Ci
sono band che non cambiano mai, facendo della coerenza il loro punto di
forza, e altre, invece, in continua evoluzione, come se la creatività e
l’ispirazione dipendessero esclusivamente dalla ricerca del proprio io,
esibito hic et nunc. Arrivati al loro sesto album, dopo tredici anni di
carriera, gli Editors sono ancora alla ricerca di una definitiva
identità, in un percorso che, anno dopo anno, ha prodotto piccoli, o più
grandi, spostamenti da quella ricetta inziale che aveva portato alla
pubblicazione di The Back Room, album d’esordio del 2005.
Un
disco, quello, che pagava un debito altissimo alle sonorità post punk
(Joy Division, Echo & The Bunnymen, etc.) e che seguiva la scia di
malinconie al neon tracciata dalle chitarre revival dei colleghi
Interpol, ma che, nonostante tutto, riusciva a suonare sincero e
appassionato. An End Has A Start (2007) era quasi la logica
continuazione di quel primo disco, come se la band, spogliatasi dalle
ingenuità iniziali, avesse preso consapevolezza della propria forza e
della capacità di sviluppare con personalità idee risapute. Ne conseguì
un’opera più matura, che alternava alle consuete atmosfere crepuscolari
momenti di forte comunicativa pop.
Poi, la svolta synth di In This Light And On This Evening (2009), che sfumava ulteriormente il mood dark-wave dei primi due album, il successivo The Weight Of Your Love (2013) che sceglieva la strada mainstream del rock da stadio, e l’ultimo, in ordine di tempo, In Dream (2015), capace, in chiave elettronica, di rinsaldare nuovamente il legame con certe atmosfere ossianiche dei primi due lavori.
Il nuovo Violence
rappresenta un ulteriore spostamento di traiettoria, una nuova sterzata
sulla strada di una carriera che, certo, lineare non è. Se era chiaro,
ormai, che l’elettronica rappresentava un punto di non ritorno rispetto
al più lontano passato, è altrettanto vero che mai come in questo disco
la band ne faccia cifra estetica unica, in un micro cosmo sonoro, in cui
i graffi chitarristici e gli umori noir vengono prevalentemente
accantonati in favore di un pop più solare e pompato.
La
continuità è rappresentata dal timbro vocale unico di Tom Smith,
monumentale nei suoi sprofondi baritonali, anche nei momenti in cui
tutto intorno a lui appare falso come una banconota da settanta euro.
Già, perché nonostante tutta la buona volontà di chi, come il
sottoscritto, ha voluto bene agli Editors fin dagli albori, qui si
fatica ad ascoltare qualcosa che funzioni veramente. La produzione, in
condominio con Leo Abrahams, è laccata e modernissima, ma gonfia a
dismisura idee che paiono risicate all’osso.
Una
scaletta uniforme, questo si, che attinge a piene mani dagli anni ’80
(anche se in questo caso vengono in mente i Simple Minds meno ispirati),
e in cui tutto sembra indirizzato alla ricerca del ritornello che
funzioni in radio o al beat che riempia il dance floor. E’ la logica
dello strike a pose a tutti i costi, della vanagloriosa forma
che sovrasta la sostanza, di un appeal esibizionista che cerca
l’eleganza e la modernità, e che finisce, spesso, per trovare solo
momenti di involontaria tamarraggine (la terrificante Hallelujah (So Slow)).
Mancano
soprattutto le canzoni, e non credo sia solo un problema di
iper-produzione: si fatica a trovare intuizioni di cui ci ricorderemo
fra qualche mese, e anche i migliori episodi in scaletta, la ballata
pianistica No Sound But The Wind, con una magistrale performance interpretativa di Smith, e la carezzevole melodia di Belong,
suonano come sgranati e prevedibili deja vù. Se gli Editors, in virtù
della loro irrequietezza stilistica, erano riusciti, in passato, a
creare una frattura tra fan della prima ora e nuovi adepti al verbo del
synth, con Violence metteranno probabilmente d’accordo tutti: questo è
il disco più debole e deludente dell’intera carriera.
VOTO: 5
Blackswan, venerdì 16/03/2018
2 commenti:
In Dreams mi era piaciuto parecchio. Questo l'ho ascoltato solo una volta purtroppo distrattamente e non so ancora dare un giudizio. Mi aveva molto colpito "Violence" in versione acustica suonata nel programma di Manuel Agnelli. Non male anche la versione elettronica nell'album.
In questo deludente caso siamo sorprendentemente d'accordo.
L'intenzione di non replicarsi è buona. Peccato che, come dici, a mancare sono le canzoni...
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