Jack White è un artista le cui gesta vivono di un
impatto mediatico di prima grandezza. Look alternativo, viso belloccio,
immagine curatissima. Soprattutto, però, White possiede la grande capacità
di vivere musicalmente sulla linea di confine fra passato e futuro, è stato, ed
è, abile a rileggere le radici con una modernità che forse farà storcere il
naso ai puristi ma che alla lunga paga, e paga benissimo. Furbo ? In parte si,
ma non solo. Se c'è un merito che va riconosciuto al chitarrista originario di
Detroit è quello di aver trovato un linguaggio che avvicinasse le giovani
generazioni a generi che altrimenti sarebbero rimasti ancorati a un
leggendario mondo antico. Geniale? Solo in parte. White non inventa nulla di
nuovo, meglio chiarire subito prima di incorrere in equivoci, e ciò
nonostante si presenta come un gran manipolatore di suoni (forse il
più grande di tutti), un affabulante filologo che, pur nel rispetto della
tradizione, riuscirebbe a far suonare originale e fresca anche una messa
in latino. Lazaretto, clonazione perfezionata del precedente Blunderbuss
(2012), conferma le immense doti di un musicista talentuoso, che col suo
infinito armamentario di strumenti e di intuizioni, spazia fra generi disparati
(blues, garage, rock 'n' roll) riconfermando uno stile ormai
immediatamente identificabile. Uno stile unico, che unisce come un fille
rouge i disciolti White Stripes, progetti stuzzicanti quali Dead Weather e
Raconteurs, e questa nuova, assai riuscita peraltro, deriva
solistica. Lungi dal poter essere definito un capolavoro (certe cose dei White
Stripes e almeno un disco dei Dead Weather -Horehound- sono, a parere di chi
scrive, inarrivabili), Lazaretto, oltre a quanto già scritto poco sopra,
ha il merito comunque di esibire una scaletta variegata e divertentissima, che
alterna momenti ruspanti e riff impetuosi a suoni della
tradizione e panorami di rilassata dolcezza, e che esprime un'urgenza
disarmante che, a un ascolto più approfondito,
appare però figlia di una ragionata elaborazione a
tavolino. L'album tocca immediatamente il suo vertice con un uno-due da
ko collocato all'inizio: il divertissement caracollante di Three Women e
il funk-rock abrasivo della title track, che sorprende con un inusuale assolo
di violino posto in chiusura di brano. Doppietta dal volume alto e dalle
chitarre accattivanti, che si scioglie poi nel country soul di Temporary Ground
(in duetto con la violinista Lillie Mae Rische), evocando fasti che
furono di Gram Parsons e Emmylou Harris. Tanta roba, insomma, e non
solo: Lazaretto è un disco che riserva un'altalenante successione di emozioni,
che la voce di White riesce sempre a rendere al meglio, tanto nei momenti più
tirati che in quelli maggiormente riflessivi. Con coerenza, continuità
qualitativa e un suono, come si diceva, divenuto ormai un marchio di fabbrica,
capace di replicarsi, album dopo album, senza tuttavia annoiare.
VOTO: 7
Blackswan, martedì 10/06/2014
4 commenti:
per me jack white è il chris martin del rock. sa copiare le idee degli altri, ma di talento suo ne possiede ben poco.
questo mediocre dischetto ne è l'ennesima conferma. suona talmente fresco che in molti brani sembra plagiare persino se stesso, e a me tutto ciò annoia, eccome se annoia :)
@ Marco: il paragone mi sembra irriverente assai. I White Stripes hanno fatto cose egregie. E il buon Jack e'anche un ottimo chitarrista. Il disco non e'eccelso, ma discreto si.
Diciamo che si ascolta molto volentieri perché è molto curato ed è, effettivamente, un gran musicista. Però gli manca un po' di "sporcizia" che lo renderebbe davvero un grande rocker.
A me lui piace.
Pulito e curato, è vero, forse un po' troppo, però a tratti mi ricorda Jimmy Page.
Riesce a mettere nei suoi pezzi quella nota che non ti aspetti e che per me è il talento.
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