Ci sono artisti che meriterebbero un monumento. Per
quello che hanno fatto in passato, per quello che fanno nel presente, per
essere in grado di gestire l'ipercreatività artistica tenendo fede alla
propria coerenza espressiva, pur mantenendo sempre alta la qualità della
proposta. Uno di questi, uno degli esempi più fulgidi, è Mark Kozelek, un nome
da sempre lontano dallo show business, che ha cresciuto almeno due generazioni
di ascoltatori appassionati di slow core e malinconia. Una carriera iniziata
nel 1989, con il progetto Red House Painters e una manciata di dischi che
raccontavano l'epica della tristezza, proseguita in solitaria partendo
dall'amore per gli Ac/Dc (What's Next To The Moon) e consacrata con i Sun Kil
Moon, sacerdoti narcolettici di un folk rock minimale e disperato. Si potrebbe
addirittura parlare di frenesia produttiva se la parola frenesia
non creasse un curioso ossimoro con la lentezza che caratterizza
le canzoni di Kozelek: diciasette album in studio, un pugno di ep e raccolte,
tredici dischi live, le recenti collaborazioni con Jimmy Lavalle e Desertshore. Eppure, l'impressione è sempre stata quella di un artista che,
salvo rarissimi casi, abbia in testa in modo chiaro le coordinate di un
percorso, le parole giuste per raccontare storie intrise di lirismo e
disperazione. Non è un caso, quindi, che questo nuovo Benji sia il punto più
alto della discografia di Kozelek fin dai tempi del celebratissimo Down
Colorful Hill: un disco difficile, ostentatamente intimista e
autobiografico, in cui il songwriting si spoglia di ogni accento rock ed elettrico
per cogliere, in sembianze esclusivamente acustiche, la quintessenza della
poetica kozelekiana. Premessa d'obbligo è che Benji (registrato a San Francisco
a metà dello scorso anno) non può risolversi in pochi e superficiali ascolti.
Ci sono infatti certi dischi che non si limitano a donare emozioni, ma
pretendono da noi un tributo in termini di attenzione, solitudine, empatia. Con
tale predisposizione d'animo, si può davvero cogliere il senso di un'opera la
cui architettura è basata su arrangiamenti minimali, sottili come il segno di
una linea, eppure decisivi nelle piccole sfumature che
prima mettono in nuce, e dopo svariati ascolti esaltano, un'ispirazione
altissima per tutti i sessantadue minuti della scaletta. A partire dal dramma
autobiografico della malinconica Carissa, brano che apre il disco ricordando la
morte di una cugina a causa di un banale incidente domestico, per concludersi con
Ben's My Friend, un spiraglio di luce pop impreziosito da un bell'assolo di
sax. In mezzo altre nove canzoni in cui Kozelek apre l'abum dei ricordi (i
dieci minuti evocativi di I Watched The Film The Song Remains The Same),
narrando piccole storie di quotidianità (la dolcissima Micheline, su una
bambina affetta da un ritardo mentale), tributando alla malinconia degli affetti
commossi omaggi in chiaroscuro (I Can't Live Without My Mother's Love, I Love
My Dad). Un'ora di folk dimesso, dolente e ossessivo, sul quale
svetta il deragliamento psichedelico di Richard Ramirez Died Today Of
Natural Causes, cantato alle frontiere del rap in un accalcarsi di voci
sbilenche e con il rullante secco ed essenziale di Steve Shelley a chiosare
malevolo il brano. Benji è un'opera impegnativa, su questo non ci
piove, ma la pazienza di ripetuti ascolti premierà l'ascoltatore,
regalandogli uno dei momenti musicali (e poetici) più intensi di questo
2014.
VOTO: 9
Blackswan, mercoledì 21/05/2014
2 commenti:
La canzone che hai postato, è figlia dell'immenso Gil Scott Heron.
Kozelek è davvero un grande artista.
anche il suo disco precedente era davvero notevole.
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