Quando si parte all’ascolto di Good Day,
quarta fatica discografica a firma Jonathan Jeremiah, e primo disco
uscito sotto l’egida PIAS, si prova una sorta di sospensione temporale,
il fisico coi piedi saldamente piantati nel 2018, la mente e le
emozioni, invece, che vagano nella Londra degli anni ’70, magari con
l’impressione di essere seduti al pub del quartiere ad ascoltare un
giovane songwriter di cui si dice un gran bene.
Insomma,
si ha la sensazione che Jeremiah non abbia fatto altro nella vita che
ascoltare i dischi di mamma e papà, cercando di replicarne
pedissequamente il suono. E’ questa la prima impressione che si ha
quando Good Day inizia a girare sul piatto: un disco già
sentito, affetto da passatismo e da una produzione artefatta che ha il
solo scopo di stendere una patina vintage sulle undici canzoni in
scaletta.
E’
solo un attimo, però, perché, di canzone in canzone, l’ascolto si fa
sempre più avvincente e, superata l’estemporaneità del momento, ci si
accorge di essere di fronte a un piccolo gioiello. La scrittura di
Jeremiah, nonostante gli evidenti, e facilmente individuabili,
riferimenti stilistici (Lee Hazlewood, Terry Callier, Ritchie Havens,
John Martyn, etc), è in grado, infatti, di rielaborare il prevedibile
con intuizioni che avvicinano il songwriter londinese al Michael
Kiwanuka di Home Again, di conquistare con melodie di facile presa che
non sfociano mai nel refrain banale, scegliendo semmai una cifra
estetica elegante, un po' demodè forse, ma di rara efficacia.
Pianoforte,
chitarre, hammond, coretti femminili, archi, qualche ottone, e una voce
profonda, baritonale, sorniona, calda al punto giusto e ricca di
sfumature, sono la tessitura principale di un filotto di canzoni pervase
da una nostalgica allegrezza.
La title track
che apre il disco è un tuffo nel passato, un inno alla retromania, ma
al secondo ascolto tutto passa in secondo piano quando si coglie
l’equilibrio della struttura, il gusto dell’arrangiamento e quel suono
analogico che sa di cose buone di una volta. Jeremiah, però, sa anche
essere incredibilmente moderno, piazzando un tormentone come Mountain, un folk carico di soul, punteggiato da un irresistibile whistling e da una tensione che ricorda quella di Take Me To Church di Hozier.
Se il groove di The Stars Are Out è legato a filo doppio con il citato Kiwanuka e U-Bahn (It’s Not To Late For Us) omaggia smaccatamente Burt Bacharach, con Deadweight,
sette minuti di mini suite che incastrano malinconia, folk, soul e
blaxploitation, Jeremiah sfoggia un songwriting maturo e coraggioso,
centrando uno dei capolavori del disco.
Che decolla anche quando il mood si fa più intimo, con due superbe ballate pianistiche quali No-One, dai sentori lennoniani (la matrice è Mind Games), e l’appassionata Shimmerlove attraversata da fremiti welleriani.
Registrato presso i Konk Studios di Ray Davies e prodotto dallo stesso Jeremiah, Good Day
rappresenta una delle sorprese più piacevoli dell’anno: un filotto di
splendide canzoni dal tocco artigianale, il cui calore emotivo saprà
proteggervi dall’arrivo dei primi freddi.
VOTO: 8
Blackswan, mercoledì 26/09/2018
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