martedì 8 luglio 2025

Kadavar - I Just Want To Be A Sound (Clouds Hill, 2025)


 

La formula alchemica di queste canzoni rispecchia, a prescindere dall’ambientazione fosca e vagamente sepolcrale, la stessa di sempre: un mix di hard rock, space, psichedelia e doom che guarda principalmente agli anni ’70.”

Scrivevo così, solo sei anni fa, a proposito di For The Dead Travel Fast, l’ultimo album rappresentativo dei teutonici Kadavar, così come li avevamo sempre conosciuti fin dal loro omonimo esordio del 2012. Poi, qualcosa è iniziata a cambiare con Isolation Tapes (2020), un disco meno vibrante e rumoroso, più influenzato dal progressive e dalla psichedelia, un’opera atmosferica, intensa e struggente, e dal grande impatto emotivo. A distanza di un lustro, arriva, dunque, questo nuovo I Just Want To Be A Sound, che i fan di vecchia data, gli stessi che non avevano gradito la svolta del suo predecessore, attendevano, ponendosi numerosi interrogativi su cosa avrebbe fatto l’amata band.

In tal senso, se un album come Isolation Tapes aveva destabilizzato che si attendeva il solito turbinio elettrico, questo nuovo album si presenta come un definitivo taglio con il passato, è qualcosa che forse nessuno si sarebbe mai aspettato. E questo perché le dieci canzoni in scaletta rappresentano non solo un cambiamento, ma addirittura uno stravolgimento. Dei vecchi Kadavar, infatti, è rimasto ben poco, e l’album sembra davvero concepito lungo coordinate agli antipodi di quei territori che erano frequentati con tanto successo.

E’ evidente che chi ha amato la band fin dalla prima ora si troverà spiazzato e, diciamocelo, anche un filo incazzato: I Just Want To Be A Sound è un disco orecchiabile e aperto al mainstream, in cui la rabbia, l’energia e il sudore di un tempo vengono sostituiti da un approccio pop rock melodico. L’album è colorato e cangiante, la psichedelia è presente, non è certo quella che apriva a travolgenti cavalcate lisergiche, semmai un ingrediente più leggero e volatile.

Se come recita il titolo, dunque, lo scopo di quest’album era quello di centrare un suono, in tal senso il risultato è pienamente raggiunto, e sotto questo punto di vista il disco suona coeso. Ma non sono più i Kadavar.

L’ariosa title track apre il disco, mostrando subito la nuova mano di carte: è melodica in modo solare, il ritornello è da acchiappo e qualcuno coglierà nell’incedere volatile qualche fragranza riconducibile agli U2 più pop. 

Il riff ruvido di Hysteria è un tranello, perchè il brano, una sorta di filastrocca elettrica, si muove in modo prevedibile e un po’ scialbo. Un piccolo ringhio, ma senza corpo e anima. Non meglio, il sabba psichedelico di "Regeneration", che tra battiti di tamburi e tastiere space cerca la melodia vincente senza però trovarla.

E’ questo un po’ il trend dell’album: i suoni sono spettacolari, ma le canzoni restano prevalentemente insipide, una sorta di vorrei, ma non posso ("Let me Be A Shadow").

Non mancano, tuttavia, momenti decisamente convincenti: "Sunday Mornings" è una ballata d’atmosfera avvolta di synth e di malinconia che dopo qualche minuto decolla in una convulsa deriva space rock, mentre "Star" è languida psichedelia che cita i Pink Floyd e si libra nell’etere sulle note di una melodia, questa volta, davvero notevole.

I Just Want To Be A Sound rappresenta un nuovo capitolo nella carriera dei Kadavar, è l’inizio di una svolta che porta la band berlinese a esplorare territori fino a oggi sconosciuti. Come tutte le prime volte, il passo è incerto. Se da un lato, la volontà di abbracciare un nuovo suono è perfettamente soddisfatta, dall’altro, le canzoni non sono tutte all’altezza dell’idea che sta alla base. Mancano grandi brani, di quelli da mandare a memoria, e non sempre l’aspetto melodico, che è il grimaldello necessario per aprire le porte al grande pubblico, riesce a essere pienamente convincente. Il risultato è un disco che sta in una terra di mezzo e sembra destinato a scontentare un po’ tutti. Il coraggio, però, va premiato e la sufficienza è, pertanto, piena.

Voto: 6,5

Genere: Rock, Pop

 


 


Blackswan, martedì 08/07/2025

lunedì 7 luglio 2025

Landslide - Fleetwood Mac (Reèrise, 1975)

 


Una delle canzoni più famose dei Fleetwood Mac, una ballata senza tempo, introspettiva e struggente. E’ il settembre del 1974, Stevie Nicks vuole a tutti i costi sfondare nel mondo della musica, ma le cose non vanno esattamente come aveva immaginato. Da anni, la cantante lavora come cameriera e donna delle pulizie per mantenere in vita il suo sogno, e si sente vecchia, nonostante i suoi ventisette anni, e terribilmente stanca. Un sera, nella casa di Phoenix, dove vivono i suoi genitori, il padre la prende da parte e le dice che le vuole bene, che non smette di credere in lei, ma che forse è passato troppo tempo senza che la musica abbia ripagato tutti i suoi sforzi. “Prenditi altri sei mesi” la incalza” “e se le cose non dovessero andare come vuoi, puoi sempre tornare a studiare, pagheremo tutto noi, non devi preoccuparti”.

Poco dopo, la Nicks insieme al fidanzato e pigmalione artistico Lindsey Buckingham se ne va ad Aspen, in Colorado, a casa di un amico. Affascinata dal panorama di montagne innevate, la songwriter prende la sua chitarra, si siede in soggiorno e compone Landslide in cinque minuti netti, dopo aver pensato: “tutta questa neve potrebbe semplicemente crollarmi addosso e non c'è niente che io possa fare al riguardo”. Un pensiero che confluisce nei versi iniziali del brano.

 

Ho scalato una montagna e mi sono voltata

E ho visto il mio riflesso sulle colline coperte di neve

Finché la frana non mi ha portato giù

Oh, specchio nel cielo, cos'è l'amore?

 

Landslide è una canzone triste, su questo non ci piove, che può essere interpretata come un brano che racconta i cambiamenti che influiscono su una storia d’amore, creando dubbi, perplessità, paure. Di sicuro, è una canzone che parla del tempo che passa, di come le persone affrontino i cambiamenti, di come la crescita modifichi la percezione che abbiamo della realtà e degli affetti che ci circondano. In tal senso, il brano ha molto a che vedere con il rapporto tra la Nicks e il proprio padre.

 

Può il bambino dentro il mio cuore elevarsi?

Posso navigare attraverso le mutevoli maree dell'oceano?

Posso gestire le stagioni della mia vita?

Beh, ho avuto paura di cambiare

Perché ho costruito la mia vita attorno a te

Ma il tempo ti rende più audace

Anche i bambini crescono

E anch'io sto invecchiando

 

Il cordone ombelicale inevitabilmente si allenta, la bambina deve trovare la sua strada, non può più dipendere dal padre, e anche se il distacco fa paura, l’esistenza chiama altrove, la montagna della vita deve essere scalata con le proprie gambe.

Qualche tempo dopo, la notte di Capodanno del 1974, Mick Fleetwood chiamò la Nicks chidendole se lei e Buckingham volessero unirsi ai Fleetwood Mac. Dei sei mesi che il padre aveva concesso a sua figlia ne restavano ancora tre, e il traguardo, finalmente, era a un passo. Lindsey Buckingham e Stevie Nicks, ai tempi, stavano registrando come duo usando il nome Buckingham-Nicks, avevano già pubblicato un album e stavano progettando di includere Landslide nel prossimo, che invece finì nell’omonimo album dei Fleetwood Mac datato 1975.

Quando nel 1997 la band pubblicò il disco dal vivo The Dance, Lindsey Bickingham, che aveva mollato i Fleetwood Mac per dieci anni, si riunisce al gruppo e partecipa al tour di promozione dell’album. Stevie Nicks e Lindsey Buckingham eseguivano la canzone da soli sul palco, spesso con gli occhi lucidi di emozione. Queste intense esibizioni diventarono una costante anche nei tour successivi, poiché i fan erano sempre ansiosi di vedere gli ex amanti condividere quel momento toccante, che poteva variare in intensità, da un semplice sfiorarsi delle mani a un appassionato sguardo colmo di sottintesi.

La Nicks ha sempre insistito sul fatto che quelle erano emozioni vere, e non una semplice recita. A tal proposito, durante un’intervista per la rivista Rolling Stone, disse: "Sali sul palco e la fiamma dell’antico amore si riaccende. Poi, quando torni nei tuoi camerini, è finita. Ma finché sei sul palco, tutto è reale".

 


 

 

Blackswan, lunedì 07/07/2025

giovedì 3 luglio 2025

Buckcherry - Roar Like Thunder (Earache, 2025)

 


Sarà anche una banalità, ma talvolta si ha la prova provata che il rock’n’roll fa bene alla salute, e mantiene giovani nonostante il tempo che passa inesorabilmente. E’ il caso dei losangelini Buckcherry, che festeggiano i trent’anni di carriera, ma suonano ancora come dei ventenni divorati dal sacro fuoco della musica.

Formatisi in California nel 1995, nel corso degli anni, la band ha superato rotture, cambi di formazione e le sabbie mobili del lockdown e della pandemia. Josh Todd, cazzutissimo frontman, nonostante abbia acquisito di recente lo status di grandfather, è ora l'unico membro originale, affiancato da Stevie Dacanay (chitarra), Billy Rowe (chitarra), Kelly LeMieux (basso) e Francis Ruiz (batteria).

L'undicesimo album della band, Roar Like Thunder, esplode di energia pura e di una spavalderia che ha pochi eguali, è un disco che si rifiuta di invecchiare, mostrando i muscoli, alzando il volume, e incarnando lo spirito selvaggio del quintetto, gagliardo e traboccante d’entusiasmo come se si fosse appena affacciato sulla scena.

I Buckcherry hanno registrato l'album ai Sienna Recording Studios di Nashville, collaborando nuovamente con il produttore di vecchia data, Marti Frederiksen (Aerosmith, Mötley Crüe e Ozzy Osbourne) e con il tecnico del suono Anthony Focx, noto per il suo lavoro con Metallica e Aerosmith. Il risultato è un disco moderno e incisivo, ma saldamente radicato nella tradizione hard rock, che sfrutta i punti di forza della band: riff audaci e vertiginosi, ritornelli di facile presa e, soprattutto, la voce di Josh Todd, sempre potente e grintosa, nonostante i cinquantacinque anni indicati dall’anagrafe.

La title track, "Roar Like Thunder", chiarisce subito che da queste parti non si fanno prigionieri, scatta travolgente con un ritmo da treno in corsa e piazza un ritornello che ti rimane in testa per giorni. Mettete le cinture e tenetevi forte, perché l’alta velocità rischierà di farvi capottare. "When The Sun Goes Down" è pura adrenalina punk rock, è arrabbiata e sporca, quel che basta per lasciarvi l’unto sotto le unghie, mentre "Come On" richiama i classici AC/DC con il suo groove martellante e le chitarre che friggono di spavalda elettricità.

Ci sono momenti in cui la band si attiene un po' troppo alla stessa formula e se sperate qualche cambio di rotta, qui non la troverete. Alcuni testi sfiorano i cliché (beh, che vi aspettate, che Josh Todd smetta di parlare di donne e alcol?), e un paio di brani sembrano già ascoltati decine di volte, ma, ciononostante, l'energia e la convinzione tengono alto il livello. Insomma, i Buckcherry fanno sempre lo stesso disco, ma lo sanno fare benissimo.

Poi, ogni tanto aggiungono qualche nuova spezia, e allora ben vengano canzoni come "Blackout", evidente omaggio ai Rage Against The Machine, o "I Got Bloom", che gira dalle parti degli Aerosmith più incazzati e tira bordate alzo zero grazie a un arrangiamento di ottoni sputa fuoco.

Nel lotto c’è anche "Hello Goodbye", un midtempo telefonatissimo ma egualmente centrato nel ritornello e la conclusiva "Let It Burn" tiratissimo shock rock, che entra in derapata nei padiglioni auricolari facendoli sanguinare.

Stilisticamente, Roar Like Thunder è puro Buckcherry sound: riff incalzanti, ritmi adrenalinici e un mood orgogliosamente ancorato allo sleaze e alla spavalderia dell'hard rock classico. La band, inoltre, porta con sé, esibendole come una medaglia, le sue influenze, dagli AC/DC agli Aerosmith, ma possiede la consapevolezza e la grinta per farle proprie.

Insomma, Josh Todd non cerca di inseguire le mode, e non ha mai smesso di essere coerente al proprio credo, che è quello di offrire un rock’n’roll diretto, sudatissimo e fiero delle proprie origini. Quindi, se avete voglia di zompare come grilli tra il salotto e il soggiorno, alzate il volume dello stereo e scatenatevi al suono di Roar Like Thunder. Con buona pace dei vicini e, se siete anzianetti come il sottoscritto, anche della cervicale. 


Voto: 8

Genere: Hard Rock




Blackswan, giovedì 03/07/2025

martedì 1 luglio 2025

It's Been Awhile - Staind (Elektra, 2001)

 


Entrare nel tunnel della dipendenza, smarrirsi nel buio dell’anima, allontanare tutti coloro che posso aiutarti a riprendere fiducia in te stesso, a combattere il male di vivere. Fare un passo avanti verso la disintossicazione, e due indietro, e perdersi, ogni volta, in un loop vizioso, che risucchia verso l’abisso, togliendo ogni speranza alla resurrezione. In questa canzone, il cantante Aaron Lewis si sta fustigando, in quello che è lamento misto a rabbia e autocommiserazione. Il motivo è che ha perso l'unica donna che avrebbe potuto curare le sue dipendenze, donargli la giusta serenità per rimettersi in piedi e ripartire. E ha perso il supporto del padre, che ha fatto di tutto per aiutarlo.  Così, il ciclo autodistruttivo continua, mentre il tempo passa inesorabilmente e il baratro è sempre lì pronto ad accoglierlo, per un definitivo ed esiziale sprofondo.

 

And it’s been awhile

Since I can say that I wasn’t addicted

And it’s been awhile

Since I can say I love myself as well

And it’s been awhile

Since I’ve gone and f**ked things up

just like I always do

And it’s been awhile

But all that shit seems to disappear

when I’m with you

 

A leggere le liriche della canzone, sembra quasi impossibile che, ai tempi, Lewis vivesse una delle relazioni più sane e stabili della storia del rock. Il cantante degli Staind, infatti, aveva iniziato a frequentare la sua Vanessa nel 1997, prima che la band diventasse famosa. La coppia si è poi sposata l’anno successivo, e quando gli Staind hanno iniziato ad accumulare successi, Vanessa è stata una fonte incrollabile di supporto per Lewis, gestendo, spesso da sola, anche la crescita dei loro tre figli. 

Perché, allora, questa canzone è così cupa, così disperatamente arresa? Il motivo risiede esclusivamente nella personalità del cantante e nella sua visione pessimista e malinconica della vita: le parole di Lewis sono sempre state espressione di un dolore e di una depressione profondamente radicate nel suo animo. Così, a prescindere da ogni giudizio sulla qualità artistica della loro musica, è stato quasi inevitabile che queste rappresentazioni frontali dell'angoscia abbiano colpito nel segno molti ascoltatori, creando un legame emotivo strettissimo fra la band e il suo pubblico.

Senza girarci troppo intorno, se Aaron Lewis non era un allegrone, i suoi fan non erano da meno. Le parole del cantante avevano un peso, soprattutto perché condivise con molte anime fragili che provavano il suo stesso male di vivere. Così, quando nel 2001, un fan della band si suicidò mentre ascoltava una registrazione della sua stessa voce che cantava la canzone degli Staind Outside, Lewis cadde in un periodo di profonda prostrazione.

It's Been Awhile fu scelta come primo singolo da Break The Cycle, il terzo album in studio della band, ed è di gran lunga il più grande successo commerciale degli Staind, quello che diede loro visibilità internazionale. Trainato dalla canzone, Break The Cycle arrivò al primo posto in America e vendette oltre 5 milioni di copie (di cui 767.000 nella prima settimana). Il disco ebbe un discreto successo anche in Italia, dove Break The Cycle si affacciò quasi alla top ten, raggiungendo la tredicesima piazza in classifica.

 


 

 

Blackswan, martedì 01/07/2025

lunedì 30 giugno 2025

Pulp - More (Rough Trade, 2025)

 


Provo un piacere sottile a mettere nel lettore un nuovo cd di una delle band amate durante gli anni della gioventù. Nel 2025, è già successo con gli Skunk Anansie, tornati sulle scene dopo uno iato lunghissimo, e i Garbage, che non hanno mai smesso di fare musica, nonostante siano trascorsi tre decenni dagli esordi. Questo godimento è qualcosa che ha a che fare con la nostalgia, non c’è dubbio (ah, che emozione sentirsi ancora giovani), e probabilmente con l’insoddisfazione prodotta da tanti ascolti coevi di band o artisti osannati, ma incapaci di stimolare un orecchio “anziano” sia sotto il profilo della scrittura che della qualità tecnica dell’esecuzione. Così stanno le cose, per quanto mi riguarda. Sono orgogliosamente boomer, al punto che quando ho saputo che i Pulp, una delle band più geniali del movimento brit pop, sarebbe uscita con un nuovo disco dopo ben ventiquattro anni di silenzio, una lacrimuccia (facciamo anche due) mi ha rigato la guancia. Pura emozione.

Correva l’anno 1995, quando il gruppo capitanato da Jarvis Cocker pubblicò il suo quinto album in studio, Different Class, probabilmente la più grande affermazione artistica della band e certamente il loro lavoro di maggior successo commerciale. Dopo dodici anni trascorsi quasi esclusivamente ai margini di un riconoscimento significativo, i Pulp erano finalmente arrivati alle orecchie del grande pubblico, e si sarebbero rivelati difficili da dimenticare. Nonostante, successivamente, abbiano pubblicato solo altri due album (il cupo e disilluso This is Hardcore del 1998 e l'addio sontuoso We Love Life del 2001) la popolarità dei Pulp persiste ancora oggi, tanto che il tour della reunion del 2023 ha attirato grandi folle. Fu proprio durante quei mesi che si presentò per la prima volta la possibilità di scrivere nuova musica, con la band che provò il nuovo brano "Hymn of the North" durante le prove audio, per poi suonarlo in pubblico durante il live act.

Da quel momento qualcosa si è smosso, e il 2024 è stato un anno decisivo, dedicato, la prima metà, alla scrittura di nuovo materiale, e la seconda metà, alla registrazione del disco vero e proprio. Supervisionato dal produttore degli Arctic Monkeys, James Ford, e con la partecipazione del batterista storico Nick Banks, del chitarrista Mark Webber e della tastierista Candida Doyle, oltre ovviamente a Cocker, More è stato il disco dei Pulp più veloce mai registrato. Eppure, la scaletta che ne è il risultato non sembra assolutamente affrettata, tutt'altro.

Questo è evidente fin dal singolo principale e brano d'apertura dell'album "Spike Island", che suona immediatamente classico come qualsiasi successo degli anni '90 della band. Ritmo di batteria coinvolgente e una linea di basso vivace, la canzone si assesta su un profondo groove disco quando Cocker, ironizzando sulla sua età (quest’anno sono sessantadue) e sul ritorno sulle scene canta "Stavo lottando con la gruccia, indovina chi ha vinto?", poco prima che il ritornello da cantare in coro rievochi i giorni antemici del brit pop.

Anche "Tina", la seconda traccia, perpetua la tradizione della band, con un ritornello orecchiabile in mezzo a versi sommessi e ossessionanti. "Tina" è un classico Pulp, un gioiello bizzarro e accattivante attraverso cui Cocker racconta con sarcasmo di un amore che non decolla: "stiamo davvero bene insieme, perché non ci incontriamo mai".

La canzone successiva, "Grown Ups", è un po' azzardata, dura 5 minuti e 56 secondi, il che la rende il momento più lungo dell'album. Tuttavia, il risultato è brillante: tastiere potenti sostenute da un riff incalzante ammantano di energia i testi vividi di Cocker, che ci guidano attraverso le sue esperienze con l’invecchiamento.

In netto contrasto c'è la canzone successiva, "Slow Jam", che fa esattamente ciò che promette, e rallenta di molto il ritmo, attraverso una linea di basso rilassata e funky, e un cantato sommesso e malinconico con cui il cantante documenta la fine di una storia d’amore.

Se "Slow Jam" racconta il collasso di una relazione, "Farmers Market" ne accoglie, invece, la luce nascente. Accarezzata da delicati archi, linee di pianoforte sognanti e un tocco jazzy nel drumming la canzone fotografa sotto una luce agrodolce un incontro tra due anime coi trascorsi esistenziali della mezza età: "Hai sorriso e ho potuto vedere che la vita aveva preso anche te, ma non era niente di serio, solo una ferita superficiale".  

Il brano successivo, "My Sex", rappresenta un audace cambio di tono, con il sussurro sensuale di Cocker che segna un ritorno alla sfacciata spavalderia che ha alimentato una considerevole quantità di grandi successi dei Pulp. Come nel resto di More, però, il passare del tempo è sempre in agguato e sulle note di un funky sinuoso Cocker canta “sbrigati perché il mio sesso sta per esaurirsi", come se la vita potesse sfuggirgli di mano da un momento all'altro, una preoccupazione, questa, senza dubbio acuita dalla morte del bassista di lunga data Steve Mackey. Tuttavia, Cocker non si accontenta più di prodezze puramente sessuali, non è più un giovane spavaldo con un luminoso futuro davanti. A sessantun anni, il cantante è giunto alla conclusione che l'amore è ciò a cui tutti dovrebbero aspirare. "Senza amore, ti stai solo masturbando dentro qualcun altro", dichiara senza mezzi termini nel secondo singolo "Got To Have Love", un brano disco-pop travolgente (vengono in mente i Santa Esmeralda) con una costruzione e un rilascio magistrali, un numero che si rivelerà sicuramente un momento culminante quando verrà eseguito dal vivo.

Da qui in avanti il disco si avventura in un territorio dedicato alla ballata, e sebbene non sia questo il motivo per cui i Pulp sono più conosciuti, è probabilmente il punto di forza di questo ottimo More.

"Background Noise" racconta l’amara consapevolezza del vuoto lasciato dalla rottura di una storia: Cocker paragona l'amore al "ronzio di un frigorifero, che noti solo quando scompare", dando vita a un ritornello melodico e drammatico che si distingue come uno dei momenti migliori dell'album. "Partial Eclipse" è piacevole, anche se un po' dimenticabile, mentre la penultima canzone, "Hymn of the North", è una delle vette del disco. Note di piano sgocciolate, e voce da crooner, il brano si sviluppa lentamente, prima che un bridge alla Style Council interrompa per pochi secondi il flusso e apra a una seconda metà composta di archi, ottoni e linee vocali ipnotiche, per poi apparire nuovamente dal nulla.

Alla fine, l'album ha in serbo un'altra chicca. "A Sunset" è un brano dal dolce ondeggiare, avvolto da lussureggianti fioriture orchestrali. Un modo appropriato per concludere l'album, con dolcezza e tanta ironica sagacia, quando Cocker canta, quasi sorridendo, una tremenda verità: "La prima regola dell'economia? Le persone infelici spendono di più".

More segna un grande ritorno, il ritorno di una delle band più influenti degli anni ’90, a cui il tempo trascorso ha concesso una nuova possibilità, magistralmente sfruttata. Undici canzoni che suonano come dovrebbe suonare la musica dei Pulp oggi, che è il tempo dei capelli grigi e dei rimpianti che aprono a una nuova consapevolezza, che spingono ad adeguarsi a un nuovo sentire. More è il suono della vita che scorre, del tempo che ci erode lentamente ma anche di tutta la bellezza che abbiamo avuto la fortuna di vedere. La spavalderia di un tempo si è attenuata, l’ironia è più sottile, le riflessioni più temperate e agrodolci. Ciò che resta intatta, però, è la musica, bella e coinvolgente esattamente come trent’anni fa.

Voto: 8

Genere: Pop

 


 

 

Blackswan, lunedì 30/06/2025