Ho
inziato ad amare il calcio molto presto, all'età di quattro o cinque
anni, non più tardi. Questione di Dna, credo : mio nonno materno
aveva militato in serie A, nelle fila della mitica Pro Patria. Lo
chiamavano il motorino biondo, per via dei capelli chiari e di un'inesauribile
propensione alla corsa. Si ritirò ancora giovane, a causa di un grave incidente
al costato, solo poco prima di firmare un contratto per la Juventus, e ho
sempre pensato che quel grave infortunio fosse un suo anticipato tributo
d'affetto al nipote interista che sarebbe nato quarant'anni dopo ( se avesse
militato nella Juve, per la vergogna mi sarei dato al curling o alle bocce ).Ho
ricordi chiarissimi delle partite che guardavo nel televisore in bianco e nero
della sala, seduto sulle gambe del nonno. Ogni tanto, gli chiedevo per quale
delle due squadre tifasse, e lui mi rispondeva sempre, con salomonico
ritegno, : " Per quella che gioca il calcio più divertente ". Ero
troppo piccolo per riflettere sulla cosa : a me piaceva veder rotolare la
palla, e non capivo una ceppa di triangolazioni, sovrapposizioni, assists e
rabone. Quindi incassavo la frase come un'oscura, ma ineffabile verità, e
mi limitavo a fissare a bocca aperta quel pallone bianco a scacchi neri, che di
lì a breve sarebbe diventato, insieme alla musica, il compagno di
avventure della mia vita. Finchè il pallone rotolava, io ero contento e mi
divertivo. E tanto bastava, Ancora non avevo la squadra del cuore, dal momento
che, a casa mia, a parte mio nonno, nessuno si interessava di sport, e mio
padre, che al massimo si dichiarava tiepidamente " simpatizzante del
Torino ", ostentava una discreta antipatia per chiunque fosse tifoso di calcio
( un branco di invertebrati, diceva ). Fu lui, però, a instillarmi la passione
per i colori nerazzurri e, per quanto mi riguarda, credo sia stata la cosa
migliore che abbia fatto nella sua vita. Era domenica pomeriggio e la Rai
passava un tempo della partita più importante della giornata : Milan- Inter.
D'istinto, e per quello che si poteva vedere nello schermo sgrausissimo di
una televisione in bianco e nero dell’anteguerra, mi schierai per la
squadra che sembrava indossare la casacca più bella, nello specifico
l'Inter. Ma quando la Beneamata iniziò a prendere un goal via l'altro (
perdemmo di brutto, quella volta ), cambiai immediatamente barricata e mi
schierai in favore del Milan ( questo è coming out, baby ! ). Quando lo spiegai
a mio padre, che stranamente si era interessato ai miei movimenti, mi assestò
uno scapellotto e mi apostrofò col termine, per me allora incomprensibile, di
"voltagabbana". Non capivo cosa volesse dire, ma suonava malissimo, e
da quel momento iniziai una carriera da interista sfegatato, non fosse alto per
evitare ulteriori randellate sul coppino.
I primi
calci al pallone li tirai al campetto davanti a casa : partite esagerate, dalla
durata media di tre ore, due felpe a fare i pali della porta e il portiere
volante a dare un tocco di imprevedibilità all'agone. Se ero abbastanza veloce
a dirlo prima degli altri, io facevo Facchetti ( ciao Cipe ! ) e non c'era
verso di farmi cambiare idea, anche se, di solito, finivo per giocare di punta
( il più grande equivoco calcistico della mia vita iniziò a perseguitarmi fin
dalla tenera età ). Quando scendevo al campetto a giocare, me ne andavo in giro
tutto orgoglioso, indossando la mia maglietta nerazzurra numero 3 ( un pò lunga
di maniche a dire il vero ), un paio di fantastiche scarpette Tepa Sport
nere e tenendo sotto il braccio il mitico Tele ( che volava, e che quindi
veniva messo dietro la porta, per essere utilizzato solo nel caso in cui il
pallone di cuoio si perdesse o si bucasse ).
La prima vera squadra in cui militai fu
quella dell'Oratorio di Via Soderini : l'allenatore dei Pulcini mi aveva visto
giocare al campetto e mi volle a tutti i costi in rosa. Con il benestare dei
miei genitori, accettai la proposta e
così mi ritrovai, con una scintillante casacca gialloverde, a vestire (
nuovamente )i panni dell'attaccante ( perchè tutti pensassero che fossi una
punta, dio solo lo sa ). Siccome non era il mio ruolo, feci un solo goal in
quindici partite : una leppa al volo sotto l'incrocio, così bella e precisa che
ancora oggi faccio fatica ad attribuirmene la paternità. Un solo goal per un
centravanti è un pò pochino, lo so. Il fatto è che io non ero una punta (
non lo sono mai stato ), e anche se molti dei miei allenatori era intimamente
convinti che fosse il mio destino, io desideravo giocare più dietro, a
centrocampo. Perchè nel calcio ci sono due tipi di giocatori : quelli che hanno
un ruolo e quelli che se ne ritagliano uno. Io conoscevo già il mio, lo sentivo
nelle gambe e nel sangue, e lo capivo da come guardavo le partite e
intuivo i movimenti della palla. Io ero un mediano. Non ho mai avuto i piedi
buoni e il fiuto del goal: troppo emotivo per dare la schiena alla porta e
trovare l'attimo giusto per girarmi e insaccare.
E poi, ho sempre pensato
che dare la schiena alla porta fosse un pò come voltare le spalle al mondo
e vivere di espedienti : che il lavoro lo facciano gli altri, io sto qui pronto
ad approfittare dell'occasione per rubare un pò di immeritata gloria.
Perchè per fare la punta, lo dico con rispetto e ammirazione, ci vuole
l'istinto del killer, una buona dose di cinismo e molta freddezza. Tutte doti
di cui ero ( e sono ) completamente sprovvisto. Ad ogni modo, campetto o
oratorio che fosse, io finivo sempre per giocare in attacco, e ben presto
iniziai a capire il ruolo e ad adattarmi a movimenti che sentivo innaturali
come lo sarebbe pulirmi le chiappe con la carta vetrata. Finchè un giorno, un
mio allenatore ( più intuitivo di tutti gli altri ), stufo di vedermi correre a
perdifiato nel tentativo commovente, ma decisamente sterile, di segnare
qualche goal, mi accontentò e mi mise a giocare in mediana. E da quel momento,
la mia vita ( calcistica ) cambiò. In meglio. Ero felice ed ero
sempre titolare, mica pizza e fichi. Vorrei tuttavia precisare una
cosa, tanto per non ingenerare equivoci : non pensate a me come al
classico centrocampista dalla testa alta, i piedi buoni e il lancio
millimetrico. Io correvo come un bufalo sbronzo, rompevo le trame di gioco
avversarie, facevo a sportellate come un vichingo all’assedio, picchiavo come
un fabbro incattivito da problemi di acidità e mi limitavo poi a
passare la palla a quelli tecnicamente più validi.
CONTINUA DOMANI...
Blackswan, sabato 24/11/2012