Nell’onda
lunga di quanti rileggono in modo contemporaneo un suono dalle radici
antichissime, fra tanti personaggi saliti alla ribalta negli ultimi anni
(Michael Kiwanuka, Curtis Harding, Black Pumas, etc.) si inserisce
dalle retrovie anche Son Little, moniker sotto cui si cela Aaron Earl
Livingston, polistrumentista e songwriter originario della Pennsylvania.
Son Little (l’aka è un evidente omaggio ai grandi bluesman del Delta)
ha già alle spalle un paio di dischi a proprio nome e diverse
collaborazioni di peso, prime fra tutte quelle con The Roots, RJD2 e
Mavis Staples. Ciò nonostante, a differenza degli artisti citati,
Livingston è rimasto ai margini del circuito mediatico e, soprattutto
dalle nostre parti, resta un musicista ancora tutto da scoprire.
Registrato in soli otto giorni presso gli iconici Studios Ferber di Parigi con il produttore Renaud Letang (Feist, Manu Chao), aloha
è il primo album di Son Little ad essere prodotto da un collaboratore
esterno. Un disco di black revival, come molti se ne ascoltano in questo
periodo, che però si discosta per una lettura del genere decisamente
personale, che miscela r’n’b e soul di derivazione classica a un suono
più moderno e a intuizioni originali.
Son
Little cambia il consueto approccio, preferisce togliere che
aggiungere, facendo pienamente sua la regola “less is more”. A
differenza di Michael Kiwanuka, musicista oggi sulla cresta dell’onda,
sempre molto attento alla ricchezza del suono, Son Little preferisce
lavorare per sottrazione e giocarsela sul contrasto fra vuoti e pieni.
Gli arrangiamenti sono decisamente minimal, anche se spesso illuminanti,
e gli strumenti entrano nelle canzoni in punta di piedi, quasi
chiedendo il permesso, come a non voler disturbare l’ascolto della voce
ruvida e appassionata di Livingston.
Il
risultato è un disco di black music quasi lo-fi (non è un caso che i
titoli delle canzoni siano tutti in minuscolo), attraversato da un
sottile respiro malinconico e fluttuante in una dimensione atemporale,
ove vintage e contemporaneità si fondono in un unicum indistinguibile.
Dodici canzoni in scaletta e quasi tutte bellissime: il singolo hey rose,
costruito su una distorta linea di basso e con un tiro melodico che,
anche nel cantato, ricorda un po' i N.E.R.D. di Fly Or Die, about her. again,
classicissima ballata soul, che gioca sul contrasto fra una batteria
riverberata e vuoti di silenzio che danno spazio al cantato afflitto di
Son Little, la dolcezza eterea di suffer, capace di sciogliere in lacrime anche il cuore più indurito dalla vita, o la liquida bellezza delle tastiere di don’t wait up,
altra ballata che stringe l’anima in una morsa di lacrime e commozione
(e che meraviglia quella chitarrina svagata e al contempo
malinconicissima).
Chissà
se con questo nuovo disco, Son Little riuscirà ad attirare su di sé
l’attenzione che merita e a ritagliarsi gli spazi mediatici che
dovrebbero essere dati a un musicista della sua levatura. Comunque sarà,
aloha ha fin da subito tutte le carte in regola per entrare
nel cuore degli appassionati di genere e guadagnarsi lo status di disco
rivelazione del 2020.
Il ragazzo sarà in tour in Europa questo aprile, anche se al momento non sono previste date in Italia. Peccato.
VOTO: 8
Blackswan, giovedì 27/02/2020
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