Genere : Emocore :
E' per me un grande onore presentarvi il post d'esordio di Flaneur, amico di vecchia data, nonchè grande conoscitore di orizzonti musicali.
Magari vi sarà capitato di buttare un occhio al box
“Killers” che campeggia un poco più in basso sulla destra di questa pagina.
Registro poco appariscente dei collaboratori che contribuiscono al mantenimento
di questo blog.
Lì in mezzo compaio pure io, compreso in quel sestetto che
ricorda la lista dei componenti della
band contenuta nel booklet di un cd. Provo ad immaginare l'indiscusso frontman
Blackswan armato della memorabile
maple-neck Telecaster Esquire di zio
Bruce mentre picchia giù duro accompagnato da un manipolo di performer di
indubbio valore. L' immagine che ne traggo suscita l'applauso spontaneo di chi,
come il sottoscritto, è stato fino ad oggi semplice (e fortunato) spettatore.
Io e il frontman ci conoscemmo suonando in bettole virtuali.
Postacci dimenticati da Dio. Incrociando frequenze scattò una profonda empatia,
al punto che quando Black decise di esprimersi in uno spazio consono modulando
i suoi riff su questo blog, mi domandò se desideravo partecipare.
Fu come se Scott Kelly mi avesse telefonato per implorarmi
di suonare con i Neurosis: la cosa mi
lusingò al punto da farmi aderire all'invito con entusiasmo adolescenziale.
Ecco perchè sto nel booklet del cd. Il box in basso a
destra, al quale io l'occhio ce l'ho buttato un sacco di volte. Con un certo
disagio, confesso, constatando che quel
nickname - che indosso come una maglia
lisa da un tempo piuttosto lungo e che ha scandito molte mie frequentazioni
online – giace privo di voce a fare inutile sfoggio di sé, come certi
soprammobili che l'oblio quotidiano abbandona su una credenza. Muti testimoni
di eventi, generosi nell'unico compito a loro delegato : raccogliere polvere.
Successe che, proprio mentre accettavo la proposta di Black,
un'afasia sghemba si andava conclamando, ponendosi come un macigno tra me e la
tastiera. Il gesto dello scrivere, medicina salvifica e fragile consuetudine
che per lungo tempo mi aveva
accompagnato, si palesava improvvisamente come inaccessibile.
Ora, a forza di scorrere quanto scritto dai tanti che
frequentano queste pagine, il desiderio di tornare a picchiare sui tasti si è
nuovamente, timidamente affacciato. Sperimento un lieve imbarazzo nell'esordire
in questa “cucina di parole” così ben
frequentata e spero perdonerete il modesto sermone introduttivo che ha l'unico
scopo di familiarizzare un minimo con la
popolazione indigena, gli odori e i sapori che dimorano in questi metri quadri.
Mi auguro che quanto riuscirò a produrre risulti di vostro
gradimento. So che non riuscirò a sostenere il ritmo produttivo quotidiano
dello chef Blackswan: spesso mi domando quali miracolose pozioni
assuma per sottrarsi al morso del dio Crono che ti bracca costantemente come un
terzino sulla fascia. Tenterò ugualmente di condividere qualche pensiero in
transito tra testa e cuore del “botanico da marciapiede” che alberga nel
sottoscritto.
Ora, come prevedevo, non mi sovviene alcun buon excipit per
chiudere il discorso.
Beh, insomma, eccomi qui...
Avvertenza.
Consumo il
mio esordio in questo spazio con una non-recensione. Il disco che vado a
proporre – infatti – è la mia colonna sonora quotidiana da parecchi mesi. Ciò
rivela un feticismo da personalità borderline, So che dovrei discuterne con uno
specialista...
Perdonate
quindi l'enfasi e quel certo piglio drammatico con i quali ne argomento. Semplicemente non riesco a parlarne che così,
perché – come detto – questa non è una recensione. Una dichiarazione di amore,
piuttosto.
Spero
conveniate con me che Crash Of Rhinos è un gran bel nome per una band.
Evoca la scia
di polvere sollevata dalla carica di un branco di perissodattili e restituisce una seduzione cinetica che è già un notevole presagio.
Il detto
“nomen omen” sembra fatto su misura per questi cinque ragazzi di Derby –
Inghilterra - che danno vita ai Crash Of
Rhinos ed esordiscono a inizio 2011 con un album ammaliante, “Distal”, per
ricordarci che il termine “emo” non è solo etichetta utile a posers adolescenti
in jeans skinny-fit , ma elisione di
“emocore”, biforcazione cruciale posta a metà degli anni '80 sul tortuoso
cammino del punk-hardcore e spinta propulsiva capace di regalare nuova linfa
creativa a un canone musicale i cui limiti intrinsechi si rivelavano lacci
soffocanti.
“Distal” travalica
la definizione accademica del genere e dilaga dopo ripetuti ascolti rivelando
una ricchezza compositiva rara e una ispirazione superiore. La sezione
strumentale sorprende per la presenza di due bassi, le cui armonizzazioni sono
robuste fondamenta alle chitarre, il tutto suonato con tecnica mirabolante e
passione sinceramente fuori dal comune.
Il cantato,
mai temperato, scontorna ad arte fuori
dal segno tracciato dalla melodia, sembra non
starci dentro oscillando sull'orlo dello scream. Divampa nel frequente
utilizzo delle “gang vocals”. perchè il testo mica può entrare in punta di
piedi in questa ruvida materia sonora. Necessita di un eroismo non comune per
farsi spazio a spintoni, conquistare visibilità. Allora cinque voci sono meglio
di una – è la regola – nel dare vita a questa sorta di “coro trionfante” nel
quale convivono, sovrapponendosi, gioia e disperazione.
Incastonato
in una sezione ritmica ansiosa e calibrata al punto giusto per contenere le
sterzate melodiche che segnano ognuna delle sette tracce che ne compongono la
tracklist. “Distal” si propone - privo
ritocchi cosmetici da hit-parade - per quello che è : quaranta
minuti di musica “larger than life”.
L'opener “Big
sea” è il manifesto di quanto aspetta
chi si sintonizza sulla frequenza di questa band. La batteria impone spazi
stretti costringendo bassi e chitarre a un sovraffollamento che è già
progetto di evasione risolutiva. Non appena pare di aver capito come funziona,
la canzone sbanda e rallenta, si inerpica in un arpeggio che concede ossigeno e
metri quadri vitali alla combo, per poi riassestarsi nel ritmo serrato e
condurci verso un “outro” esteso e malinconico.
“Stiltwalker”
parte velocissima, sotto la pressione dello scatto il pavimento sonoro collassa giusto nel tinello sporco
degli At The Drive In e costringe ad inginocchiarsi commossi di fronte alla
perizia tecnica con la quale i cinque affrontano il cimento.
Accusato il
colpo è vitale rifiatare. Allora ecco “Wide Awake”, misurata nel suo mostrarsi
balsamo lenitivo, tregua e “Lifewood” che – malandrina – illude con
l'inaspettata promessa dell'arpeggio iniziale per poi dilatarsi e
esplodere lasciandoti orfano non appena
si esaurisce nei suoi tre minuti e mezzo e ti verrebbe voglia di riascoltarla
immediatamente, ma “Gold On Red” ammicca già quale stele monumentale e rimbalza
adrenalinicamente in tutte le direzioni, così “widescreen” da mozzare il fiato.
“Closure” è un tripudio di contrappunti ritmici: riff
angolari si incastrano nel tessuto musicale ricamando un ordito spiazzante per il segno e la precisa capacità
evocativa. Poi, è un attimo, siamo ai
saluti finali : “Asleep”. Architettata alla perfezione per lasciare dentro una
nostalgia sottile, come certo congedi che desidereresti procrastinare all'infinito.
Sfuma nella nebbia ipnotica di arpeggio e voci, osmoticamente efficace nel
trasmettere questa inaspettata dolcezza da intemperie nordica che è già
rimpianto.
“Distal” mutua gli
stessi mobili chiaroscuri di un cielo albionico, sapientemente in bilico tra lampi di luce selvaggia e malinconiche
penombre. Arriva dritto al cuore lasciando un segno languido di attonita
meraviglia.
Attraverso le
finestre di questo edificio sonoro, si può scorgere un preciso frammento di
mondo nel quale compiere un' incursione, terminato l'ascolto, appare quasi
necessario.
E'
sufficiente dirigersi alla porta, uscire. Cercare qualche amico, un buon pub.
Una birra ristoratrice, carburante nobile per le parole. Il resto verrà da sé
sul filo teso dell'ebbrezza alcolica, procrastinando il commiato, le pacche
sulla spalla, l' abbraccio accorato. Quasi che si trattasse dell'ultima volta
che ci si vede, immaginando che domani sia la fine del mondo e l'urgenza
consueta non abbia ragione di essere. Non questa notte, almeno.
Il disco è
diponibile in offerta libera – anche a zero money – sul bandcamp del gruppo qui.
A questo
punto non concedergli un chance di ascolto sarebbe come una avemaria in bocca a
un saraceno...
FLANEUR, giovedì 31/05/2012