e mezzo, si avventura nel cuore del rock californiano, evocando attraverso il suono della chitarra un mito come Neil Young.

Fin troppo sottovalutati, talvolta ritenuti inoffensivi o marginali, i Turin Brakes, pur destinati alla nicchia di pochi intenditori, continuano il loro percorso musicale con un entusiasmo che commuove, cesellando con cura artigianale canzoni, che non faranno la Storia con la S maiuscola, ma che hanno scritto la piccola storia personale di tanti fan ancora innamorati, dopo oltre cinque lustri.

Voto: 7,5

Genere: Pop, Rock

 


 

 

Blackswan, martedì 12/08/2025

lunedì 11 agosto 2025

Cwfen - Sorrows (New Heavy Soinds, 2025)

 


Arrivano da Glasgow, si chiamano Cwfen (ma si pronuncia Coven), e debuttano con questo Sorrows, un disco che si muove per aspri territori gothic doom, esplorati nello ore che vanno dal crepuscolo alla notte fonda. Un esordio che colpisce fin da subito per le atmosfere claustrofobiche e cupe, per quelle paure ancestrali evocate da un’oscurità attraversata da incubi e da fantasmi, nella quale non filtra mai un raggio di luce, e in cui è palpabile una fremente tensione, solo a tratti mitigata dal gusto dolce amaro della malinconia.

Un dagherrotipo color seppia che fotografa una band già consapevole dei propri mezzi, abile nel combinare il passo pesante del doom con diversi elementi, come la sensuale spavalderia dei Type O Negative, lo stile cinereo di Chelsea Wolfe o scorie post punk prese in prestito dagli anni di gloria del genere. Riff pesanti, chitarre aspre, il cantato che alterna voci pulite a screaming (la prova sublime della vocalist Agnes Alder), e un mood che oscilla fra l’epico e il catacombale.

Il disco si apre con "Fragment I", il primo dei tre brevi intermezzi strumentali dallo stesso titolo che punteggiano la scaletta, seguita, poi, dalla prima vera composizione, "Bodies", quasi sette minuti di doom profondo e ansiogeno: riff ossianico, ipnotico e livido, attraversato da brevi e lancinanti assolo e avvolto nella voce della Alder, il cui timbro passa dell’etereo al salmodiante, prima di esplodere in un luciferino screaming. Per contrasto, la successiva "Wolfsbane" accelera il passo, il riff è dichiaratamente goth rock (una versione pesante dei Sisters Of Mercy) e ancora una volta è la vocalist a prendersi la scena, con una performance ipnotizzante, sia quando spinge la tensione a livelli melodrammatici sia quando imposta il timbro da sacerdotessa della notte, braccia levate al cielo a evocare un rito pagano.

E’ questo, senz’altro, uno dei punti di forza di Sorrows: la voce. Agnes raggiunge un equilibrio perfetto tra la delicata vulnerabilità espressa in molti testi e la sua capacità di esprimere una rabbia tagliente quando l'umore lo richiede. Con un'abilità da musicista navigata e una padronanza perfetta della tecnica, la voce della Alder riesce sempre a trasmettere un'emozione straziante.

Non immediatamente assimilabile, eppure egualmente accessibile, il disco mostra i propri pregi ascolto dopo ascolto, soprattutto quando emerge la capacità della band di muoversi su un canovaccio ben delineato, senza, tuttavia, ripetersi, ma cercando per ogni brano qualche elemento distintivo, messo in luce da una produzione che lascia trasparire gli elementi più torbidi e scabrosi.

"Reliks" è una bomba post punk, che innesca una bella melodia, prima di esplodere in un climax disperato, "Whispers" fluttua dilatata tra sogno e realtà, una ballata in cui le chitarre e il tappeto insistente dei piatti accompagnano la voce della Alder tra estasi celestiale e sprofondo emotivo, mentre inserti di screaming provenienti dell’al di là sporcano l’ennesima melodia vincente. E se le dissonanze iniziali spingono "Penance" in territori goth doom catacombali, in cui il canto della vocalist si fa urlo belluino e poi mistica preghiera agli dei, la bellezza selvaggia di "Embers" implode in una deflagrazione interiore di doom, shoegaze e rabbiosa disperazione.

Chiudono i tamburi battenti di "Rite", abrasiva deriva blackgaze che semina terrore e colpisce in piena faccia, lasciando sulle labbra il sapore metallico del sangue.

Sorrows è l’esordio coi fiocchi di una band capace di sorpassare agilmente gli elementi distintivi del doom melodico, grazie a uno sguardo curioso attraverso il quale esplorare territori contigui, arricchendo così la proposta. Che più ampia sarà in futuro, più renderà suggestivo e appetibile un suono che, a ogni modo, già ci ha conquistato.

Voto: 7,5 

Genere: Doom, Goth Rock, Post Punk




Blackswan, lunedì 11/08/2025