La storia del rock è costellata da figli d'arte che hanno seguito le orme dei padri. Gli esempi sono molteplici: Loudon e Rufus Wainwright, Bob e Jakob Dylan, John e Sean e Julian Lennon, John e Jason Bonham, solo per citarne alcuni.
Difficile,
però, che un figlio abbia raggiunto, o addirittura superato, per
caratura artistica, il proprio genitore. Con l'unica eccezione, forse,
della coppia Tim e Jeff Buckley, prova provata che il talento talvolta
può essere geneticamente trasmissibile.
Entrambi
belli e tenebrosi, entrambi dotati di una voce dalla ragguardevole
estensione e dalle sfumature policromatiche, entrambi musicisti
eclettici, sensibili e, soprattutto, coraggiosi. Insomma, due
personalità geniali, le cui diverse storie, al di là delle affinità
artistiche, furono accomunate dal medesimo crudele destino di una morte
prematura (Tim decette nel 1975, a soli 28 anni, per overdose di eroina,
mentre Jeff morì nel 1997, a 30 anni, per annegamento).
Eppure,
nonostante padre e figlio furono uniti dalla stessa tragica fine, in
vita furono divisi in tutto, a partire da una diversa concezione
musicale e dal successo commerciale, che non arrise mai al primo,
neppure dopo morto. Tim Buckley, nonostante compose un filotto di dischi
avanguardistici (Starsailor, Lorca e Blue Afternoon sono
imprescindibili capolavori), resta un artista di nicchia, perché troppo
elusivo e innovativo per essere amato dal grande pubblico; mentre Jeff
ebbe il tempo di rilasciare un unico, meraviglioso disco (Grace del
1994) che, soprattutto dopo la morte, gli valse tributi, riconoscimenti e
gloria imperitura, tanto da essere ormai universalmente riconosciuto
come una delle opere più iconiche degli anni ‘90.
Tuttavia,
se paiono enormi le differenze fra i rispettivi percorsi artistici,
risulta addirittura abissale la distanza affettiva che separava padre e
figlio. Tim, nel 1965, si sposò, a soli diciannove anni, con la compagna
di scuola Mary Guilbert (anch'essa musicista), dalla quale, solo un
anno più tardi, ebbe Jeff. Prima ancora della nascita del figlio, Tim,
però, abbandonò la famiglia per trasferirsi a New York in cerca di
fortuna, troncando definitivamente ogni rapporto con il bambino, che,
successivamente, vide solo un paio di volte.
Non
solo. Con immotivato e malevolo cinismo, decise di sugellare la
definitività dell'abbandono dalla moglie e dal figlio, scrivendo quella
che la critica considera una delle sue canzoni più riuscite, I Never
Asked To Be Your Mountain (la canzone è la quinta traccia di Goodbye And
Hello, secondo disco di Buckley pubblicato nell’agosto del 1967), il
cui testo, pur vestendo abiti d’ispirato lirismo, non ammette
fraintendimenti (“Lei dice: << Quel farabutto di tuo padre è
scappato con una ballerina che chiama regina (la musica, ndr), e gioca
con le sue carte rubate e ride e non vince mai >>. Il bimbo sogna
di essere le sue mani che contano la pioggia, ma sente solo il suo arido
seno, perché non berrà mai il suo latte...”).
Tim,
il cui intento evidentemente era quello di deresponsabilizzarsi agli
occhi del mondo, non poteva sapere, invece, che quella canzone fece, in
qualche modo, la fortuna del figlio. Jeff, infatti, debuttò in pubblico
durante un concerto-tributo a suo padre, denominato Greetings from Tim
Buckley. L'evento, organizzato da Hal Willner, prese luogo nella chiesa
di St. Ann, a Brooklyn, il 26 aprile del 1991, e Jeff, accompagnato dal
fedele chitarrista Gary Lucas, intonò proprio I Never Asked To Be Your
Mountain, dichiarando poi alla stampa: "...mi infastidiva non esser
stato presente al suo funerale, non sarei mai più stato in grado di
dirgli qualcosa. Usai quello show per dargli il mio ultimo saluto."
Un’esibizione, quella, che gli valse l’attenzione della stampa,
letteralmente catturata dalla voce pazzesca di Jeff.
Il
quale, qualche anno più tardi, non essendo evidentemente ancora in
grado di rielaborare il lutto e il male che gli era stato fatto,
scriverà la struggente What Will You Say? (il brano compare sul live
postumo Mystery White Boy del 2000, ma è scritto nel 1995), drammatica
risposta a I Never Asked To Be Your Mountain, con la quale Jeff metteva
il padre dinnanzi alle proprie responsabilità, inchiodandolo al proprio
passato con una serie di domande piccate (Father Do You Hear Me? Do You
Know Me? Do You Even Care?).
Una
canzone che, come per molte di quelle contenute in Grace (Eternal Life,
The Last Goodbye), ancora oggi inquieta per i contenuti premonitori:
con il verso “Sento il mio tempo strisciare verso una fine lenta”,
infatti, Jeff sembra prevedere la propria morte.
Blackswan, lunedì 02/12/2019
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