venerdì 19 settembre 2025

Pain Of Salvation - Scarsick (InsideOut, 2007)

 


Attivi fin dal 1991, gli svedesi Pain Of Salvation hanno sempre scritto musica densa sia sotto il profilo compositivo che lirico. Una complessità, quella della band capitanata da Daniel Gildenlow, che è cresciuta nel tempo, grazie a un approccio sempre più sperimentale alla composizione. Dal debutto intitolato Entropia (1997) e dall'eccellente seguito, One Hour By The Concrete Lake (1998) fino all'eccezionale Remedy Lane (2002), il loro sound era relativamente convenzionale, ma da Be (2004), un album fortemente filosofico caratterizzato da uno scarto selvaggio dalle convenzioni verso una varietà di suoni incredibilmente diversificata, la band ha fatto un incredibile salto di qualità, tanto anche da deludere i fan della prima ora, ma, per contro, riuscendo a sedurre una diversa fetta di pubblico.

Ebbene, Scarsick procede spedito per la strada tracciata dal suo predecessore, allontanandosi per fattura (e qualità) dal vecchio catalogo della band e rendendo ancora più difficile ogni generica catalogazione, per quanto il genere prog metal riesca a spiegare meglio di altri le due anime che convivono nel progetto Pain Of Salvation.

Scarsick, seconda parte di un concept che parte da The Perfect Element, part I (altro ottimo album datato 2000), è un disco militante, politicamente e socialmente impegnato, che affronta, senza mezzi termini, i temi del capitalismo, dell’imperialismo americano, della cultura del consumo, del declino etico dell’umanità e delle disfunzioni del materialismo. Ed è un disco arrabbiato, che non fa prigionieri. Nelle liriche si percepiscono tutto l’amaro cinismo e il profondo coinvolgimento emotivo di Gildenlow, uno che non le manda certo a dire. Ed è divisivo, lo amerete o lo odierete. Perché bisogna essere schierati, ad esempio, per apprezzare una canzone, "America", in cui il cantante recita versi come “Sick Of America... You could have been good America / Could have been great, America”. E invece…

Fatte queste premesse, Scarsick è un disco che spiazza, che mischia le carte a ogni brano, che non si lascia afferrare immediatamente, pur in un contesto di suoni e produzione estremamente coeso. Generi diversi, compattati in una scaletta che alterna accelerazioni e rallentamenti, melodia e furia, riflessione e aggressione all’arma bianca.

Il basso liquido e i continui cambi di ritmo che punteggiano l’iniziale title track evocano la vena pazzoide dei Faith No More, aleggianti in quel continuo alternarsi di groove pesi, melodie accattivanti condite con vaghe spezie mediorientali. Sette minuti di delirio che sfociano nell’altrettanto lunga "Spitfall", in cui il cantato rap si accende di rabbia su chitarre distorte e fremiti elettronici (Rage Against The Machine), prima che tra le fiamme spunti un ritornello pop irresistibile. Pura follia.

Tutto appare schizoide nello svolgimento di una scaletta che non dà riferimenti, tanto che non stupisce affatto che il terzo brano, "Cribcaged", bellissimo peraltro, giochi con sonorità rock più americane e un’atmosfera cinematografica malinconica da groppo in gola, mentre Gildenlow manda bellamente a fanculo il sistema. La citata "America" parte con un riff metal che potrebbe essere rubato a uno dei pezzi più rabbiosi dei System Of A Down, ma è uno specchietto per le allodole, perché il brano, tra sali e scendi, si sviluppa attraverso un melodicissimo gusto progressive, carezzevole e solare (mentre l’invettiva è inesorabile).

"Disco Queen" è probabilmente il brano più eccentrico del lotto. In apparenza è un brano puramente disco, o meglio una parodia o una caricatura di tutto ciò che c'era di orribile nella disco music. Ma se lo si riascolta, si percepisce un secondo, più potente filo conduttore di puro prog-metal classico in stile Pain Of Salvation che si insinua nella trama e contribuisce a trasmetterne il messaggio. Geniale.

La seconda metà del disco si apre con "Kingdom Of Loss", una ballata spettacolare, in cui è possibile cogliere richiami al prog più classico (Pink Floyd, Marillion, etc.), mentre "Mrs Modern Mother Way", scivola via su un groove funky non indimenticabile e su una ritmica in leggero controtempo. Idiocracy si addentra nel territorio prog, mostrando la caratura tecnica di una band che gioca consapevolmente con il bizzarro, abbinando riff grunge, elettronica, ritmi dispari, falsetti stranianti, cori dal sapore chiesastico e un senso malevolo di tragedia incombente.

Chiudono la tensione parossistica di "Flame to The Mooth", serpeggiante e inquietante, decisamente il brano più furente del lotto, e i dieci minuti di "Enter Rain", brano che scivola mesto su una melodia malinconicissima, prima di accendere la miccia a un ritornello aggressivo, ma non memorabile come il resto della canzone.

Scarsick rappresenta l’ennesimo capitolo di una band che definire avventurosa è dir poco: un viaggio di un’ora in un tracciato fascinoso, in cui le curve, spesso a gomito, sono molto più numerose dei rettilinei. Una volta alla guida, però, è davvero difficile smettere di spingere l’auto verso l’orizzonte. Indefinito, ma ricco di suggestioni. 




Blackswan, venerdì 19/09/2025

mercoledì 17 settembre 2025

The Hives - The Hives Forever Forever The Hives (Play It Again, Sam, 2025)

 


Dopo Les Hives del 2012, la band svedese è sparita per ben undici anni, facendo pensare a tutti i fan che la loro straordinaria avventura fosse giunta al termine. Poi, all’improvviso Howlin’ Pelle Almquist e soci sono ricomparsi a sorpresa nel 2023 con The Death of Randy Fitzsimmons, album dedicato a quell’oscura figura che la band ha sempre presentato come fondatore e sesto membro occulto della line up.

Tumulato il caro estinto, i cinque ragazzacci originari di Fagersta, tornano con un nuovo album che, in contrapposizione alle celebrate esequie del lavoro precedente, s’intitola The Hives Forever Forever The Hives, come a voler esorcizzare la morte e ad augurare a se stessi vita eterna. Long Live Rock ‘n’ Roll, avrebbe cantato qualcuno. E che per gli Hives l’eternità artistica sia qualcosa in più di una semplice chimera, è dimostrato da questo nuovo, esplosivo lavoro, che vede la band più in forma che mai: un'esperienza di trentatre minuti straordinariamente fresca, divertente ed energica. Brevi, taglienti pezzi garage punk, che ci fanno (s)ballare dall'inizio alla fine.

Durata massima delle canzoni: tre minuti. Cioè, l’essenza di una musica che vive d’urgenza e spontaneità, in cui sangue e sudore si mischiano in una esiziale miscela che arroventa gli strumenti e percuote i nostri padiglioni auricolari. E’ lo spirito puro e selvaggio del rock‘n’roll, quello che un tempo pensavamo potesse cambiare il mondo con una mitragliata di riff e di cui oggi, i veterani Hives (sono in giro dal 1993) restano ancora gli interpreti più credibili.

Registrate a Stoccolma con il produttore di lunga data Pelle Gunnerfeldt, queste tredici canzoni sfrecciano con la consueta furia adrenalinica, con la stessa velocità vertiginosa e la consueta ironica eccentricità a cui i cinque cazzoni ci hanno sempre abituati. E come sempre, Howlin' Pelle Almqvist è in ottima forma. L'esuberante frontman è scatenato e incazzato, e canta con la bava alla bocca versi dai quali sembra dipenda la sua stessa esistenza.

Dopo una breve e ironica intro, che cita la quinta di Beethoven, la prima canzone vera e propria colpisce l’ascoltatore come un pugno in faccia. In "Enough Is Enough", il testo rabbioso di Almqvist (“Everyone’s a little fuckin’ bitch, and I am getting sick and tired of it”) si sposa con l'energia furiosa del brano e con un ritornello incalzante. "Hooray Hooray Hooray" sprinta rapidissimo su un groove irresistibile, è un altro tormentone esplosivo che raggiunge l'effetto di farci battere il piede e spingerci in un furioso headbanging.

Quella di The Hives Forever… è una musica che si vive fisicamente, orecchie attizzate, petto orgogliosamente in fuori e gambe e culo che non smettono di muoversi a ritmo. Così, consapevoli dello sforzo a cui sottopongono l’ascoltatore, la band piazza a metà disco un breve interludio, una sosta inaspettata necessaria a reintegrare i liquidi e controllare lo stato delle giunture.

D’altra parte, si è rischiato l’osso del collo a saltare come scimmie infoiate quando parte il ritornello di Bad Call, o a scapicollarsi con il bubblegum punk alla Ramones di Paint a Pictures o con l’hardcore spaccatutto della roca O.C.D.O.D.

A parte il citato intermezzo strumentale, il livello di adrenalina non cala mai, così mentre impazzano le sirene della polizia, il riff di Legalize Living (rubacchiato a Let’s Go To Bed dei Cure) introduce uno dei momenti più innodici dell’album, di quelli da pogare duro sotto il palco. E occhio agli effluvi surf di Born A Rebel, puro divertimento che vi spingerà a cavalcare un’onda fantasma nel salotto di casa.

Arriva così il magnifico trittico finale: They Can’t Hear The Music è una corsa a perdifiato gomito a gomito coi connazionali Hellacopters, Path of Most Resistance invita tutti sul dancefloor a far quattro salti, prima della bisboccia finale della title track, che chiude il disco con un’allegria alticcia e contagiosa.

Incredibile ma vero (è ironico, ovviamente), anche nel 2025 si può pubblicare un grande disco rock con le chitarre. Un disco che pesca dal passato, gli anni ’60 del garage e gli anni ’70 del punk, e fa sembrare quella musica antica attualissima. Roba da giovani, insomma. Almeno per quelli che sanno distinguere la grande musica dalle scorreggette fatte passare per capolavori. The Hives Forever Forever The Hives.

Voto: 9

Genere: Garage, Punk'n'Roll 




Blackswan, mercoledì 17/09/2025

martedì 16 settembre 2025

Pride (In The Name Of Love) - U2 (Island, 1984)

 


"One man come in the name of love

One man, he come and go

One man comes he to justify

One man to overthrow"

 

"Pride (In The Name Of Love)", seconda traccia dal quarto album in studio degli U2, The Unforgettable Fire (1984) è una delle canzoni più famose della band irlandese, ma anche una delle più sofferte in fase di gestazione.

Il brano, originariamente, aveva, infatti, come oggetto il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Bono aveva scritto un testo che condannava Reagan per quel suo orgoglio arrogante che aveva portato all'escalation nucleare, ma il testo non funzionava, il cantante non lo sentiva veramente suo. Quando la band, nel 1983, visitò una mostra dedicata al leader dei diritti civili, Martin Luther King, Jr, esposta al Chicago Peace Museum, ecco l’illuminazione: che senso aveva dare importanza a uno come Reagan, quando si poteva parlare di un monumento del pari di MLK?

Così, Bono, riprese in mano la penna e si mise all’opera, per rendere onore a un grande uomo che perse la propria vita per perseguire un’ideale di uguaglianza.

In "Pride", Bono parla di coloro che nel corso della storia sono morti perché hanno predicato l'uguaglianza di tutti gli uomini e praticato la non violenza come unico modo per raggiungere il loro obiettivo. MLK è il principale esempio di resistenza non violenta come unico modo per apportare cambiamenti nei diritti civili.

Nel testo, però, come consuetudine della band, ci sono anche riferimenti religiosi. La canzone parla, si, di "persone" singolari, ma fa riferimento anche a Cristo come uomo, finito sulla croce per la salvezza deli uomini. Tutte queste persone hanno vissuto la loro vita con orgoglio, ma non in modo vanitoso, semmai con la determinazione che si prova quando i pensieri e le azioni sono motivati dalla comprensione e piena consapevolezza della dignità e della sacralità di tutta la vita umana. Esattamente come Gesù.

La canzone, in tal senso è un omaggio ai martiri dei propri ideali e un promemoria per tutti gli altri. Racconta di un orgoglio interiore che dovrebbe essere comune a tutta l'umanità e di come questo orgoglio è davvero un'espressione dell'amore di Dio per tutte le sue creature.

Il verso del brano che si riferisce all'assassinio di Martin Luther King («Early morning, April 4/Shot rings out in the Memphis sky», "mattina presto, 4 aprile/si sente uno sparo nel cielo di Memphis") contiene, tuttavia, un errore storico, perché King fu assassinato sul balcone di un motel di Memphis nel pomeriggio (intorno alle ore 18). Bono ha in seguito cercato di correggere l'errore cantando "early evening" anziché "early morning" in molte versioni dal vivo.

La band ha avuto l'idea per questa canzone durante un soundcheck alle Hawaii, mentre si trovava in tour negli Stati Uniti, nel 1983. Il processo di registrazione fu, però, molto difficile, perché la canzone non riusciva mai a suonare come Brian Eno e Daniel Lanois, produttori di The Unforgettable Fire, avrebbero voluto.

Prima la provarono presso lo Slane Castle, dove si tennero le prime sessioni di registrazione e venne registrata parte del video che accompagna la canzone, poi in una sala prove e infine presso gli studi Windmill Lane a Dublino. Quello di Windmill Lane era uno studio convenzionale, un posto molto carino e ben attrezzato, ma che restituiva un suono di batteria pessimo. Lanois ebbe, allora, l’idea di far costruire alla crew degli U2 un muro di blocchi di cemento dietro la batteria, e solo allora si ottenne il suono voluto, grazie anche, bisogna dirlo, alla bravura e alla determinazione di Larry Mullen.

 


 

 

Blackswan, marttedì 16/09/2025

lunedì 15 settembre 2025

Halestorm - Everest (Atlantic, 2025)

 


Gli Halestorm sono una di quelle band che, fin dall’omonimo esordio del 2009, ha avuto le idee chiarissime su quella che doveva essere la propria identità artistica, sviluppata, nel corso degli anni, con invidiabile coerenza. Il quartetto originario della Pennsylvania ha sempre saputo esattamente cosa voleva essere, abbracciando una formula rifinita, disco dopo disco: hard rock rabbioso ma ricco di ritornelli, assoli di chitarra affilati, e una voce di ferro, quella di Lzzy Hale, che si è conquistata una posizione altissima nel novero delle migliori interpreti di genere.

Cinque album, pubblicati fino a oggi, uno più bello dell’altro, che hanno portato il gruppo a conquistare le arene, la presenza ai migliori festival hard/metal, fino a divenire band di supporto degli Iron Maiden durante il tour di quest’anno.  

Con il sesto disco, Everest, le cose iniziano esattamente come qualunque fan della band si sarebbe aspettato iniziassero. L'ultimo album degli Halestorm, Back From The Dead del 2022, li ha visti alle prese con il materiale più pesante e rabbioso della loro carriera, e il brano d'apertura di Everest, Fallen Star, riprende esattamente da dove si era interrotto il suo predecessore, con un riff metallico spacca ossa, un groove incandescente, e Lzzy che mostra ogni centimetro della sua potenza e della sua estensione.

Dopodiché, però, le cose iniziano a deviare dal copione. A produrre, al posto di Nick Raskulinecz (Alice In Chains, Foo Fighters, Mastodon, etc), c’è Re Mida Dave Cobb, che ha gettato nel cestino i demo delle canzoni già scritte, obbligando la band a misurarsi con un lavoro in continuum in sala di registrazione. Una metodologia che ha esaltato l’immediatezza dell’approccio, ha favorito lo svilupparsi di idee meno prevedibili rispetto ai consueti standard, e ha permesso al produttore di levigare un suono meno chirurgico in favore di uno decisamente più caldo.

Ne deriva che Everest è senza dubbio il lavoro più audace della band fino ad oggi, un disco nella cui scaletta compaiono alcuni dei brani più interessanti mai scritti finora, grazie proprio a uno scarto rispetto a una proposta da tempo consolidata. Così la labirintica traccia che dà il titolo all'album si propone come un brano dalla forma camaleontica, che passa da un'introduzione sinuosa e serpentina a un ritornello elaborato e malinconico, attraversato dal tocco quasi lugubre della chitarra solista di Joe Hottinger. È diverso da qualsiasi altro brano del loro catalogo, così come la furibonda "Watch Out!" un pugno in faccia scagliato a velocità thrash, mentre Lzzy percuote i padiglioni auricolari con uno screaming belluino.

E quando parte "K-I-L-L-I-N-G", se non fosse per la voce della frontwoman (che comunque ammicca a Serj Tankian), sembrerebbe di ascoltare una classica canzone dei System Of A Down, pura ferocia alternata a momenti di estasi malinconica. Una bomba.

Anche "Darkness Always Wins" sembra lontana dai consueti schemi. Il ritornello ciondolante è la quintessenza degli Halestorm, perfetto da cantare sotto il palco all’unisono con Lzzy: "Siamo tutti combattenti, che reggono i nostri accendini". Eppure, il viaggio per arrivarci è meno prevedibile, dispiegandosi lentamente ma inesorabilmente da uno spoglio tappeto di tastiere, prima che si scateni un crescendo di chitarre stridenti.

Sarebbe sbagliato, però, definire Everest come una sorta di grande svolta. Gli Halestorm saranno sempre gli Halestorm, e ogni traccia è immediatamente riconoscibile come opera dei suoi creatori. Eppure è evidente la volontà di aggiungere nuove spezie a piatti che andavano già benissimo così, ma che adesso sono in grado di conquistare nuovi palati.

In scaletta, poi, come di consueto, non mancano le ballate, nello specifico, tutte di livello: mentre il pianoforte sgocciola la melodia di "Like a Woman Can", Lzzy si trasforma in Beth Hart, fremendo di sanguigna passione, per poi ammantarsi di tinte cupe nelle trame gotiche di "Gather The Lambs", che piazza un ritornello irresistibile e un paio di assoli da brividi. L'album si chiude con "How Will You Remember Me?", una ballata elettrica 100% Halestorm, un po’ prevedibile, ma piacevolissima.

Con Everest, è chiaro che la band pur senza snaturarsi, si è spinta oltre i propri confini artistici, dando vita a quello che, fino a oggi, possiamo definire il suo album più eclettico di sempre.

Voto: 8

Genere: Hard Rock, Rock

 


 


Blackswan, martedì 15/09/2025

giovedì 11 settembre 2025

Robbie Morrison - Sull'Orlo Del Baratro (Fazi, 2025)

 


Un serial killer che non si ferma. Un detective che non si arrende. 1932. La città di Glasgow, in piena Depressione, è lacerata da tensioni sociali e religiose, infestata dalla corruzione e ostaggio di feroci gang armate di mazze e rasoi che dettano legge nei quartieri e scatenano violente risse per strada. La polizia cerca di mantenere l'ordine come può, guidata dal nuovo capo Percy Sillitoe, inglese tutto d'un pezzo fermamente deciso a contrastare la criminalità con pugno di ferro. Quando il genero di uno dei costruttori navali più ricchi della città viene trovato nelle acque del fiume Clyde con la gola tagliata, il caso viene affidato a Jimmy Dreghorn, primo detective cattolico in forza alla polizia di Glasgow, e al suo partner Archie McDaid, corpulento e serafico uomo delle Highlands. Le indagini si riveleranno più pericolose del previsto e Dreghorn dovrà fare i conti con un passato che credeva di essersi lasciato alle spalle e che torna a bussare prepotentemente alla sua porta...

Quello di Robbie Morrison è un nome noto a chi ha dimestichezza con il mondo dei fumetti, dal momento che è uno dei collaboratori della storica rivista 2000 AD, per la quale ha co-creato con Simon Fraser la celebre saga Nikolai Dante, vincitrice dell’Eagle Award nel 2002, ed è stato inoltre sceneggiatore per Batman, Dr. Who e Judge Dredd. Nel 2021 ha esordito anche come romanziere proprio con questo Sull’Orlo del Baratro, romanzo pluripremiato che, finalmente, grazie a Fazi Editore, è arrivato quest’anno nelle librerie italiane.

Quando il genero di uno dei costruttori navali più ricchi della città viene trovato nelle acque del fiume Clyde con la gola tagliata, le indagini vengono affidate a Jimmy Dreghorn, detective schivo e tormentato dai ricordi di guerra, e al suo partner Archie McDaid, un gigante buono proveniente dalle Highlands. Le indagini si riveleranno più pericolose del previsto e Dreghorn dovrà fare i conti con un passato che credeva di essersi lasciato alle spalle, e che invece riaffiora con prepotenza, riaccendo in lui l’antica fiamma per un amore impossibile.

Costruito su l’alternarsi fra tempo presente e flashback che raccontano le vicissitudini del protagonista, prima di diventare poliziotto, Sull’Orlo Del Baratro, è un avvincente lettura in cui convivono romanzo storico e noir.

Le indagini di Dreghorn si svolgono in una Glasgow livida, fumosa, maleodorante di whisky scadente e afflitta dalla depressione e dalla povertà, in cui gli ultimi si trovano schiacciati nella morsa di un’alta borghesia e di una nobiltà insensibili alle istanze  dei diseredati, e da infinite bande di teppisti e malavitosi, che spadroneggiano nelle strade, portando violenza e paura. Morrison racconta con dovizia di particolari questo periodo storico (siamo nel 1932), portando alla luce, con la meticolosità dello studioso (e l’affabulazione del romanziere), numerosi fatti storici del tutto ignoti al lettore italiano.

In questa cornice cupa, Dreghorn procede nelle indagini, nonostante mille difficoltà, con l’intransigenza e la caparbietà del poliziotto onesto e incorruttibile, fino a scoprire gli ingranaggi di un torbido sistema, che risulterà manovrato dal più crudele degli assassini.

Il romanzo è scritto benissimo, grazie a una prosa dal sapore classico, che abbina introspezione psicologica, un coinvolgente respiro descrittivo e gli elementi più emozionantii del genere giallo. Il ritmo non è certo forsennato, e sull’azione (che accelera solo nel finale) prevale l’acume investigativo di due personaggi, Dreghorn e McDaid, che si fanno amare incondizionatamente fin dalle prime pagine. Per chi ama il thriller con una marcia in più.

 

Blackswan, giovedì 11/09/2025