Quanti avrebbero scommesso
sulla carriera artistica di Lana Del Rey? Quanti avrebbero dato credito a
questa ragazza che, certo, ci aveva sorpreso con l’esordio di Born To Die, ma
alla fine dei conti appariva come un fenomeno estemporaneo destinato a perdersi
nella paccottiglia di MTV? Probabilmente nessuno. O meglio, ci saremmo attesi
un seguito che replicasse il primo disco con quasi inevitabile carenza di
ispirazione. Invece, questa Jessica Rabbit in carne e ossa, con annesso passato
di dipendenze alcoliche, torna con un album che elude ogni eventuale
elucubrazione negativa, che sorprende per maturità e rigore estetico, che tralascia
ogni possibile ammiccamento adolescenziale a favore di un songwriting che non suona
mai, ma proprio mai, “radio friendly”. Ultraviolence inizia così con Cruel
World, quasi sette minuti di cupa ballata psichedelica che solo un artista
affermatissimo può permettersi a inizio album, pena il suicidio commerciale.
Invece, Lana si prende tutti i rischi e sforna un piccolo capolavoro che
rispecchia perfettamente la definizione che la stessa artista newyorkese ha
dato di questo nuovo full lenght: cinematografico e dark. Prodotto egregiamente
da Dan Auerbach (Black Keys), che in questo momento storico risulta più
brillante dietro la consolle piuttosto che dietro una chitarra, Ultraviolence
denota un’omogeneità di suoni e una cifra stilistica di straordinaria coerenza
che lega ogni parte della scaletta con un aura di ultraterrena ispirazione. Se
si eccettua il singolo West Coast (uno dei brani migliori della breve carriera
di Lana) non c’è quasi nulla che possa avere un appeal commerciale. Ci sono
però canzoni che crescono ascolto dopo ascolto, che ci accompagnano in un
percorso di sognante malinconia tra blues demodè (The Other Woman) e visioni
dream pop anni ’80 alla Cocteau Twins (Brooklyn Baby), che stordiscono per la
precisione del tratto con cui Lana dipinge le ombre del crepuscolo (la marcia funebre
di Guns And Roses assume caratteri quasi ossianici). Ultraviolence, in
definitiva, è un disco niente affatto compiacente, anzi è probabilmente molto
più ostico e originale di quanto chiunque si sarebbe mai potuto immaginare,
anche a voler concedere credito infinito alla talentuosa Del Rey. La quale, con
questa seconda opera, può indossare di diritto i panni della dark lady che
avevamo intravisto con Born To Die. E se da un lato, Lana perderà una fetta di
pubblico non preparata a una svolta così radicale e venderà poco, dall’altro è
indubbio che si guadagnerà il consenso di quanti amano una musica più adulta, complessa
e ragionata. Benvenuta nel club degli artisti veri.
VOTO: 7,5
Blackswan, domenica 15/06/2014
8 commenti:
Io la adoro...penso che con questo secondo album si stia levando parecchi sassolini dalle scarpe dopo tutte le critiche che aveva ricevuto in passato!
Anche io ho recensito ultraviolence...se ti va passa a dare un'occhiata! :)
Io la adoro...penso che con questo secondo album si stia levando parecchi sassolini dalle scarpe dopo tutte le critiche che aveva ricevuto in passato!
Anche io ho recensito ultraviolence...se ti va passa a dare un'occhiata! :)
Lo sto apprezzando anch'io: ascolto dopo ascolto cresce. Bellissime atmosfere;sound originale e personale. Unica piccola pecca, avrei preferito alcuni brani più brevi come minutaggio, a sfumare dolcemente...
quanti avrebbero scommesso su lana?
probabilmente nessuno?
io veramente sì! :)
su ultraviolence è ancora presto per dare un giudizio definitivo, però non mi sembra niente male.
a me lei piace molto e aspettavo questo disco, mi fido della recensione ;)
Me lo devo ancora ascoltare tutto ma il sound mi ricorda i suoi inediti e anche il suo primissimo album che fece come Lizzy Grant.
Ecco, io ero una di quelle che non avrebbe scommesso un euro...
Per un attimo ho temuto mi stroncassi anche lei dopo i The Black Keys :(
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