Vittorio Bongiorno è un’ottima penna. Scrittore siciliano
trapiantato ormai da molti anni a Bologna, prima di City Blues ha pubblicato romanzi quali Il bravo figlio e Il Duka in
Sicilia. Per capire il talento del personaggio, basti sapere che Fernanda
Pivano in persona circa 10 anni fa scrisse un articolo intero sul Corriere
della Sera per elogiarne la scrittura. Nota personale ancora più attraente
(almeno per noi che siamo appassionati di musica) è il suo essere chitarrista,
costruttore di cigar-box guitars e alla costante ricerca di chitarre
vintage…vi basta?
Ammetto che mi sono avvicinato a City Blues con un po’ di supponenza. Di scrittori italiani che
parlano di musica se ne contano una miriade, però sono pochi quelli che in
questi anni di letture sono riusciti ad intrattenermi e incuriosirmi. L’obiettivo dichiarato del libro ha, comunque, prevalso su qualsiasi ritrosia: il
resoconto di tre viaggi distinti a Los Angeles, Berlino e Detroit per cercarne
il “suono”. Non però il suono di un genere o di una band, ma il sound della
città, la sua voce, il suo rumore di sottofondo. Non semplice ma soprattutto
non banale.
Sin dalla prima pagina vengo introdotto in una scrittura
leggera ma appassionata, semplice ma gustosa e soprattutto senza troppi
fronzoli. Bongiorno è un amante viscerale della musica e racconta in prima
persona questa passione mentre si addentra nelle viscere di Los Angeles, la
prima città che incontriamo nel libro. Sinceramente, è anche il racconto che mi
ha maggiormente coinvolto. La Città degli Angeli, quando l’ho visitata, mi ha
lasciato il sapore di una megalopoli senza orientamento, un pazzo agglomerato
di tutto e di niente che si susseguono. Come darle una unicità? Bongiorno invece
riesce a coglierne l’essenza, scoprendo di fatto la vera fonte di L.A.: il
deserto. E così il discorso prende tutta un’altra piega ed incontriamo i
fantasmi di Gram Parson, l’ispirazione del Rancho de La Luna, gli echi degli
U2. Bello, bello, bello, soprattutto perché il viaggio viene fatto con la
moglie Francesca e questo racconto quasi a due voci sembra dare un senso a
tutta la musica che in queste pagine “gira intorno”. Il segreto del rock (o
folk, o americana, o blues come volete chiamarlo) sta tutto nel vivere ogni
canzone sulla propria pelle.
E così il discorso continua con Berlino e Detroit,
ovviamente due mondi diversi. Ma per entrambe, come per Los Angeles, il lavoro
di ricerca, incontri e discussioni trova il suo compimento. Esiste un “sound” latente,
un battito primordiale, un sottofondo quasi impercettibile che le rende uniche.
Il resto poi lo sappiamo: David Bowie e Iggy Pop nel freddo berlinese, gli MC5
tra le fabbriche di automobili di Detroit.
Alla fine del libro non resta altro da fare che
ricominciare, dischi alla mano, e ri-ascoltare tutti i dischi e i musicisti
citati, riflettendo sul fatto che qualunque libro al mondo che ci invogli così
tanto ad ascoltare musica è un’opera riuscita. Bello.
Melonstone, sabato 17/09/2016
2 commenti:
Mi hai incuriosito Melonstone....
@Offhegoes: è scritto con sincerità e passione, quasi un romanzo di formazione
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