mercoledì 26 febbraio 2025

The Hellacopters - Overdriver (Nuclear Blast, 2025)

 


Tra il 1994 e il loro scioglimento, avvenuto nel 2008, gli Hellacopters hanno prodotto sette scalmanati album di rock and roll con influenze punk, facendo propria l’eredità di band come MC5, New York Dolls, Ramones e Motörhead. Dopo essersi riuniti, nel 2016, per suonare in un tour dedicato al 20° anniversario del loro album di debutto, Supershitty To The Max!, da allora, la band svedese ha calcato con continuità il circuito dei festival, almeno fino a quando è stato possibile (vedi covid), e finalmente, nel 2021, ha annunciato di aver raggiunto un accordo con l'etichetta discografica tedesca Nuclear Blast e di essere pronta a tornare sulle scene con un nuovo disco di materiale originale.

Nel 2022, esce Eyes Of Oblivion, primo passo della leggendaria band svedese nel futuro, un disco che sfoderava il consueto armamentario di rock'n'roll e spavalderia, in dieci canzoni per trentacinque minuti di assalti all'arma bianca, esuberanza innodica e melodie scartavetrate dal graffio di chitarre in acido.

A distanza di tre anni, questo nuovo Overdriver conferma l’ottimo stato di salute del quartetto capitanato dal cantante Nicke Andersson e dal chitarrista Dregen, quantunque l’approccio alla composizione si è fatto meno ruvido e l’urgenza che animava i precedenti lavori si è attenuata a favore di un surplus melodico, che talvolta rasenta il mainstream, e di un pizzico di malinconia, che si coglie nella seconda parte dell’album, decisamente meno battagliera della prima.

Nulla, tuttavia, che snaturi il suono di una band che ha fatto dell’aggressività la sua lancia più acuminata: quando il disco parte a manetta con "Token Apologies", è chiaro fin da subito chi sono gli Hellacopters. Riff incarognito, immersione totale negli anni ’60 più grevi, per una sberla elettrica che sembra nata dallo schianto fra MC5 e The Who. Fila dritta come un fuso "Don’t Let Me Bring You Down", ancora più ruvida se non fosse per quel fantastico ritornello che trapana il cervello in un nano secondo, mentre la successiva "(I Don’t Wanna Be) Just A Memory" è sfrontata, allegra e incredibilmente catchy.

Se nelle undici in scaletta nessun ritornello, ma proprio nessuno, va sprecato, la band, però, alterna momenti di antico furore con altri decisamente più morbidi, senza perdere, tuttavia, un grammo di un’ispirazione che regge alla grande le angherie del tempo.

"Wrong Face On" ringhia punk’n’roll a ogni nota, "Soldier On" è più cadenzata, oscura e bluesy, mentre "Doomsday Dreams" viaggia rapida e melodica sull’onda di un riff di chitarra acuminato, ricordando i tempi gloriosi di "By The Grace Of God".

E se "Faraway Looks" inchioda all’ascolto con il suo piglio punk, salvo emozionare con il consueto ritornello da cantare a squarciagola, il mestissimo arpeggio che apre "Coming Down" porta la band nei territori della power ballad malinconica, una bella scartavetrata sul cuore grazie anche la voce ispida e traboccante sentimento di Andersson.

Cambia ulteriormente registro la successiva "Do You Fell Normal", un jangle rock leggerissimo, il cui ritornello coglie il centro del bersaglio grazie a un gioco di accenti spostati, mentre "The Stench" spinge i raggi di sole in una cupa foschia blues, creando un momento di intensa malinconia. Chiude la scaletta "Leave a Mark", la cui linea di basso ombrosa e distorta riconnette la band con la propria attitudine garage, anche se nello specifico declinata con agrodolce sapore nostalgico.  

Qualcuno potrebbe storcere un po’ il naso di fronte a un approccio evidentemente ingentilito e meditativo, ma ciò non toglie nulla a Overdriver, che resta un ottimo disco rock. Gli Hellacopters continuano a sfrecciare a bordo della loro spider decapottabile, ma se un tempo il divertimento era prendere in pieno le pozzanghere per schizzare le vecchiette, oggi, il senso è quello di godersi il viaggio, il panorama, il vento nei capelli e il sole all’orizzonte, sfruttando il tempo dei chilometri macinati per riflettere sul senso del tutto. Meno cattivi, forse, ma egualmente consapevoli.

Voto: 8

Genere: Rock, Garage

 


 


Blackswan, mercoledì 26/02/2025

martedì 25 febbraio 2025

Twist In My Sobriety - Tanita Tikaram (Wea/Reprise, 1988)

 


Di origini malesi, sorella dell'attore Ramon Tikaram (My Spy Family, Il Trono di Spade, etc.) Tanita pubblica, nel 1988, il suo album d’esordio, Ancient Heart (prodotto da Rod Argent e Peter Van Hoote), quando ha solo diciannove anni. Il disco vende benissimo ovunque (complessivamente sei milioni di copie) e raggiunge ottime posizioni di classifica anche in Italia, trainato da due singoli che lasciano tutti a bocca a perta: Good Tradition e Twist In My Sobriety. Sembra l’inizio di una carriera entusiasmante, e invece, nonostante un filotto di dischi tutti di livello (l’ultimo Closer To The People del 2016), la Tikaram esce da tutti i radar che contano, diventando artista di culto per una ristretta nicchia di fan. Di lei, almeno nel nostro paese, si ricorda soprattutto Twist In My Sobriety, singolo che entra prepotentemente anche nella top ten italiana.

La canzone inizia con una suggestiva citazione letteraria: "Tutti i figli di Dio hanno bisogno di scarpe da viaggio". La strofa riprende il titolo di un libro della romanziera, poetessa e saggista statunitense, Maya Angelou, un romanzo autobiografico in cui la scrittrice racconta del suo sogno di tornare finalmente in Africa e riabbracciare le proprie radici, come donna nera americana che ha vissuto tanti anni lontano da casa. Tikaram usò quelle parole senza un reale motivo, solo perché le suonavano incredibilmente poetiche e spirituali, e perché voleva trasmettere al pubblico la sua grande passione per la letteratura (qui e là, nell’album, si trovano anche citazioni da Virginia Wolf).

La canzone, in realtà, parla di come, a diciotto anni (età in cui la Tikaram compose il brano) è difficile comprendere il mondo circostante, di come gli adolescenti si sentano soli, isolati, incapaci di prendere decisioni, percependo tutti gli altri come distanti, freddi, ostili. A diciotto anni, secondo la songwriter, il rapporto emotivo con il mondo è di chiusura, si fa fatica a interagire, a commuoversi per le cose belle di ogni giorno, e si coltiva una sorta di distorto distacco (sobriety) che porta inevitabilmente all’isolamento (“e non farò mai ciò che dici, non ti ascolterò mai”).  Una canzone, come affermò la stessa musicista, qualche anno dopo a un’intervista per rivista Q, che parla “dell'essere troppo spaventati per farsi coinvolgere nelle cose”.

Nel 1989, Liza Minnelli fece una cover della canzone per il suo album Visible Results, prodotto dai Pet Shop Boys. La Tikaram, però, non sapeva assolutamente chi fosse la Minelli, e solo successivamente, diventando adulta, comprese il grande omaggio che le era stato fatto dall’ iconica cantante americana. Tuttavia, Tanita ritenne che la Minelli non avesse colto il senso del brano, interpretandolo in modo molto “americano”. In America, infatti, al termine “sobriety” viene dato un significato specifico, che ha a che fare con la fine della dipendenza dall’alcol, dopo un lungo periodo di riabilitazione, mentre in Inghilterra il termine viene usato nel senso di essere seri e sobri nel modo di comportarsi con gli altri.

 


 

 

Blackswan, martedì 25/02/2025

lunedì 24 febbraio 2025

Jean-Philippe Postel - Il Mistero Arnolfini (Skira, 2017)

 


Il Ritratto dei coniugi Arnolfini dipinto da Jan van Eyck nel 1434 è il celeberrimo oggetto di questa indagine, un’opera che chiunque abbia visto non può più dimenticare. Amata e ammirata nei secoli, protagonista di innumerevoli studi, cela tuttavia un mistero, un significato nascosto, che continua a sfuggire anche allo sguardo più attento. L'occhio clinico di un medico scrittore svela i misteri di uno dei massimi capolavori pittorici di tutti i tempi. I misteri storici, iconografici e tecnici "nascosti" sotto la perfezione del capolavoro di Van Eyck.

 

E che io stesso ho letto in un treno ad alta velocità, inchiodato dalla suspense, con la curiosità e il fiato sospeso con cui si legge un romanzo poliziesco, sul serio!

(Daniel Pennac, prefazione)

 

Queste due righe, estrapolate dalla prefazione al saggio a cura di Daniel Pennac, suggeriscono immediatamente che Il Mistero Arnolfini è qualcosa in più dell’opera erudita su uno dei massimi capolavori dell’arte fiamminga. Addentrarsi nelle centododici pagine di questo libro è, infatti, esattamente come essere risucchiati in prima persona nelle pieghe di un mistero lontanissimo nel tempo, e assistere sul campo a un’indagine che tiene avvinti fino all’ultima pagina, in un rincorrersi di colpi di scena di cui solo un thriller palpitante è capace.

Se deciderete di approcciarvi a questo libricino denso di emozioni, per prima cosa, prendetevi il tempo di dare un’occhiata a questa magnifica tela, esposta alla National Gallery di Londra (su internet troverete un florilegio di immagini) e, solo dopo, fatevi prendere per mano dalla prosa colta, ma abbordabilissima, di Postel. Entrate, dunque, nella stanza che vedete rappresentata nel quadro di Jan van Eyck, e lasciatevi condurre alla scoperta di quest’opera tanto enigmatica quanto inquietante, un dipinto che, a distanza di secoli, vede ancora schiere di studiosi adoperarsi per svelare l’arcano che sottende la pennellata precisa e armoniosa del grande pittore fiammingo.

 


 

Tanti sono gli interrogativi a cui dare risposta.

Chi sono l’uomo e la donna rappresentati nel quadro, che secondo l’interpretazione tradizionale corrisponderebbero al mercante lucchese Giovanni Arnolfini (che negli altri suoi ritratti coevi non mostra alcuna somiglianza fisica con questo dipinto) e a sua moglie, Giovanna Cenami? Cosa stanno facendo? Dove sono rivolti i rispettivi sguardi, quello dell’uomo che appare impaurito, e quello della donna, focalizzato, invece, sul braccio del marito?

E ancora. Perché il cagnolino, simbolo di fedeltà coniugale, non è riflesso dallo specchio che, come un occhio di verità, ci fissa dal muro alle spalle dei protagonisti? Chi sono le due figure riflesse nello specchio, che stanno ferme sull’uscio della stanza? Quale significato anno gli zoccoli, le pianelle e le arance rappresentate nel dipinto? Perché un’unica candela è rimasta accesa sul lampadario, in pieno giorno, mentre le altre sono spente? È forse un indizio di morte? Quali altri segreti nasconde questo dipinto straordinario e affascinante?

A tutte queste domande, Postel dà la propria risposta, giungendo a conclusioni diverse da quelle date da molti altri studiosi. Il lettore privo di competenze in storia dell’arte, come il sottoscritto, non è ovviamente in grado di dare un giudizio di valore alla tesi proposta dallo scrittore francese, anche se ogni passaggio è suffragato da prove che appaiono del tutto plausibili. Fatta questa premessa, la lettura è avvincente e ha il merito di spingere il lettore alla riscoperta di un mondo antico ricco di fascino e ad approfondire l’opera di Jan van Eyck, un pittore della cui vita si conosce poco, ma le cui straordinarie opere sono patrimonio dell’umanità.

 

Blackswan, lunedì 24/02/2025

giovedì 20 febbraio 2025

Toto - Isolation (Columbia, 1984)

 



Superfluo dirlo, ma è davvero difficile pescare male nella discografia dei Toto, mentre se peschi bene, il più delle volte, è probabile trovarsi per le mani un album, per cui la parola “capolavoro” non è spesa invano. E’ il caso, ad esempio, di Isolation, anno domini 1984, e successore di quel best seller che porta il nome di Toto IV. E’ possibile mantenere le vette celestiali raggiunte da un disco che inanellava nella propria scaletta un filotto di canzoni superlative, fra cui le hit sempiterne "Africa" e "Rosanna"?

I Toto, due anni dopo, ci provarono, e ovviamente, ci riuscirono, tra l’altro in un momento storico complicato da qualche problema interno. Bobby Kimball, storico cantante della band, viene cacciato per l’incapacità di gestire la dipendenza da droga e alcool (alcune sue parti vocali sono ugualmente mantenute sull'album) e se ne va anche il bassista David Hungate (che tornerà successivamente, nel 2015, per Toto XIV). Al loro posto, vengono reclutati Fergie Frederiksen alla voce (che presenzierà anche nel successivo Fahrenheit) e al basso Mike Porcaro, fratello di Steve e Jeff, già al servizio della band dal 1982. Due sostituzioni di peso, ma il cui livello tecnico mantiene costante la forza propulsiva della band, che inanella dieci canzoni di cristallina bellezza.

Isolation è un disco solo un po’ più rock del suo predecessore, i cui punti di forza, come di consueto, sono le melodie celestiali, il suono e gli arrangiamenti scintillanti (il sestetto si autoproduce e ne ha ben donde) e l’elevatissimo tasso tecnico dei componenti, tra cui spiccano David Paich e Steve Porcaro, le cui tastiere onnipresenti contornano la chitarra griffata di Steve Lukather, che dispensa riff cromati e assoli stellari con la sapienza di un vero e proprio califfo delle sei corde.

Come dicevamo, il disco mantiene le aspettative dal primo all'ultimo brano, a partire dall’opener "Carmen", l’ennesima canzone che porta il nome di una donna, vera e propria mania della band californiana. Partenza di slancio, velocità massima e un suono rotondo, che mette in evidenza il perfetto interplay fra le voci di Paich e Frederiksen, il sontuoso lavoro di Lukather alla chitarra e, come da tradizione, un ritornello da mandare a memoria al volo. La successiva "Lion" gioca con ritmiche vicine al funky, grande lavoro al basso e alla batteria dei fratelli Porcaro e ennesimo strabiliante contributo di Lukather che cuce il brano con la consueta fantasia.

"Stranger In Town", il primo singolo tratto dal disco, vede nuovamente Paich e Frederiksen scambiarsi il microfono, il ritornello è memorabile, e il sax che attraversa la canzone ne esalta il mood sensuale.

Difficile mantenere il livello di questa tripletta iniziale, ma la band vive un momento di grazia, trasformando in oro tutto quello che tocca. Ecco, allora, "How Does It Feel", zuccherina ballata che vede Lukather cimentarsi egregiamente alla voce, "Angel Don’t Cry" che sprinta veloce accendendo la fiamma del rock prima di un ritornello spettacolare, "Endless" che spinge verso il dancefloor col suo groove funky, e la title track, la cui spavalderia melodica mette nuovamente in evidenza il gusto della band nel creare arrangiamenti spettacolari. Chiude la scaletta "Holyanna", un divertito rock’n’roll dal gusto retrò, in cui Paich è protagonista assoluto al pianoforte e alla voce.

Isolation non riuscì nell’impresa di bissare le vendite del suo predecessore, ma si portò a casa, comunque, un disco d’oro, e non entrò nemmeno nelle grazie della critica, che vedevano in questo album un tentativo della band di clonare il suono dei Journey, gruppo che, all’epoca, vendeva milioni di dischi solo negli States. Tuttavia, come spesso accade, il tempo ha rimesso a posto le cose, e riascoltato oggi, Isolation si colloca nella top five dei migliori dischi dei Toto, oltre a rappresentare uno dei vertici dell’Aor di quel decennio.

 


 

Blackswan, giovedì 20/02/2025

 

martedì 18 febbraio 2025

Larkin Poe - Bloom (Tricki - Woo Records, 2025)

 


Sono passati ben undici anni dal loro debutto, e le sorelle Lovell, al secolo meglio conosciute come Larkin Poe, si sono costruite una reputazione e una solida base di fan, a colpi di ottimi dischi, grandi canzoni e di un suono, che seppur riconducibile a territori già abbondantemente battuti, ha saputo, nel tempo, vestirsi di una propria immediata riconoscibilità.

Oggi, il duo è maturo e consapevole, esperto al punto da poter viaggiare con il pilota automatico, senza sforzo apparente e senza rischiare disastri. Così, quando il disco inizia con "Mockingbird", si capisce che siamo di fronte a due ragazze esperte, che sanno esattamente come trattare la materia rock blues, forse senza stupire più, ma con la consapevolezza di chi è arrivato e fa le cose in grazia di Dio.

Il focus come sempre è puntato sul rock’n’roll, mentre, in questo disco, il blues trova meno spazio, a favore di una sempre maggiore attenzione per le melodie. I punti di forza, quindi non mancano, e quando parte "Easy Love Part 1", un grintoso southern rock sporco abbastanza per fare invidia ai migliori interpreti del genere, si capisce che le ragazze sanno graffiare a fondo, senza dimenticarsi di piazzare un ritornello irresistibile.

Con "Little Bit" l’atmosfera cambia, la canzone vibra di contentezza, è rilassata senza tuttavia perdere la sua anima rock, e tutto funziona benissimo, dal turbinio dell’organo, al riff harrisoniano fino al favoloso assolo di Rebecca.

Coprodotto dalle due ragazze insieme al chitarrista texano Tyler Bryant (Tyler Bryant & the Shakedown), che è anche il marito di Rebecca, Bloom dispiega tutto l’armamentario delle sorelle, così come l’abbiamo conosciuto nel tempo: dal rock blues granitico e dagli echi zeppeliniani di "Bluephoria", alla ballata in chiave soul di "Easy Love Part 2", forse risaputa ma traboccante di sentimento, dalle sciabolate slide della viscerale "Nowhere Fast", fino alla polvere blues che soffia sulla cadenzata "If God Was a Woman", in cui Rebecca Lowell sogghigna “se Dio era una donna, allora lo è anche il Diavolo”.

E c’è spazio anche per una ballata intensa, "Bloom Again", che chiude delicatamente il disco, con tanto di arrangiamento d’archi e la languida lap steel di Megan come protagonista.

Bloom è, in definitiva, un disco riuscito, l’ennesimo di una discografia sempre all’altezza della fama che le due sorelle si sono costruite. L’impressione, ma forse è proprio solo un’impressione, è che queste nuove canzoni siano più figlie del mestiere che di quell’urgenza espressiva che animava i lavori precedenti, e che il reiterarsi di certi clichè, che funzionano perfettamente, tolgano un po’ di profondità alle composizioni. Il disco, però, è abbastanza vario per conquistare svariati ascolti, e qualche episodio, le citate "Easy Love Part 1", "If God Was A Woman" e "Little Bit", testimoniano che le sorelle Lovell non hanno perso il vizio di scrivere gran belle canzoni.

Voto: 7

Genere: Rock, Blues




Blackswan, martedì 18/02/2025