E’
impossibile parlare di questo terzo disco dei newyorkesi Brand New, senza prima
soffermarsi almeno un poco sulla copertina dell’album, opera del fotografo
americano Nicholas Priors e tratta da una sua personale collezione intitolata Age Of Man.
Un artwork talmente bello che il cd fu pubblicato senza che il nome della band
e il titolo dell’album venissero impressi sull’immagine, inserendo invece nel
packaging uno sticker da applicare, successivamente all’apertura, sulla
confezione. Una foto che possiede un impatto visivo potentissimo, ricco di
implicazioni e di contrasti: il muro bianco e scrostato di una casa tipicamente
americana, due adulti che conversano indossando maschere orrorifiche e una
bimba dal volto angelico che a pochi passi dai due, forse si nasconde o forse è
solo inconsapevole di ciò che troverà dietro l’angolo. Anche a voler dar credito
a quanti sostengono che la copertina è solo l’involucro commerciale di un
prodotto, è indubbio, dopo aver ascoltato le canzoni dell’album, che nello
specifico la foto di Priors richiami in qualche modo il percorso di
contraddizioni su cui si fonda il pathos delle dodici canzoni in scaletta. A
partire dal titolo del cd, ovviamente, che è molto esplicativo di cosa ci
accingiamo ad ascoltare: testi che trattano dell’eterna lotta fra bene e male,
del confliggere quotidiano fra il buio della morte e luminosi palpiti vitali, dell’inquietudine
generata da un mondo di violenza in cui la speranza lotta per non retrocedere a
chimera, dell’andamento ondivago di una scaletta che alterna momenti di quiete
a improvvisi accessi di rabbia, che si perdono in un costante sottofondo di
malinconie a stento trattenute. E c’è pure un concreto spaesamento che deriva dall’evoluzione
artistica dei Brand New, lontani ormai anni luce dagli impeti pop-punk di Your
Favorite Weapon (2001), e con questo album divenuti invece alfieri di un alternative rock,
forse ambizioso, ma decisamente strutturato e maturo, che guarda agli Afghan Whigs
di Greg Dully, agli Slint e ai Fugazi, tutti citati con gusto personalissimo.
L’iniziale
Sowing Season è la pietra angolare per comprendere un disco che vive per
contrasti, pieni e vuoti, urla e silenzi: la voce quasi sussurrata di Jesse
Lacey si muove cupa su un arpeggio slintiano e rarefatto per poi esplodere
feroce in un grido che raggela il sangue e salire quindi improvvisa in un
crescendo quasi screaming. Un canzone straniante, potente e devastante come una
bomba che esplode disperdendo ad altezza uomo schegge esiziali di post e slow core. La
successiva Millestone abbassa di poco i toni, si potrebbe venire circuiti da un
ritornello rock molto melodico, se non si prestasse attenzione al lavoro
chitarristico di Vincent Accardi che in sottofondo cuce fra loro ruvidi riff e
malevole derive noise. Jesus, il primo singolo tratto dall’album, si dipana
quieto su un arpeggio delicatissimo di chitarra che segna l’inizio e la fine
della canzone, mentre nella parte centrale imperversa un soliloquio disperato (And I will die all alone / And when I
arrive I won't know anyone) in cui è ancora la voce di Lacey, ai
limiti dello screaming, a farla da padrona. Anche Degausser gioca con un crescendo
malinconico, tra cori stranianti e la voce urlata e poi soffertissima di Lacey,
che nello specifico trova l’esatto punto di fusione fra quella Robert Smith dei Cure e quella
di Jonathan Davis dei Korn. You Won’t Kown tradisce con un incipit dolcissimo per
poi esplodere in fremiti di rabbia incontrollata assecondati dalla chitarra
velenosa di Accardi, mentre la frenesia sferragliante di Not The Sun è
emblematica di come le canzoni di quest’album vivano fuori dagli schemi convenzionali,
generando parti melodiche proprio laddove meno te lo aspetti. Se The Archers
Bows Have Broken, col suo bel riffone stazzonato, ci riporta nell’alveo di una
canzone rock in cui il ritornello possiede finalmente un certo appeal
radiofonico (quantunque mitigato da un buon dosaggio di distorsioni), Luca
imbocca invece la strada della ballata lisergica, in cui elettricità e sussurri
ci conducono verso un finale di un’epica quasi gotica.
Meritano una menzione
anche la ballata finale intitolata Handcuffs, che tra archi e riverberi, ci
dona finalmente un momento di pace catartica, e la splendida Limousine, la
migliore del lotto, quasi otto minuti di una disperata elegia d’amore in cui il
breve assolo conclusivo di Accardi è di quelli che non si scordano facilmente.
The Devil And God Are Raging Inside Me (2006) è uno dei dischi più interessanti
degli anni ’00, ovviamente distribuito poco e male sul territorio nazionale, ma
meritevole di essere recuperato per la qualità eccelsa delle canzoni in esso contenute.
Un viaggio, non sempre agevole per l’ostica violenza di certi soundscapes
imparentati al post-core, che ci conduce verso territori in cui, sebbene
formalmente distante, domina un profondo senso di sofferenza esistenziale. L’apice
di una discografia scarna, quattro dischi in tredici anni, il cui seguito, Daisy
(2009), non riuscirà a confermare l’ottimo livello raggiunto da questo, quantomeno
da noi, misconosciuto capolavoro.
Blackswan, domenica 18/08/2013
9 commenti:
Grande musica!La foto mi ha colpito, come un pugno allo stomaco, è una forte suggestione.Ascoltando 'Limousine' e leggendo note e e testi, ho scoperto che è dedicata ad una bambina di sette anni, morta in un incidente stradale, nel quale un autista completamente ubriaco, investe la limousine parcheggiata in attesa degli sposi cui la bimba avrebbe fatto da 'damigella'..
Gli spunti che mi darebbe questo tuo post sono talmente ricchi e sfaccettati che per iscritto non posso argomentare quanto e come vorrei.
Quindi mi limiterò a dire che i pezzi che hai inserito sono belli e mi interessano anche se non faranno la storia di niente e rimarranno come altri migliaia di gruppi degli ultimi 15 anni ad ingolfare le stanze del avrebbe voluto essere ma non è stato.
c'è poi una domanda che continuo a rivolgere dal 92, ma alla quale nessuno mi ha ancora risposto in maniera soddisfacente. Quando parlate di Rock Alternativo a cosa vi riferite? Ma soprattutto alternativo a cosa? all'Hair metal morto più di 20 anni fa? al classic rock di un parco Giurassico?
@ mr. Hyde : la foto di copertina e' davvero notevole, a mio avviso, una delle cover piu'affascinanti di sempre. Il disco poi e' zeppo di canzoni tristissime, come quella che hai citato.
@ euterpe : dal mio punto di vista,ma sbagliero', non e' necessario che un disco per essere buono faccia anche la storia, perche' in tal senso di dischi epocali non ne escono piu' da un bel pezzo. Per quanto concerne il termine alt-rock, io lo uso come etichetta per distinguerlo dal rock piu' mainstream. Sara' una forzatura, ma io mi sono abituato cosi. :)
@ blackswan
purtroppo è la risposta che temevo.
Grazie cmq per la disponibilità e la pazienza dimostrata ;)
@ Euterpe : Il blog è fatto apposta per confrontarsi :) Io comunque non ci vedo nulla di male a utilizzare delle etichette: sono delle convenzioni, magari stupide, ma a volte servono a comprendersi meglio.
Grazie per aver riportato alla memoria questi suoni e queste immagini.
Li avevo dimenticati, a torto, nel cassetto.
Un inchino, signore.
Silvia
@ Silvia : un disco che ho sull'ipod, ininterrottamente, dal giorno della sua uscita.Impossibile dimenticarlo :)
Disco stupendo, finalmente lo hai recensito:)
I cescendo screaming di Lacey mi piacciono da morire (sowing season e' stupenda) e mi piace seguirlo nello scream....urlo a squarciagola con lui e sai lo sfogo!!! Totli kili di stress senza nemmeno una posizione yoga...solo urla et air guitar per sentirmi meglio :)
@ Offhegoes : discone ! Per me uno degli intramontabili, lo ascolto ancora spesso e volentieri. Anche se, al contrario, a me procura molta malinconia.
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