SHANE STEVENS – IO TI TROVERO’
A dieci anni Thomas Bishop viene internato in una
clinica psichiatrica dopo aver ucciso la madre che lo seviziava da sempre.
Quindici anni dopo, evade dall'istituto e dà inizio a una fuga sanguinaria sul
cui cammino sono ancora le donne a cadere. Un omicidio, due, poi saranno
decine; Bishop tortura e uccide spostandosi da Las Vegas a Chicago, a New
York. Un personaggio infero ma straordinariamente umano, del quale Shane
Stevens è cronista implacabile raccontandone nel dettaglio l'infanzia e gli
anni di reclusione, le quotidiane strategie di sopravvivenza e la ferocia
omicida. Ne emerge un indimenticabile ritratto della follia, di quel
concatenarsi di storie, incontri o mancati incontri che conducono un uomo a c
edere alla violenza, all'orrore, alla distruzione dell'altro e di sé. E accanto
a questa ombra che ferisce a morte le grandi metropoli del continente, emerge
il volto oscuro dell'America degli anni Settanta, restituito attraverso il
racconto di una caccia all'uomo che coinvolgerà tutti, poliziotti e giudici,
politici e giornalisti, beffati dall'astuzia dell'assassino e incatenati, loro
malgrado, alla sua testarda, deviata umanità.
No, tranquilli. Il filmaccio con Liam Neeson
protagonista (peraltro, intitolato Io Vi Troverò) non c’entra nulla. Questo,
invece, è uno straordinario romanzo (titolo originale: By The Reason Of
Insanity) scritto da Shane Stevens nel lontano 1979 e oggi (ri)edito in Italia
da Fazi Editori. Ottocento pagine, si è un tomo ponderoso, che si leggono però
tutte d’un fiato. Avete presente l’incredibile Il Cartello di Don Winslow? Io
Ti Troverò è altrettanto lungo, ma come nel caso del libro di Winslow è
impossibile mollare la presa fino a quando, a piè pagina, non compare la parola
fine. Se avete letto la sinossi poco sopra riportata, avete già capito che
stiamo parlando di un thriller e, nello specifico, della caccia a un serial
killer, il cui profilo psicologico ricorda molto da vicino quello di Ted Bundy,
il sociopatico che, poco prima della stesura definitiva del romanzo, aveva
sterminato, con inaudita efferatezza, circa una trentina di giovani donne. La
trama, certo, è frutto dell’immaginazione di Stevens, ma vi è un forte legame
con i fatti di cronaca contemporanei (il riferimento a Caryl Chessman è vero,
Bundy viene catturato nel 1978, il libro esce nel 1979 e gli eventi narrati si
svolgono dalla fine degli anni ’40 – periodo in cui opera Chessman - alla
prima metà dei ’70), tanto che, superato il primo piano di lettura, si può
parlare a proposito di Io Ti Troverò di romanzo-reportage o romanzo-verità,
così come per il più celebre (e controverso) A Sangue Freddo di Truman Capote.
Questo, tuttavia, non è l’unico riferimento letterario possibile. La trama del
romanzo, infatti, è intricatissima, sia per il numero di personaggi presenti,
sia per le diverse storie che si intrecciano. E questo perchè Io Ti Troverò,
non è solo il racconto di un serial killer e di chi fa di tutto per catturarlo,
ma si propone anche come un grande affresco dell’America degli anni ’70 (e
’60), della sua politica (sono gli anni di Nixon), degli intrighi del potere,
della manipolazione della stampa a fini elettorali, ma anche del giornalismo
libero e investigativo, quello che non guarda in faccia all’editore di
riferimento per giungere al nocciolo della verità. Ecco, allora, che viene in
mente American Tabloid di James Ellroy, altro imperdibile capolavoro della
letteratura americana, chiaramente ispirato all’opera di Stevens, sia per la
minuzia e la puntualità con cui viene ricostruito il quadro storico, sia per
come è imbastito l’interplay fra realtà e finzione. Non mancano, ovviamente,
tutti gli elementi della letteratura d’intrattenimento: ritmo e colpi di scena
si sprecano, e il finale, ve lo assicuro, lascia letteralmente a bocca aperta.
Accurate (e interessanti), poi, le digressioni di psichiatria forense, che
rendono ancora più vera e credibile l’inquietante figura di Thomas Bishop.
Insomma, un autentico capolavoro di genere, che farà la felicità degli
appassionati di noir, ma anche di tutti coloro che non voglio rinunciare alla
qualità della scrittura.
PS: Mistero nel mistero. Io Ti Troverò è il quinto
romanzo di Shane Stevens, pseudonimo di uno scrittore americano di cui non si è
mai conosciuta la vera identità. Di lui, sono note le opere, l’amicizia con
John Edward Williams, l’autore di Stoner (in calce al libro troverete un breve
scambio epistolare fra i due), e poco altro. Nel 1981, Stevens sparisce nel
nulla senza lasciare più notizie, fino alla data della morte, avvenuta nel
2007. Chi fosse realmente e perché si sia ritirato dalle scene, nessuno, anche
oggi, lo sa.
KENT HARUF - BENEDIZIONE
Nella cittadina di Holt, in Colorado, Dad Lewis affronta la sua ultima
estate: la moglie Mary e la figlia Lorraine gli sono amorevolmente accanto,
mentre gli amici si alternano nel dare omaggio a una figura rispettata della
comunità. Ma nel passato di Dad si nascondono fantasmi: il figlio Frank, che è
fuggito di casa per mai più tornare, e il commesso del negozio di ferramenta,
che aveva tradito la sua fiducia. Nella casa accanto, una ragazzina orfana
viene a vivere dalla nonna, e in paese arriva il reverendo Lyle, che predica
con passione la verità e la non violenza e porta con sé un segreto. Nella
piccola e solida comunità abituata a espellere da sé tutto ciò che non è
conforme, Dad non sarà l'unico a dover fare i conti con la vera natura del
rimpianto, della vergogna, della dignità e dell'amore. Kent Haruf affronta i
temi delle relazioni umane e delle scelte morali estreme con delicatezza, senza
mai alzare la voce, intrattenendo una conversazione intima con il lettore che
ha il tocco della poesia.
Ci sono buoni libri che ci lasciano qualcosa: un
pensiero, un ricordo, un’emozione, una riflessione. Li serbiamo gelosamente, li
consigliamo agli amici, ogni tanto li rileggiamo. Poi, ci sono i grandi libri,
e li riconosciamo subito, perché a fronte di un dono, pretendono il meglio di
noi. Ti rubano la prospettiva e te ne impongono un’altra, ti obbligano a uno
sguardo diverso, spingono i nostri pensieri oltre il limite del convenzionale,
colorano o sfumano sentimenti che credevamo già strutturati e definitivi. Con
Benedizione, primo capitolo della Trilogia Della Pianura (gli altri due volumi
sono Canto Della Pianura e Crepuscolo, tutti tradotti e pubblicati in Italia da
NN Editore tra il 2015 e il 2016), Kent Haruf ci chiede, infatti, lo sforzo
supremo di assistere all’ultimo mese di vita di Dad Lewis, ferramenta e membro
stimato dell’immaginaria cittadina di Holt, Colorado. Una lenta agonia vissuta
sommessamente, senza strepiti, urla o scene madri. Il moribondo Dad, con le
poche forze rimastegli, si trascina dal letto alla poltrona, passa di continuo
dal sonno al dormiveglia, parla con un filo di voce e, consapevole del proprio
segnato destino, fa i conti con il passato, perdona e chiede perdono, dichiara
sentimenti troppo spesso taciuti, cerca nei ricordi (e nella pietà altrui)
l’assoluzione per gli errori commessi. Attorno a lui, si muove un pugno di
personaggi (la moglie, la figlia, il figlio Frank, sparito nel nulla da
decenni, due vecchie e gentili signore, un curato progressista, una piccola
orfana) le cui vite sono segnate da una disperazione inemendabile. Tutti,
dietro un paravento di rispettabilità e ordinarietà, nascondono storie di
fallimenti, di frustrazioni, di rimpianti e di rimorsi; tutti, nessuno escluso,
sono incredibilmente infelici, anime irrequiete in un tessuto sociale
all’apparenza omologato e stabile. Con la sua prosa minimale, scarna, precisa,
i cui dialoghi non sono punteggiati (il pensiero vola a Saramago) e le
subordinate limitate all’indispensabile, Haruf ci racconta di un’umanità
afflitta dalla vita tanto quanto dalla morte, un’umanità sconfitta nei propri
sogni e nelle proprie aspirazioni, un’umanità destinata a spegnersi nel
silenzio di una malattia (fisica, certo, ma soprattutto etica), tratteggiata
con misura, nei movimenti lenti di un corpo ossuto o da una coperta adagiata
sulle gambe, quando fuori dalla finestra la canicola toglie il respiro. C’è
qualcosa che si salva in questo mondo disperato e senza futuro, in cui i
protagonisti vivono solo l’agonia del presente e il rimpianto del passato, in
cui ogni destino nasce dal tradimento e dall’abbandono? Per Haruf il senso
dell’esistenza sono piccoli gesti di pietà, attimi in cui l’amore che portiamo
dentro riesce a infrangere le barriere del nostro incurabile dolore. Un
abbraccio, un bacio, due mani che si sfiorano, una lettera a una sconosciuta,
una lacrima che inumidisce gli occhi rappresentano la benedizione e la speranza
per una società sempre più alla deriva di sè stessa. Tutto intorno alla
tragedia personale dei protagonisti, si muove, infatti, l’America rurale, il
cuore di un paese che non sa più battere, ma che si abbevera alla fonte
dell’ignoranza, dell’ipocrisia, dell’odio razziale. Una collettività bigotta,
rancorosa ed emotivamente esausta, che solo un singolo (e individuale) gesto
d’amore, come lo era per Borges nella sua poesia I Giusti, può riscattare.
DON WINSLOW – IL CARTELLO
Adán Barrera, capo del cartello della droga piú
potente del mondo, è rinchiuso in un carcere di San Diego in isolamento. Art
Keller, l'agente della Dea che lo ha arrestato dopo avergli ucciso il fratello
e lo zio, vive nascosto in un monastero del New Mexico, dove fa l'apicoltore e
cerca di dimenticare una vita di menzogne e false identità. Quando Barrera
riesce a farsi trasferire in un carcere messicano e a riprendere le redini del
cartello, la guerra della droga riparte con una brutalità senza precedenti.
Anche Keller è costretto a tornare in azione immergendosi in un mondo nel quale
onesti e corrotti, vittime e assassini, si trovano dall'una e dall'altra parte
della frontiera.
Quando finisci un romanzo come Il Cartello,
l'unica cosa che ti viene in mente è pronunciare un'iperbole, uno di quei
paroloni, come "capolavoro", ad esempio, che vogliono
dire tutto e niente. Il rischio sta proprio nel farsi prendere la mano,
abbandonarsi a giudizi apodittici, peraltro, nel caso
specifico, tutti meritati, e non spiegare invece a coloro che lo vorrebbero
sapere, perchè è così bello l'ultimo romanzo di Don Winslow. La parola
"capolavoro" la useremo, statene certi, ma solo alla fine di queste
poche righe, che hanno invece la pretesa di spiegarvi come si può
essere autore di thriller, riuscendo nel contempo a essere anche un
grande scrittore. Merito, questo, che a Don
Winslow riconosciamo da tempo, da quando, era il 2008, ci aveva fatto
battere forte il cuore con L'Inverno Di Frankie Machine, primo romanzo del
sessantaduenne romanziere americano a essere pubblicato in Italia.
Una prima peculiarità nella scrittura di Winslow,
forse anche la più rilevante, lo pone un gradino sopra a tutti gli altri autori
di genere: lui non si limita a scrivere un libro, è soprattutto un
regista. In questo, trovo molte similitudini con il cinema di Martin Scorsese,
uno che non si limita a girare un film, ma è soprattutto un romanziere. In
entrambi, le due forme d'arte si confondono, producendo un risultato artistico
che è al contempo narrazione e visione. Il Cartello, quindi, è soprattutto una pellicola
romanzata, e per tutta la durata della lettura, la fantasia della nostra
rielaborazione diviene di un realismo totalizzante. Il lettore non immagina il
Messico, è in Messico, e si muove a fianco dei personaggi del libro, sentendo i
profumi della terra, il sapore del cibo speziato, il caldo accecante del sole,
e palpita, prova sgomento e orrore, o si fa travolgere da
quei frementi moti di coraggio, che incidono su tutti gli snodi narrativi della
vicenda. I protagonisti, quindi, non sono figure che vivono nella caducità
di una fugace immagine, ma sono incredibilmente vividi, sembra di poterli
toccare, si materializzano al ritmo delle dita che sfogliano le pagine, e
vengono inquadrati da una cinepresa narrativa, che predilige la frenesia del
montaggio alternato, indugiando talvolta su destabilizzanti ralenti, che
mostrano la brutalità della violenza come faceva il cinema epico di Sam
Peckinpah.
E non credete a coloro che vi diranno
che Winslow manca nell'approfondimento psicologico o che taglia i
personaggi con l'accetta, perché non è così. Winslow non usa certo i
ricami di Dostoevskij, e nemmeno ne ha la pretesa; è semmai asciutto,
essenziale, ma non semplifica. Anzi, tratteggiando un contorno, in cui le
figure di Marisol e dei Los Zetas rappresentano gli estremi
confini del bene e del male entro cui si muove
l'umanità, Winslow disegna le figure fondamentali del libro
(Keller, Barrera, Eddie Ruiz, Chuy) utilizzando una sorta
di manicheismo spurio, in cui male e bene assoluto convivono (e
confliggono), quali moti dell'anima fra loro inscindibili (“perché dopotutto al mondo non ci sono anime
separate. Andremo in paradiso o all’inferno, ma ci andremo tutti insieme”).
Così, se la malvagità di Barrera disturba proprio perchè il suo
personaggio è capace anche di atti di compassione e tenerezza, Keller non
potrebbe essere l'eroe che è, se non avesse il cinismo necessario per
compiere omicidi di efferata (e consapevole) crudeltà. Giova
sottolineare, da ultimo, anche la certosina e minuziosa ricostruzione
storica fatta dall'autore, che ci restituisce con precisione cronachistica
gli anni più recenti e travagliati di una paese, il Messico, che sembra
destinato a soccombere in eterno innanzi allo spietato strapotere dei
cartelli della droga. Tutti elementi che, sommati fra loro, rendono Il Cartello
il capolavoro di Don Winslow e uno dei libri di intrattenimento più avvincenti
di sempre.
Blackswan, martedì 27/12/2016
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