Sunny
Sweeney è uno di quei nomi che dice poco o niente al pubblico italiano
(salvo, forse, evocare qualche marca di succo di frutta) ma che vale la
pena seguire con attenzione, soprattutto se si è appassionati di
country, quello più autentico e un filo retrò.
Non
a caso, la stampa americana si è sempre espressa in termini lusinghieri
nei suoi confronti, azzardando paragoni con stelle di prima grandezza
quali Natalie Maines e Kacey Chambers (una rapida occhiata a wikipedia
vi farà comprendere l’importanza dell’accostamento).
Sunny
Sweeney nasce e cresce a Longview, in Texas, dove inizia a cantare
giovanissima, ispirandosi a grandi nomi come Dolly Parton e Loretta Lynn
e facendosi le ossa nel coro della scuola. La sua vera passione, però, è
il teatro off, così, alla prima occasione, lascia il Texas e
l’università e si trasferisce a New York a studiare recitazione. Lì, si
esibisce nel circuito off e, per sbarcare il lunario, inizia a fare
piccoli lavoretti, quali baby sitter, dog walker, cameriera.
Frustrata
dalla mancanza di successo, Sweeney torna in Texas, dove si unisce a
una piccola compagnia teatrale di Austin. A questo punto inizia a
prendere sul serio il suo talento di musicista e incoraggiata dai suoi
colleghi e dal suo patrigno, che aveva cercato di insegnarle alcuni
accordi di chitarra quando era piccola, Sweeney inizia a studiare lo
strumento e a impratichirsi.
Il
suo primo vero concerto lo tiene all'Austin's Carousel Lounge nel 2004,
il suo nome inizia a girare nel circuito country della città e riesce a
catturare l'attenzione di vari critici musicali nella zona di Austin.
Ha inizio così la sua carriera da professionista: Sunny passa dalla Big
Machine, la sua prima casa discografica, alla Republic Nashville, e
sforna una serie di dischi acclamati dalla critica, l’ultimo dei quali,
Trophy (2017), ha avuto una certa eco anche in Europa.
Sull’onda
della crescente attenzione mediatica, la songwriter texana decide ora
di pubblicare, nuovamente sotto l’egida Big Machine, una raccolta
contenente parte del suo primo disco, Heartbreaker’s Hall Of Fame
(2006), e altri singoli appartenenti al periodo in cui era
sottocontratto con la celebre casa discografica specializzata in musica
country.
Un
disco che racconta gli esordi della cantautrice, che recupera i suoi
primi successi e che mette in evidenza tutte le caratteristiche che
segnaranno anche la produzione successiva. Un country, quello della
Sweeney, curato negli arrangiamenti e dal suono levigato (ma lontano
anni luce da certi melensi polpettoni nashvilliani), che non toglie
nulla però all’esuberanza di canzoni che trasmettono tutta la passione
della nostra per la musica con cui è cresciuta.
Se
da un lato si apprezza l’intento filologico di rimanere fedele a un
genere, nonostante una produzione arrotondata, ciò che colpisce davvero è
l’energia e l’autenticità che pervade canzoni come la sgommata country
di If I Could, il languore romantico di Lavender Blue, ballata accarezzata da violino e lap steele e cantata in duetto con Jim Lauderdale, la melodia diretta di Staying’s Worse Than Leaving e lo spumeggiante honky tonk di East Texas Pines.
In
attesa del prossimo disco di brani originali, questo Big Machine
Classics rappresenta il modo migliore per accostarsi alla storia e al
talento di un'artista che, se negli anni in cui queste canzoni sono
state scritte era solo l'ennesima promessa, oggi può fregiarsi di un
posto di rilievo fra le country singer più dotate e apprezzate della sua
generazione.
VOTO: 7
Blackswan, venerdì 28/09/2018
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