Nemo propheta in patria, recita un antico brocardo ispirato al Vangelo di Luca. Una frase, questa, che si adatta perfettamente alla parabola artistica dei Bush. Formatasi a Londra nel 1992, la band capitanata dal vocalist Gavin Rossdale, infatti, non è mai riuscita a sfondare nei confini della nativa Inghilterra, mentre negli Stati Uniti il loro album d’esordio, Sixteen Stone, nel giro di qualche mese, grazie al singolo Everything Zen, che impazzava su MTV e nella programmazione di tutte le radio rock, vendette un botto, tanto da trasformare la band da gruppo di nicchia a fenomeno delle arene.
In Gran Bretagna, invece, l’esordio dei Bush non supera la quarantaduesima posizione in classifica e, oltretutto, è massacrato impietosamente dalla critica. I motivi del fiasco inglese sono gli stessi che spingono Sixteen Stone a un clamoroso successo negli States: il suono è troppo americano per le orecchie degli ascoltatori albionici, a cui del post grunge, che invece furoreggia in America, non può fregare di meno. La band, inoltre, sembra un clone dei Nirvana, il cui suono è rielaborato, però, in chiave più pop e radiofonica, mentre Gavin Rossdale, frontman tanto bello e quanto sensuale, è poco credibile nei panni del nuovo martire della musica alternativa, quantunque ce la metta tutta a esibire le stigmate di un disperato nichilismo.
Necessita, dunque, un cambio di rotta, un quid che dia credibilità al progetto della band e possa conquistare anche il gusto degli ascoltatori inglesi. La band, allora, arruola Steve Albini, che qualche anno prima aveva prodotto anche In Utero dei Nirvana: se l’idea è quella di clonare il sound che ha reso leggendari Kurt Cobain e soci, meglio attingere alla fonte, e servirsi di chi, quel suono, ha contribuito a forgiare.
Nel corso della sua carriera musicale, poi, Albini si era guadagnato la nomea di puritano sarcastico, il più accanito sostenitore dell'etica fai-da-te e anti-corporativa del punk. Ovviamente, il fatto che abbia scelto di lavorare con una band così palesemente derivativa fece storcere il naso a molti, sebbene il produttore aveva sempre sostenuto che avrebbe registrato "qualsiasi cazzone che entrasse dalla porta". In buona sostanza, i Bush cercarono di comprarsi credibilità rimestando nel torbido di una produzione che si sapeva sarebbe stata sporca e cattiva.
Nasce così Razorblade Suitcase, un disco che, al netto delle belle canzoni (e di belle canzoni ne contiene qualcuna) suona cupo e drammatico, esattamente come sarebbe suonato un nuovo disco dei Nirvana, band che resta la maggior fonte d’ispirazione dei Bush.
La scommessa, in un certo qual modo, è vinta: negli Stati Uniti il disco balza al primo posto delle classifiche, ma vende meno del suo predecessore, mentre in Inghilterra raggiunge addirittura la quarta posizione, risultato mai più replicato dal gruppo londinese.
Nel caso in cui ci fossero dubbi sulle intenzioni della band, Razorblade Suitcase si apre con il suono di un cane ringhiante all'inizio di "Personal Holloway". Tuttavia, nonostante tutta la sua crudezza esposta (sembra di essere seduti nella sala prove insieme ai Bush) l'album è molto meno duro di quello che si sarebbe potuto pensare. Mentre Sixteen Stone contiene brani aggressivi e dal ritmo più sostenuto come "Everything Zen" e "Machinehead", Razorblade Suitcase predilige un suono più lento e malinconico. In scaletta, ci sono solo tre veri e propri pezzi rock, "Personal Holloway", "Swallowed" (l'unica grande hit dell'album) e "History".
I restanti brani (ad eccezione di "Straight No Chaser", una ballata pop gemella della hit "Glycerine") tendono a crogiolarsi in inizi lenti e ariosi, voce e chitarre sommesse, ritmica altrettanto contenuta.
Se il pubblico apprezza, la critica non prede occasione per picchiare duro: Rolling Stone definì i Bush "i Bon Jovi del grunge" e Razorblade Suitcase il peggior album del 1996, mentre il celebre critico DeRogatis apostrofò le tredici canzoni in scaletta come “completamente insipide e senza vita”.
Poco importa. La band continuò a fare concerti senza sosta, rimanendo in tour per 14 mesi per promuovere l'album (incluse alcune date con i Jesus Lizard come spalla). Uno sforzo immane che, però, diede i suoi frutti: Razorblade Suitcase vendette 6 milioni di copie solo negli Stati Uniti, e rese i Bush una delle rock band di maggior successo dell'epoca.
Blackswan, martedì 19/08/2025