Sono passati ormai due anni da Lost In The Desert, secondo disco solista di RosGos, moniker sotto il quale si cela il lombardo Maurizio Vaiani, noto in passato anche per aver fatto parte, come cantante, della storica band Jenny’s Joke.
Un disco, il precedente, che spaziava tra diversi generi, declinati con audacia, certo, ma anche con una visione d’insieme quanto mai calibrata, e che dipingeva un melting pot espressivo dai colori cangianti, in cui convivevano pop, rock americano, folk e punk, dando asilo alle diverse sfaccettature di un’anima artistica curiosa e inquieta. Oggi, quell’approccio esuberante, quel girovagare in spazi aperti, senza cartine o coordinate, ma motivato solo dal desiderio di perdersi, si è trasformato per RosGos in un introverso percorso interiore, con una destinazione certa: l’Inferno dantesco, i gironi che lo compongono, una discesa lenta nello sprofondo ellittico del male di vivere.
D’altra parte, in due anni il mondo è cambiato e ha mostrato, ancor di più, il suo sguardo arcigno, malevolo e feroce. Se due anni fa, a perdersi era un musicista spinto da un’insaziabile amore per la creatività, in Circles è in gioco, invece, la deriva stessa dell’umanità, naufragata, forse irrimediabilmente, negli effetti esiziali di due anni di pandemia, scossa, nuovamente, dalla strattonata feroce di una guerra ingiusta, centrifugata dalle ansie e dalle frustrazioni di un’esistenza che non dà scampo più a nessuno, distillando l’ignobile percolato di una società violenta e senza etica. E’ l’Inferno, sono i gironi a cui siamo destinati, qui, sulla terra, la morte in vita.
Nessuna enfasi, nessuno stereotipo, nessuna banalizzazione, però. Vaiani è un musicista sensibile, che si tiene lontano da intenti moralistici, preferendo indagare con lucidità, e che veste i panni del poeta Virgilio, prendendo per mano l’ascoltatore e accompagnandolo, attraverso nove emozionanti canzoni, mostrando, suggerendo, a volte consolando anche, quando il buio ghermisce la vista, e la luce della melodia (e della speranza) illumina l’impervia strada.
Il bisogno di diversificazione espressiva che pervadeva Lost In The Desert, in Circles diviene approccio rigoroso, il suono da cangiante, si fa crepuscolare, a tratti ossianico, abbracciando, senza però replicarla pedissequamente, l’inquieta geografia dark-wave di ottantiana memoria, in cui emergono riconoscibilissimi echi da Cure, Opposition e Cocteau Twins, solo per citarne alcuni. Una veste formale perfetta per questo concept album che si nutre di una cupa e inquieta armonia, e in cui ogni cosa è al suo posto, incastonata nel quadro d’insieme, con la consapevolezza di chi sa prendere le distanze dalla materia e sa raccontare, trasformando l’angoscia dello sprofondo in linguaggio artistico universale.
Tutto funziona a meraviglia nelle nove tracce che compongono la scaletta del disco: la dissonante costruzione di canzoni in cui il nitore melodico trasfigura il respiro plumbeo delle atmosfere ("Limbo", "Lust", "Fraud", solo per citarne tre), le linee vocali, declinate con sicurezza ed eleganza, la produzione di Marco Torriani, che, con tocco mirabile, evita sapientemente scoscesi presbiteriani, insufflando nelle sulfuree volute infernali, aria pulita e una persistente sensazione di spazio tridimensionale.
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