Robyn Ludwick è una di
quelle artiste che, a dispetto di un luminoso talento, resterà per sempre
relegata nel sottobosco musicale dove si aggira un numero ristretto di
appassionati, quelli cioè che inesausti cercano sempre nuove sensazioni, a
costo pure di raschiare il barile. Stellina in patria (Texas), apprezzata dalla
critica specializzata, ma praticamente sconosciuta o quasi al resto del mondo,
States compresi. La incontrai per caso nel 2011, durante un pomeriggio in cui
ciondolavo inconcludente fra youtube e il web. Fu la copertina di Out Of These
Blues, ai tempi la sua ultima fatica discografica, ad attrarre la mia
attenzione, e da quella cover di blu intenso, a recuperare il disco fu un
attimo. Ascoltai Hollywood, la prima canzone, e pensai subito che un brano
così, anche da solo, sarebbe bastato a nobilitare una carriera. Il fatto poi
che tutte le dodici canzoni del disco fossero dello stesso livello, che non vi
fosse traccia di fillers, che una scaletta di cinquanta minuti e passa suonasse
così intensa dall’inizio alla fine, aveva del miracoloso. Da qui la curiosità
di sapere quale e quanta strada avrebbe fatto la Ludwick e, soprattutto, se in
futuro sarebbe stata capace di ripetersi (con l’intima convinzione che si, ce l’avrebbe
fatta senz’altro). Ho atteso tre anni e il tempo ha dato ragione alla mia
intuizione. Robyn Ludwick è tornata con Little Rain che non sfigura affatto
rispetto a Out Of These Blues ed è un disco davvero, davvero buono. Diverso dal
suo predecessore, dal quale si discosta per un suono decisamente più scarno, più
marcatamente roots music, e per gli arrangiamenti essenziali, eppure segnato
ancora da un songwriting intenso e ispirato anche a livello testuale: storie di
vite segnate dal lavoro e dalla solitudine della routine, racconti di amori
consacrati al fallimento, uno sguardo disilluso sulla realtà di ogni giorno e
una profondo senso di tristezza. La voce della Ludwick sussurra intimismo o
arriva potente al cuore, ci ferma il respiro con il suo carico di quieta
disperazione (Heartache è una delle canzoni più depresse che abbia ascoltato
quest’anno), ci accompagna nei territori di un country soul maledettamente
sincero (Breaks My Mind), ci travolge con un’urgenza che disarma (Stalker,
Mama), sospende il tempo con un blues antico e carico di sofferenza (Honky Tonk
Feelin’) e si concede perfino uno spiraglio di leggerezza che rinfranca
(Somethin’ Good). Prodotto con sensibilità filologica da Gurf Morlix, che
mantiene vivo il suono tradizionale senza però esasperarlo, suonato con misura
da Rick Richards (batteria), John Ludwick (marito dell’artista texana al basso)
e dalla stessa Robyn, alle prese con le chitarre, Little Rain è un disco crudo
e diretto, il cui mood malinconico esalta il talento di un’artista che maneggia
il suono americano con gusto inimitabile. Un’artista che meriterebbe ben altri
palcoscenici e che vi invito con tutto il cuore a scoprire. Non ne rimarrete
delusi.
VOTO: 8
Blackswan, domenica 31/08/2014
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