Provate a fare un breve
ricerca sul web per vedere quali e quante siano le collaborazioni a cui ha dato
vita Dan Auerbach, , e rimarrete esterrefatti. Solo tra il 2012 e il 2013, il
leader dei Black Keys ha prodotto una decina di dischi, tutti peraltro balzati
all’onore delle cronache musicale. Tra questi artisti, oltre a Bombino, Valerie
June, Dr. John, Hacienda e Michael Kiwanuka,
spicca per bravura anche Hanni El Khatib, giovane rocker proveniente dalla
California, ma di origini evidentemente esotiche (padre palestinese e madre
indonesiana). Il ragazzo, nel 2011, ci era piaciuto assai con Will The Guns
Come Out, esordio fulminante di ruvido garage rock e ballate da marciapiede. Un
disco, quello, molto ingenuo, molto imperfetto, molto scarno, molto corto, ma
decisamente irrorato di sanguigno trasporto e urgenza espressiva. Oggi, grazie
ai buoni uffici di Auerbach, che quando veste i panni del produttore appare indiscutibilmente
dotato del famoso tocco di re Mida, Hanni El Khatib torna sulle scene con un lavoro
che da una bella passata di spugna sullo sporco che impregnava le canzoni degli
inizi e propone invece un filotto di brani vestiti di un casual finto grezzo (e
molto piacione), che aumenterà notevolmente l’appeal del giovane songwriter
americano. La formula, anche se ripulita nell’anima, è quella degli esordi:
rock, garage, una spruzzata di blues e qualche ammiccamento brit pop che, non
si sa mai, potrà venire utile per lanciare il disco sull’altra sponda dell’oceano.
Il risultato, se cancelliamo dalle orecchie lo sgangherato entusiasmo di due
anni fa, è indubbiamente piacevole. D’altra parte, Auerbach (qui, coautore di
quasi tutti i brani), con El Camino, ha dato vita a una notevole sterzata nella
carriera artistica dei Black Keys, ottenendo un successo prima nemmeno
immaginato. Così, a immagine e somiglianza di quel suono, sta plasmando forma e
contenuti di chiunque decida di mettere nelle sue capaci mani la produzione di
un disco (il medesimo percorso di El Kathib lo ha fatto Bombino). Fatte queste
premesse, Head In The Dirt risulta essere senz’altro un buon disco, e tra i
suoi solchi si trovano parecchie canzoni che bucano le cuffie e ti si piazzano
in testa grazie a riff energici e ritornelli appiccicosi. L’immagine stracciona
e molto rocker della copertina (non vi torna alla mente Copperhead Road di
Steve Earl?) è però replicata solo in parte. Prevale piuttosto la lungimirante
visione di chi sa creare un prodotto commerciale di qualità che sicuramente non
dispiacerà a quanti amano apparire intenditori di un certo tipo di rock, senza
però complicarsi eccessivamente la vita. Il primo disco era decisamente meglio,
questo però venderà. Ascoltate un po’ voi.
VOTO : 6,5
Blackswan, 02/10/2013
4 commenti:
Ecco,il voto è giusto
ciao grande Black
Il disco venderà può darsi..Mi ricorda molto la tecnica musicale dei
Black Keys che non rientrano proprio nelle mie corde...
Vedremo...
Enjoy the music grande Blacky!
ero all'oscuro
grazie
@ Badit : ciao rRagassuolo ! ;)
@ Nella : Peccato ! I Black Keys sono un grande gruppo.
@ Ernest : :)
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