mercoledì 6 novembre 2024

Wunderhorse - Midas (Communion Records, 2024)

 


Quando nel 2022 esce Cub, opera prima targata Wunderhorse, in molti avevano alzato il sopracciglio per la sorpresa: il ventiquattrenne Jason Slater, reduce da una stagione frenetica ed esaltante con i Dead Pretties, tornava a dare lustro a un certo suono anni ’90, imparentato con il rock alternativo e il grunge. Un’operazione di recupero suggestiva e tutt’altro che sciatta, che aveva esaltato la proposta, portando il giovane musicista agli onori delle cronache (indie), laddove, forse, nemmeno lui pensava di poter arrivare.

Quello era un progetto prevalente solista, ambizioso, certo, ma in una fase ancora embrionica, per quanto suggestiva. Questo nuovo Midas, pur partendo dalla medesima consapevolezza e da un inesausto amore per gli anni ’90, alza ulteriormente il livello dell’asticella, affinando le idee del primo album e innalzandole a una forma più compiuta, per quanto, comunque, figlie di un’espressività diretta, grezza e senza fronzoli.   

Registrato in Minnesota presso i leggendari studi Pachyderm (Nirvana, PJ Harvey), Midas è il primo album dei Wunderhorse come band fatta e finita. Al fianco di Slater, infatti, ci sono Harry Fowler (chitarra), Jamie Staples (batteria) e Pete Woodin (basso), un quartetto che sembra nato anni fa, tanta ed evidente è l’unità d’intenti. Così, dopo il notevole e inaspettato successo di Cub, che ha spinto il gruppo in turnèe a fianco di artisti del calibro di Fontaines D.C. Pixies e Foals, i Wunderhorse sono diventati un tutt’uno e non solo l’espressione del loro leader, circostanza che ha portato a una visione più ampia, in qualche modo più rotonda.

Voce strascicata e ruvida, sferzate elettriche e riff uncinanti, sono il contorno per melodie scartavetrate ed emozionanti.

La title track apre il disco con una raffica di progressioni di accordi e un ritornello abbaiato ma efficace. Rapidi, disadorni e diretti, Slater e i suoi sodali posseggono una straordinaria efficacia nell’asciugare il suono da ogni orpello e lasciare che la scarna struttura ossea delle canzoni faccia il lavoro più importante: cogliere l’attimo col fascino distorto della presa diretta, senza che alcun lavoro di post produzione venga a inficiare la veridicità della proposta, accentuata da testi appassionati e taglienti.

"Silver", ennesimo singolo, è un’altra canzone che arriva subito al cuore con una splendida melodia, mentre in "Rain" la band crea una sorta di vortice intorno alla voce del Slater, che canta “Do you feel the rain?” con una tensione che brilla nella polvere e nella sporcizia che la canzone solleva. 

Midas è un album che, prevalentemente, racchiude al suo interno un senso di vulnerabilità, come se questa fosse un parto oscuro della mente di Slater. Una vulnerabilità sia in termini di suono, spesso sfilacciato e claudicante, seppur nascosto da chitarre aggressive, che nei testi, come avviene, ad esempio, in "Emily", punto di collisione fra Nirvana e Fontaines Dc (e i Nirvana tornano, quasi clonati, nella splendida "Arizona"), quando il frontman canta “All'interno di questo macchinario, Tutti sono pazzi, Non io, forse" o in July con quell’affermazione tranchant che recita “Sono pronto a morire”. Slater è abile nel mettere in luce la propria anima anche in un breve periodo di parole, un talento che è cresciuto incredibilmente quando la band ha trovato la sua forma definitiva.

In un mondo in cui apparentemente il pregio è less is more, i Wunderhorse sono un richiamo al passato che evoca magnificamente il meglio della cultura rock degli anni ’90, asciugandolo da inutili fronzoli e portando alla luce l’essenza di un suono. Tutto è ovviamente derivativo, ma nulla fa pensare a una blanda replica di una gloria che fu. Le canzoni sono asciutte, scelgono il rumore per nascondere la melodia, e non hanno bisogno di altro, se non della sincerità, per fare il pieno di consensi. Giocano quasi a nascondersi, ad avvolgere la loro espressività spartana in un anfratto di clandestinità. E se i riferimenti della loro proposta emergono in modo chiaro, quasi ineluttabile, non è la nostalgia a vincere la partita, ma il piacere di ascoltare canzoni che sanno evocare emozioni, forse risapute, ma comunque genuine.

Voto: 7,5

Genere: Rock, Alternative, Grunge

 


 

 

Blackswan, mercoledì 06/11/2024

martedì 5 novembre 2024

Myles Kennedy - The Art Of Letting Go (Napalm Records, 2024)

 


Il senso di Myles Kennedy per il rock. Così potremmo succintamente definire il terzo album solista del cantante degli Alter Bridge. Se Year Of The Tiger (2018) era uno sfogo acustico dopo una carriera prestata all’elettricità, e The Idles Of March (2021), uscito in piena pandemia, lambiva territori contigui al southern, questo nuovo The Art Of Letting Go vede Kennedy alle prese con quello che sa far meglio: suonare rock e suonarlo potente e senza fronzoli.

La mano, in zona produzione, è quella del fidato Michael “Elvis “ Basquette, mentre a fianco del cantante e chitarrista si allineano due musicisti con i contro zebedei, Zia Uddin alla batteria e Tim Tournier al basso.  Il risultato è un disco diretto e immediato, semplice ma non privo di stratificazioni, trainato da un’energia debordante che dà lustro alla solita, ineguagliabile voce, al tiro degli strumenti, tanto tecnico quanto grintoso, e a una produzione capace di rendere super moderno quel suono da power trio, le cui radici proliferano in un terreno vecchio di decenni.

Ogni canzone gronda pathos ed è spinta da una tensione quasi palpabile, figlia di quel senso di libertà che si prova quando si fa ciò che si ama, senza vincoli, senza nessuno a cui dover rendere conto. E’ rock, puro e semplice, che nasce solo ed esclusivamente dal piacere di suonarlo, sprizzando sudore, appiccando incendi, strattonando l’ascoltare verso una purezza che manca a molta musica che si ascolta oggi.

Senza distogliere completamente lo sguardo dall’inevitabile retroterra blues ("Saving Face"), The Art Of Letting Go è un disco che picchia duro, e che si muove sui quei terreni che Kennedy frequenta a capo degli Alter Bridge o come spalla di Slash. Non mancano, ovviamente, momenti più rilassati, in cui è la melodia soprattutto ad accarezzare lo orecchie, come avviene nella malinconica "Eternal Lullaby", un episodio che rallenta il passo di un disco che, per converso, corre selvaggio, tenendo un ritmo impetuoso che non fa prigionieri.

Il piatto forte, è quasi banale sottolinearlo, è la splendida voce di Kennedy, il cui timbro è tra i più immediatamente riconoscibili del panorama rock, e la sua performance che, come di consueto, lascia a bocca aperta, per tecnica, estensione, fantasia e per quella innata versatilità, grazie alla quale, anche nello stesso brano, può contemporaneamente accarezzare e scuotere selvaggiamente l’ascoltatore.

Ci sono, però, anche le canzoni, quasi tutte di livello, a partire da "Behind The Veil", che inizia morbidissima e poi parte in derapata a cento all’ora, fondendo echi settantiani e piglio moderno, l’ariosa e trascinante "Miss You When You’re Gone", un brano che sembra scritto apposta per essere ascoltato in macchina, i finestrini abbassati e un vento di elettricità nei capelli, la scalpitante "Mr.Downside" o la galoppante "Nothing More To Gain", che tira dritta come un fuso verso un ritornello uncinante.

Senza nulla togliere ai due precedenti album solisti, entrambi decisamente buoni, The Art Of Letting Go è il disco migliore del cantante originario di Boston, quello che suona più Myles Kennedy di tutti, quello che ne conferma lo status di autentica potenza in ambito hard rock. Alzate il volume e lasciatevi travolgere da questa ondata di vibrante elettricità: pochi dischi rock, usciti quest’anno, sono all’altezza di cotanta potenza di fuoco.

Voto: 8

Genere: Rock, Hard Rock

 


 

 

Blackswan, martedì 05/11/2024

lunedì 4 novembre 2024

Pictures Of You - The Cure (Fiction, 1989)

 


Quando nel marzo del 1990, quasi un anno dopo l’uscita del disco, viene pubblicato Pictures Of You, quarto e ultimo singolo estratto dall'ottavo album in studio dei Cure, Disintegration, la band inglese ha già venduto, solo negli Stati Uniti, due milioni di copie, e, per la prima volta in assoluto, ha conquistato anche la top ten italiana, portandosi a casa il disco d’oro.

Non male per un disco cupo e depresso, che a fronte di un’atmosfera decisamente crepuscolare, inanella anche una serie spettacolare di melodie, incastonate in gioielli come Lovesong, Lullaby e, appunto, Pictures Of You. La quale è un’emozionante canzone che parla d’amore, attraverso quel toccante lirismo a cui spesso Robert Smith ha fatto ricorso per toccare le corde del cuore di chi ascolta.

Pictures Of You, però, è una canzone mesta, che fa i conti con un rapporto collassato, in cui il sentimento vive ancora, ma solo nelle fotografie di lei e nello struggente ricordo che il cantante ha della sua donna.

 

Ho guardato queste tue foto per così tanto tempo

Che quasi credo che siano reali

Ho vissuto così a lungo con le mie foto di te

Che quasi credo che le immagini siano tutto ciò che riesco a sentire” 

 

Quasi un’ossessione, un dolore che non si rimargina, un lutto che l’amante abbandonato non può e, probabilmente, non vuole rielaborare, abbandonandosi a quella voluptas dolendi, che è il carburante nobile che alimenta mille malinconie. Un continuo, esiziale rimuginare su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, sugli sbagli commessi, le parole non trovate per esprimere i propri sentimenti e salvare il rapporto. 

 

“Se solo avessi pensato alle parole giuste

Avrei potuto tenermi stretto il tuo cuore

Se solo avessi pensato alle parole giuste

Non farei a pezzi tutte le mie foto di te!"

 

Ascoltando canzoni come Pictures Of You, si potrebbe pensare che Smith vivesse in un perpetuo stato depressivo a causa di relazioni fallimentari: e invece, strano a dirsi, era tutto il contrario. Il cantante degli Smith, infatti, è stato molto fortunato in amore, trovando la sua anima gemella, Mary Poole, quando era solo un adolescente. I due, poi, si sono sposati nel 1988 e continuano a stare insieme.

I testi di Smith sull’amore sono, semmai, sempre stati il frutto della sua capacità di osservazione della società e dei suoi interessi letterari. Pictures Of You, infatti, sarebbe stata ispirata a un saggio di Myra Poleo, intitolato The Dark Power of Ritual Pictures. Smith sostenne che dopo averlo letto, distrusse le sue vecchie foto personali e molti dei suoi video amatoriali, nel tentativo di cancellare il suo passato per una nuova rinascita. Arrivò, però, a pentirsi della decisione pochi giorni dopo, e il dolore per la sciocchezza fatta alimentò il mood depresso della canzone.

Smith, tuttavia, ha fornito resoconti contrastanti su quali eventi abbiano effettivamente ispirato la canzone. Secondo quanto da lui stesso dichiarato nel corso di alcune interviste, l'ispirazione per la composizione del brano venne a seguito dello scoppio di un incendio a casa sua. Dopo quell'episodio, Smith, mentre passeggiava tra i resti della casa, trovò il proprio portafogli che conteneva delle foto di sua moglie Mary (e, per la cronaca, la copertina del singolo è proprio una di queste fotografie).

Sebbene Smith fosse fortemente contrario ad acconsentire che la sua musica finisse in spot pubblicitari, permise a malincuore che Pictures Of You venisse utilizzata in una pubblicità della Hewlett-Packard del 2004, che promuoveva una fotocamera digitale. Era un male necessario, perché la band aveva bisogno di fondi per mantenere il controllo del proprio catalogo, mentre il loro contratto di lunga data con la Polydor (tramite Fiction Records) stava per concludersi. Lo stesso cantante durante un’intervista a NME spiegò il motivo di quella scelta: "Sono totalmente contrario alla musica nelle pubblicità, mi ha ucciso anche solo accettarlo, ma era l'unico modo. I soldi generati da quella pubblicità mi hanno permesso di controllare il nostro vecchio catalogo, altrimenti sarebbe stato come ipotecare la band."

 


 

 

Blackswan, lunedì 04/10/2024

giovedì 31 ottobre 2024

40 Watt Sun - Little Weight (Fisher's Folly, 2024)

 


Tra le centinaia di ascolti annuali, quelli, cioè, di un fruitore attivo di musica, quanti sono i dischi che restano davvero, quanti quelli che possiamo dire essere diventati “nostri” e in grado quindi di accompagnarci verso il futuro, diventando una compagnia abituale dei nostri giorni?

Non molti, credo. Però, nel mare magnum delle nostre scelte, talvolta spunta il gioiellino, il disco che per bellezza e affinità, ci fa innamorare perdutamente e ci tiene legati alle sue canzoni. Per sempre. Sono quei dischi, come Little Weight dei britannici 40 Watt Sun, che non solo danno in regalo emozioni e struggimenti, ma chiedono in cambio assoluta devozione, pretendono dedizione, per poter entrare in pianta stabile nel novero dei ricordi musicali più importanti della nostra esistenza.

Figli meticci dei leggendari Warning, una delle band più iconiche e influenti del panorama doom metal inglese, i 40 Watt Sun, creatura fortemente voluta dal cantante, chitarrista e songwriter Patrick Walker, giungono al loro quarto album in studio, dimostrando per l’ennesima volta un’ispirazione di livello altissimo. Sia chiaro fin da subito, però: il doom è un retaggio del passato, che vive, semmai, nel passo lento di queste sei canzoni e nel minutaggio chilometrico di brani, il più corto dei quali è di sei minuti. Di metal, qui, non c’è nemmeno l’ombra, e il disco si muove in territori contigui allo slow core.

Se il precedente Perfect Light (2022) era un album prevalentemente acustico, le cui trame fragili si intrecciavano al vapore di nebbie autunnali e allo sgocciolio insistente della pioggia, Little Weight abbraccia nuovamente quel mood, rinforzandolo appena con un surplus di elettricità. A dispetto del suo passato, della pesantezza monolitica del doom, Walker sembra, invece, aver mandato a memoria la lezione di Mark Kozelek e di Jason Molina, la sua, a prescindere dalla veste formale, è una musica sofferta, malinconica, crepuscolare. Ma non solo.

D’altra parte, per concepire l’album, Walker si è ritirato in un cottage isolato, al largo della costa della Cornovaglia. Trascorreva le mattine camminando lungo sentieri costieri e spiagge deserte, mentre le sue giornate trascorrevano in isolate e intense sessioni di scrittura. Da lì si è imbarcato per l'isola di Gottland, in Svezia, dove si è riunito con il batterista e partner di lunga data, Andrew Prestige, per arricchire gli arrangiamenti, sempre in costante isolamento. Alla fine, alla coppia si è unito anche il bassista Roland Scriver in una casa nel Peak District (tra Manchester e Sheffield) dove il trio ha perfezionato le canzoni prima di andare in studio.

Little Weight è, quindi, un disco figlio della solitudine e del silenzio, le cui note riverberano anche la drammatica bellezza delle montagne e le distese silenziose e contemplative di quelle coste, ove ogni canzone è stata concepita. Durante tutta la sua carriera, il musicista inglese ha scavato nelle profondità della condizione umana per creare nenie poetiche intrise di malinconia, disperazione e dolore. In Little Weight, tuttavia, sembra che la disperazione si sia attenuata, e sebbene il dolore si può ancora percepire sottotraccia, le emozioni principali che Walker ha scelto di esplorare questa volta sono speranza, amore e ottimismo.

Ciò è evidente fin dalla prima traccia dell’album, "Pour Your Love". La canzone è costruita attorno a una progressione di accordi malinconica che inonda l'ascoltatore come le onde che lambiscono le coste della Cornovaglia, ma il testo sembra indicare che dopo tanto dolore, una luce, là in fondo, può portare un briciolo di serenità. "Solleva la vergogna e la sofferenza, lascia che tutto il tuo passato venga risolto, per riposare nel mio silenzio, dove tengo il mio corpo legato, e riversa il tuo amore su di me, attraverso i muri rotti che mi circondano" canta Walker, con quel timbro magnetico, nelle cui sfumature puoi incontrare Michael Stipe e, talvolta, Eddie Vedder. Walker, allora, si offre all’ascoltatore come lenimento al dolore, offre la propria mano come gesto di condivisione ed empatia. Il grande peso dell’esistenza, quel fardello che chiamiamo male di vivere, diventa un peso più gestibile: la natura, l’accecante e selvaggia bellezza che ci circonda, ma della quale spesso non riusciamo nemmeno ad accorgerci, è pronta a mitigare il dolore, ad asciugarci le lacrime, a rimetterci in carreggiata. La natura, la musica, l’amore sono a portata di mano e pronte a salvarci la vita, e se anche il nostro cuore continua a grondare sangue, là, in fondo al tunnel, una luce indica la strada.

Le sei canzoni che compongono Little Weight, per un complessivo minutaggio di tre quarti d’ora, sono esattamente così: avviluppano l’ascoltatore nella malinconia, condividono la mestizia attraverso il loro trasporto empatico, e poi, all’improvviso, quando la contrizione del cuore è totale, ecco che virano improvvisamente verso melodie di un chiarore abbagliante, che sono il motore di ogni brano, ma anche una carezza, un sorriso, un invito ad alzare la testa e a non mollare. La gioia, o quanto meno la serenità, sono a portata di mano, basta solo allungarla e afferrarle.

"Half A World Away" inizia con accordi cupi che risuonano da una chitarra pulita, su un ritmo di batteria minimal, E’ puro dolore, prima che raggi di speranza trafiggano l'oscurità, mentre il ritornello irrompa, consolatorio e dolcissimo.

Abbandonata la pesantezza doom dei Warning, le chitarre di Walker sono imbevute di fuzz quanto basta per dare gravità alle canzoni, pur mantenendo un suono limpido, che consente alla voce di risplendere. La band è maestra nell'usare lo spazio e la dinamica per creare atmosfera, sfruttando tanto le note che non suona quanto quelle che suona, in modo che i brani risultino più stratificati rispetto al precedente Perfect Light, rivelando a ogni successivo ascolto nuovi particolari, che fanno crescere la bellezza delle composizioni.

Oscurità e luce si alternano anche nella bellezza trascendente di "Astoria", la linea di basso calda, l’intreccio fra chitarra elettrica e acustica, e la voce arresa di Walker che canta, quasi sul punto di rompersi in un singhiozzo, “Tutta la mia vita sembrava come se le luci si spegnessero sull'acqua, note solitarie di chiarezza, ma non brillavano", rappresentano uno dei vertici di un disco che non ha un solo attimo che non sia necessario. La bellezza è un tutt’uno con la fragilità e la vulnerabilità, e quando si ascolta la semplice e disarmante melodia di "Feathers", si ha l’impressione che la canzone si possa sgretolare fra le mani, esattamente come il nostro cuore, strattonato da chitarre sfocate, accarezzato da un ritornello dall’imprimatur divino.

E se "Closer To Life" possiede un tocco di languido romanticismo ("Senti il tuo battito contro la mia pelle, senti la speranza che mi trattiene"), la conclusiva, meravigliosa "The Undivided Truth" abbina tensione post rock e distorsioni che evocano Neil Young, in un lungo e struggente viaggio che chiude il disco con il groppo in gola di calde e definitive lacrime.

The Little Weight è un disco da ascoltare in perfetta solitudine, in cuffia, camminando nella caligine affranta di una mattina di novembre, o di notte, in macchina, quando la solitudine afferra la gola, e le stelle guardano da lassù, mute spettatrici dei nostri tormenti interiori. Un disco per tutti coloro il cui cuore batte più lentamente, e cercano, nell’intimo dei propri pensieri, il senso di questo grande/piccolo peso, che tutti chiamiamo vita.

Voto: 9

Genere: Slow Core

 


 


Blackswan, giovedì 31/10/2024

martedì 29 ottobre 2024

Lost In Hollywood - System Of A Down (American, Columbia, 2005)


 

Quando nel 2005 esce Mezmerize (anticipando di pochi mesi l’uscita del successivo Hypnotize) i System Of A Down definiscono la svolta verso un suono meno aggressivo rispetto agli esordi e decisamente più melodico, che rende la loro proposta più orecchiabile e fruibile da un pubblico più ampio. Daron Malakian, il chitarrista della band, si prende, poi, più spazio sia come cantante (alternandosi davanti al microfono al frontman Serj Tankian) che come compositore di testi (Soldier Side - Intro, Radio/Video, Violent Pornography e Old School Hollywood).

Sono in parte sue anche le liriche di Lost In Hollywood, uno dei brani più rappresentativi dell’album, al pari singolo principale, B.Y.O.B, scritta per protestare contro la guerra in Iraq.

La canzone, come recita il titolo, ha come oggetto Hollywood, il luogo in cui il chitarrista era cresciuto da ragazzo e dove, in seguito, era andato a vivere. Lost in Hollywood suona come un avvertimento, un monito a chiunque decidesse di cercare fortuna in questo rutilante quartiere, la cui iconografia ammicca al successo, alla bella vita, alle facili occasioni di carriera. Nel testo Malakian avverte un ipotetico amico di stare lontano da Hollywood, un luogo in cui tutti mentono e di cui non ti puoi assolutamente fidare.

 

Quelle strade viziose sono piene di randagi

Non saresti mai dovuto andare a Hollywood…

Dicono che sei il migliore che abbiano mai visto

Non avresti mai dovuto fidarti di Hollywood” 

 

L’amico, però, non sente ragioni, non accetta i consigli del chitarrista e si reca ugualmente a Hollywood, per poi scoprire sulla sua pelle che quel luogo trabocca di dolore, di delusione e di sogni infranti. Anche Malakian ha provato cosa significa farsi illusioni e sperare, cercare, in quella parte della città, falsa e traditrice, un modo per emergere, per accarezzare fama e denaro.

 

Ti prendono e ti creano

Ti guardano in modi disgustosi

Non avresti mai dovuto fidarti di Hollywood

Ero in piedi sul muro e mi sentivo alto tre metri

 

Hollywood era particolarmente squallida negli anni '80, quando Malakian cresceva lì vicino, tra Vine Street e Santa Monica Boulevard. Quando, successivamente, scrisse questa canzone il quartiere si era data una bella ripulita, ma era ancora un luogo in cui molti aspiranti attori e artisti provavano il pane duro del fallimento, tritati da un feroce sistema usa e getta, a cui solo pochi eletti riuscivano a sopravvivere.

D’altra parte, tutti i membri dei System Of A Down erano cresciuti a Hollywood, intessendo, nel tempo, con quel quartiere, un rapporto di amore-odio. È lì che riuscirono a costruire una base di fan, suonando nei numerosi club della vibrante scena musicale, ma per quelli meno fortunati (e magari non meno talentuosi), Hollywood è stata impietosa. I System Of A Down hanno spesso sottolineato che esiste un lato oscuro della città, tenuto nascosto dietro le luci scintillanti, e non è un caso che una loro famosissima canzone del 2001, Toxicity (che dà anche il nome all’omonimo album) esplori proprio questi temi, implicando che quel luogo sia una "città tossica".

 Malakian, però, non si limita a dare un avvertimento, e nel corso della canzone sputa veleno su quanti non accettano il consiglio e, stoltamente, vanno a tutta velocità a schiantare le proprie illusioni contro il muro di una realtà crudele. Molti di coloro, infatti, che eccellono nelle proprie comunità, presumono di poter farcela ovunque perché non hanno mai sperimentato il vero fallimento. Non si rendono conto di essere piccoli pesci in uno stagno enorme e pericoloso e, di fronte alla vera competizione, finiscono per essere sopraffatti. Eppure, insistono, stupidamente, a vendere l’anima a Hollywood per un briciolo di successo. 

 

Tutte voi puttane alzate le mani in aria

E salutate come se non vi importasse

Le persone false vengono a pregare

Guardali, implorano tutti di restare

Tutti voi vermi che fumate cicche sul Santa Monica Boulevard

Tutti voi vermi che fumate sigarette là fuori sul Sunset Boulevard”

 

Lost In Hollywood non fu mai pubblicata come singolo, ma nel tempo divenne una delle canzoni più famose del repertorio dei System Of A Down e una delle più suonate dal vivo. Per la cronaca, appena sei mesi dopo l'uscita di Mezmerize, segui un altro album, il già citato Hypnotize, ed entrambi, incredibilmente, arrivarono al primo posto delle classifiche americane.

 


 

 

Blackswan, martedì 29/10/2024