La meraviglia è continuare
a trovare nei negozi, con (ormai) consolidata continuità, dischi come Emmaar.
Il settimo lavoro dei Tinariwen dimostra infatti che anche nel nostro paese c’è
uno zoccolo duro di ascoltatori che sanno guardare ben al di là delle
convenzioni di una musica rock, incapace da tempo di veri scatti di
originalità. Se già l’anno scorso avevamo gioito per un discone davvero di
livello come Chatma dei connazionali Tamikrest (il disco di Bombino prodotto da
Dan Auerbach invece ci aveva lasciati un pò più tiepidi), quest’anno è
altrettanto bello inserire nel lettore un album che, come Emmaar, declina con il
consueto livello d’ispirazione quelle sonorità desertiche che sono il marchio
di fabbrica della band maliana. La tribolazione dell’esilio, però, questa volta
ha portato i Tinariwen a misurarsi con il deserto californiano del Mojave,
quello del Joshua Tree, per intenderci. Nuove coordinate, dunque, per un disco
che se da un lato mantiene una coerenza stilistica granitica, dall’altro si
arricchisce però di piccoli nuovi elementi, tutti decisivi. In primo luogo, la
presenza di musicisti americani (Josh Klinghoffer dei Red Hot Chili Peppers,
Matt Sweeney dei Chavez, il rapper
Saul Williams e il multistrumentista Fats Kaplin) , grazie ai quali gli
elementi di reciproca contaminazione raggiungono un perfetto punto di fusione. E in secondo luogo, e a mio avviso questo è
il segno distintivo più peculiare, le undici canzoni in scaletta sono figlie di
una produzione e di arrangiamenti più riflessivi, che trattengono l’impetuoso fluire
della musica del gruppo in favore di un mood più cupo e malinconico. Manca,
insomma, quel brio che aveva connotato i lavori precedenti e che stemperava in
qualche modo il messaggio di dolore (la guerra, l’esilio, la barbarie, il
costante pensiero della morte) che in Emmaar risulta invece dominante. Non un
disco di facile lettura (se non siete in sintonia con il genere musicale è un’autentica
scalata a piedi nudi), che, tuttavia, cresce, ascolto dopo ascolto, per
rivelare autentiche gemme come l’iniziale Toumast Tincha e l’andamento possente
della superba Koud Edhaz Emin.
Voto: 7
Blackswan, sabato 22/02/2014
4 commenti:
Da sentire e risentire..
Non li conoscevo proprio..
Grazie Blacky!+++++
La loro musica è quella che ascolto più volentieri e senza mai stancarmi, negli ultimi anni.Interessante e suggestivo l'incontro tra il blues che viene dal deserto africano e quello proveniente dal deserto californiano.Il blues che gira il mondo nello spazio e negli anni e si ri-incontra con sè stesso dopo essersi arricchito di altre meravigliose tristezze musicali..
@Nella nellina: Ahi! ahi! ahi!
@Black: ""... Manca quel brio che aveva connotato i lavori precedenti." Concordo!
Adoro questa musica!
Cristiana
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