E' di ieri la grana sulla proposta di abolizone degli ordini professionali, infilata nel decreto-finanziaria e subito avversata dai numerosi parlamentari avvocati o notai.
Ho sentito parlare di difesa dei privilegi di una casta, e poichè non condivido mi pare il caso di chiarire un paio di questioni.
In generale, gli ordini professionali vengono considerati un ostacolo alla liberalizzazione del mercato, perchè limiterebbero l'accesso dei più giovani alle professioni e perchè imporrebbero odiosi balzelli come ad esempio i minimi tariffari inderogabili.
Va però considerato che il mercato delle libere professioni non è come il mercato agricolo, edilizio, meccanico e quant'altro, dove più prodotti ci sono e meglio è per i consumatori in quanto si abbassano i prezzi e si alza la qualità.
Nelle professioni non esiste alta qualità a basso costo, perchè studiare ed aggiornarsi costa, ed è un costo che almeno in parte deve per forza essere ricaricato sui clienti.
E questo, fermo restando che la qualità si paga comunque, anche nei mercati normali, perchè una Mercedes non è mai costata come una Fiat.
Ma a parte ciò, con i costi delle professioni gli ordini c'entrano proprio poco.
I compiti istituzionali degli ordini sono: tenere aggiornati gli albi, liquidare le parcelle ed esercitare l'azione disciplinare nei confronti degli iscritti.
Personalmente ritengo che il mio ordine, che poi è quello degli avvocati, dovrebbe essere più cauto nel liquidare certe parcelle (somme astronomiche richieste a fronte del nulla) e meno timoroso nell'esercitare l'azione disciplinare nei confronti di alcuni tangheri che dovrebbero occuparsi di tutto tranne che di diritto.
Ma dire che gli ordini, in sè, limitino il mercato mi pare una scemenza.
Anche se lo si dice pensando, ad esempio, all'organizzazione degli esami, che in teoria è il contesto in cui la categoria potrebbe tentare di adottare una forma tacita di numero chiuso bocciando quasi tutti.
L'ordine di Milano, che ogni anno faceva strage di candidati all'esame, e l'ordine di Catanzaro, dove passava il 95% dei candidati, erano due ordini sulla carta uguali, quindi di che cosa stiamo parlando?
Ed oggi, con il sistema secondo cui gli scritti di una sede vengono corretti in un'altra sede, il dato nazionale è omologato in una forbice che va grosso modo dal 20% al 35% di promossi, che non è mica poco.
Ma più a monte di tutto ciò, non ho assolutamente capito quale sarebbe il vantaggio, per l'economia nazionale, nell'abolizione degli ordini.
Gli ordini non consumano risorse pubbliche perchè sono alimentati dai contributi degli iscritti.
Per contro, chi è iscritto ad un ordine professionale è tendenzialmente iscritto anche alla cassa previdenziale della categoria.
Via gli ordini, via le casse, milioni di professionisti che diventano INPS.
Anche ipotizzando che i contributi già versati alle singole casse vengano fatti confluire nell'INPS, avete idea del casino che ne verrebbe fuori?
E dato che i versamenti INPS rendono mediamente un terzo di quelli, ad esempio, della cassa forense, sarebbe legittimo imporre ai professionisti i minori rendimenti di una gestione dissennata dopo che per una vita hanno versato i loro contributi ad una cassa che funziona meglio?
Il tutto, nemmeno per legge ordinaria con le opportune discussioni in aula o in commissione, ma per decreto.
A me personalmente che il mio ordine viva nei secoli o sparisca domani non me ne frega niente.
Ho la presunzione di essere bravo nel mio lavoro e quindi credo che il lavoro non mi mancherà mai, ordine o non ordine, in competizione aperta o limitata.
Però ragionare in termini così dozzinali come è stato fatto ieri sui giornali non aiuta la gente a capire i problemi.
I costi e i privilegi delle caste, secondo me, sono tutt'altra cosa dal conservare o meno gli ordini professionali.
Ezzelino da Romano
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