lunedì 2 dicembre 2019

TIM BUCKLEY - I NEVER ASKED TO BE YOUR MOUNTAIN (Elektra Records, 1967)



La storia del rock è costellata da figli d'arte che hanno seguito le orme dei padri. Gli esempi sono molteplici: Loudon e Rufus Wainwright, Bob e Jakob Dylan, John e Sean e Julian Lennon, John e Jason Bonham, solo per citarne alcuni.

Difficile, però, che un figlio abbia raggiunto, o addirittura superato, per caratura artistica, il proprio genitore. Con l'unica eccezione, forse, della coppia Tim e Jeff Buckley, prova provata che il talento talvolta può essere geneticamente trasmissibile.
Entrambi belli e tenebrosi, entrambi dotati di una voce dalla ragguardevole estensione e dalle sfumature policromatiche, entrambi musicisti eclettici, sensibili e, soprattutto, coraggiosi. Insomma, due personalità geniali, le cui diverse storie, al di là delle affinità artistiche, furono accomunate dal medesimo crudele destino di una morte prematura (Tim decette nel 1975, a soli 28 anni, per overdose di eroina, mentre Jeff morì nel 1997, a 30 anni, per annegamento).
Eppure, nonostante padre e figlio furono uniti dalla stessa tragica fine, in vita furono divisi in tutto, a partire da una diversa concezione musicale e dal successo commerciale, che non arrise mai al primo, neppure dopo morto. Tim Buckley, nonostante compose un filotto di dischi avanguardistici (Starsailor, Lorca e Blue Afternoon sono imprescindibili capolavori), resta un artista di nicchia, perché troppo elusivo e innovativo per essere amato dal grande pubblico; mentre Jeff ebbe il tempo di rilasciare un unico, meraviglioso disco (Grace del 1994) che, soprattutto dopo la morte, gli valse tributi, riconoscimenti e gloria  imperitura, tanto da essere ormai universalmente riconosciuto come una delle opere più iconiche degli anni ‘90.
Tuttavia, se paiono enormi le differenze fra i rispettivi percorsi artistici, risulta addirittura abissale la distanza affettiva che separava padre e figlio. Tim, nel 1965, si sposò, a soli diciannove anni, con la compagna di scuola Mary Guilbert (anch'essa musicista), dalla quale, solo un anno più tardi, ebbe Jeff. Prima ancora della nascita del figlio, Tim, però, abbandonò la famiglia per trasferirsi a New York in cerca di fortuna, troncando definitivamente ogni rapporto con il bambino, che, successivamente, vide solo un paio di volte.
Non solo. Con immotivato e malevolo cinismo, decise di sugellare la definitività dell'abbandono dalla moglie e dal figlio, scrivendo quella che la critica considera una delle sue canzoni più riuscite, I Never Asked To Be Your Mountain (la canzone è la quinta traccia di Goodbye And Hello, secondo disco di Buckley pubblicato nell’agosto del 1967), il cui testo, pur vestendo abiti d’ispirato lirismo, non ammette fraintendimenti (“Lei dice: << Quel farabutto di tuo padre è scappato con una ballerina che chiama regina (la musica, ndr), e gioca con le sue carte rubate e ride e non vince mai >>. Il bimbo sogna di essere le sue mani che contano la pioggia, ma sente solo il suo arido seno, perché non berrà mai il suo latte...”).
Tim, il cui intento evidentemente era quello di deresponsabilizzarsi agli occhi del mondo, non poteva sapere, invece, che quella canzone fece, in qualche modo, la fortuna del figlio. Jeff, infatti, debuttò in pubblico durante un concerto-tributo a suo padre, denominato Greetings from Tim Buckley. L'evento, organizzato da Hal Willner, prese luogo nella chiesa di St. Ann, a Brooklyn, il 26 aprile del 1991, e Jeff, accompagnato dal fedele chitarrista Gary Lucas, intonò proprio I Never Asked To Be Your Mountain, dichiarando poi alla stampa: "...mi infastidiva non esser stato presente al suo funerale, non sarei mai più stato in grado di dirgli qualcosa. Usai quello show per dargli il mio ultimo saluto."  Un’esibizione, quella, che gli valse l’attenzione della stampa, letteralmente catturata dalla voce pazzesca di Jeff.
Il quale, qualche anno più tardi, non essendo evidentemente ancora in grado di rielaborare il lutto e il male che gli era stato fatto, scriverà la struggente What Will You Say? (il brano compare sul live postumo Mystery White Boy del 2000, ma è scritto nel 1995), drammatica risposta a I Never Asked To Be Your Mountain, con la quale Jeff metteva il padre dinnanzi alle proprie responsabilità, inchiodandolo al proprio passato con una serie di domande piccate (Father Do You Hear Me? Do You Know Me? Do You Even Care?).
Una canzone che, come per molte di quelle contenute in Grace (Eternal Life, The Last Goodbye), ancora oggi inquieta per i contenuti premonitori: con il verso “Sento il mio tempo strisciare verso una fine lenta”, infatti, Jeff sembra prevedere la propria morte.





Blackswan, lunedì 02/12/2019

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