I Mastodon
arrivano al quindicesimo anno di carriera (l’esordio, Remission, uscì nel 2002)
con una discografia costellata di grandi dischi, almeno fino al 2009, ma una
parabola creativa, oggi, leggermente in flessione. Due, soprattutto, sono gli
album da citare, e cioè Leviathan del 2004 e Blood Mountain del 2006, che
seppur nel loro diverso approccio stilistico (il primo più ancorato allo sludge
e al post-core, il secondo più decisamente virato verso il prog-metal) restano
i vertici della loro produzione e due dei dischi metal più interessanti del
nuovo millennio. Il lavoro successivo a questi, Crack The Skye (2009),
sviluppava la tendenza progressive del suo predecessore con maturità ed
equilibrio, alternando dirompenti sfuriate elettriche a momenti decisamente più
rasserenati, nei quali, a tendere bene l’orecchio, si percepivano echi
pinkfloydiani e ragionamenti quasi frippiani. Il tentativo (riuscito), insomma,
di sublimare una volontà musicale che difficilmente poteva essere racchiusa
entro lo steccato di definizioni aprioristiche. Poi, qualcosa si è rotto ed è
arrivato un disco come The Hunter (2011), solido e ben suonato, ma certamente
sbiadito sotto il profilo della creatività. Una sorta di stallo in cui la band
di Atlanta rifletteva sulla propria identità, sulla strada da intraprendere, su
un passato metal core sempre più distante e pronto a essere sostituito da
qualcosa di più digeribile, in cui l’aspetto melodico fosse, cioè,
predominante. Il seguente Once More ‘Round The Sun (2014) non faceva che
confermare il nuovo corso intrapreso dai Mastodon che, pur mantenendo un buon
livello compositivo, avevano chiaramente imboccato i binari della
normalizzazione: la frenetica voluttà di sperimentazione appariva sbiadita e
quella brutalità con cui colpivano violentemente al basso ventre emergeva
sporadicamente come gloriosa eco di un passato lontano. Questo nuovo full
lenght, invece, sembra restituirci una band di nuovo in spolvero e capace di un
livello di ispirazione finalmente ai livelli delle sue migliori prove. Non è un
caso che Brann Dailor e compagni abbiano richiamato dietro la consolle proprio
Brendan O’Brien, che era stato l’artefice del fortunato Crack The Skye.
Basta anche un solo ascolto, infatti, per capire che Emperor Of Sand è una
sorta di seguito, di parte seconda, dell’illustre predecessore. A prescindere
dalle grandi doti tecniche del gruppo, che non sono mai state messe in
discussione, il nuovo album sembra sviluppare con rinnovata sapienza
quell’ibrido fantasioso tra suoni estremi e ricercatezze prog, grazie a canzoni
che tolgono il fiato per brutalità di esecuzione ma che sanno nel contempo
aprirsi a convincenti soluzioni melodiche e complesse derive strumentali. Emperor
Of Sand nasce come un concept album che racconta il peregrinare di un uomo
condannato a morte attraverso lande desertiche. Il deserto e la sabbia, dunque,
come elementi naturali usati in guisa di metafora del tempo che scorre
inesorabile a ribadire la finitezza dell’uomo. Un argomento “alto” che nasce da
alcune esperienze negative capitate ad amici e parenti dei componenti della
band, a cui è stato diagnosticato un brutto male. Lo dice, senza troppi giri di
parole, Brann Dailor: “Emperor Of Sand è come un triste mietitore. La sabbia
rappresenta il tempo. Se tu o una persona che conosci ha mai ricevuto una
diagnosi di malattia terminale, il primo pensiero va al tempo”. Un
argomento difficile e irto di insidie, dunque, che necessitava una scaletta
all’altezza della fama della band originaria di Atlanta. Missione compiuta
egregiamente, visto che Empereor Of Sand è un disco perfettamente centrato,
composto di brani strutturati, riccamente arrangiati, suonati magnificamente
(la performance di Dailor dietro le pelli è, come di consueto, da urlo) e
pregni di crepuscolari suggestioni. Un ritorno in gran spolvero.
PS: Non perdetevi il viedo di Show Yourself, primo singolo estratto dall'album, perchè è un capolavoro di ironia.
VOTO: 7,5
Blackswan, giovedì 06/04/2017
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